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Sulla deposizione del “Papa eretico” da parte del “Concilio imperfetto”
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Ancora Arnaldo Da Silveira: La “Nuova Messa” E Le 5 Opinioni Teologiche Sul “Papa Eretico”

Una “Teoria Nuova” Di Appena …  50 Anni

Padre Louis Bouyer 

Nel 1964 padre Bouyer scriveva: «Il Canone romano risale, tale e quale è oggi, a San Gregorio Magno († 604). Non vi è, in Oriente come in Occidente, nessuna preghiera eucaristica che, rimasta in uso fino ai nostri giorni, possa vantare una tale antichità! Agli occhi non solo degli Ortodossi, ma degli Anglicani e persino dei Protestanti che hanno ancora in qualche misura il senso della Tradizione, gettarlo a mare [come è stato fatto con la “Nuova Messa di Paolo VI”, ndr] equivarrebbe, da parte degli uomini della Chiesa Romana, a rinnegare ogni pretesa di rappresentare mai più la vera  Chiesa Cattolica» (Louis Bouyer, Mensch und Ritus, 1964).

È quello che ora, purtroppo, sta facendo apertamente papa Bergoglio (in questo soltanto, “viva la faccia della sincerità” …) e che hanno iniziato a fare nascostamente Giovanni XXIII, Paolo VI (di cui ci occupiamo nel presente articolo per rapporto alla Nuova Messa montiniana), Giovanni Paolo II e Benedetto XVI.

Monsignor Klaus Gamber

L’ex Vescovo di Ratisbona Monsignor Klaus Gamber, nel 1979, scriveva: «La Liturgia Romana è rimasta pressoché immutata attraverso i secoli nella sua sobria e piuttosto austera forma risalente ai primi Cristiani. Essa s’identifica con il Rito più antico. Nel corso dei secoli, molti Papi hanno contribuito alla sua configurazione: San Dàmaso papa († 384), per esempio, e successivamente soprattutto San Gregorio Magno († 604) […]. La Liturgia damasiano/gregoriana è quella che è stata celebrata nella Chiesa latina sino alla Riforma liturgica dei nostri giorni [novembre 1969, ndr]. Non è quindi esatto parlare di abolizione del “Messale di San Pio V”. A differenza di quanto è avvenuto oggi in maniera spaventosa, i lievi cambiamenti apportati al Missale Romanum nel corso di quasi 1400 anni non hanno toccato il Rito della Messa: si è bensì trattato solo di arricchimenti, per l’aggiunta di feste, di Propri di Messe e di singole preghiere […].

«Non esiste in senso stretto una “Messa Tridentina” o “di San Pio V”, per il fatto che non è mai stato promulgato un nuovo Ordo Missae in séguito al Concilio di Trento da San Pio V. Il Messale che San Pio V fece approntare nel 1570 fu il Messale della Curia Romana, in uso a Roma da molti secoli, risalente all’era apostolica e che i Francescani avevano già introdotto in gran parte dell’Occidente: un Messale, tuttavia, che prima di Pio V non era mai stato imposto universalmente, in modo unilaterale dal Papa e che Pio V impose la Chiesa universale, salvo i riti che vantavano un’antichità di almeno 200 anni: rito ambrosiano, mozarabico, cartusiano, domenicano ... […].

«Sino a Paolo VI, i Papi non hanno mai apportato alcun cambiamento all’Ordo Missae, ma solo ai “Propri” delle Messe per le singole festività. […]. Noi parliamo piuttosto di Ritus Romanus e lo contrapponiamo al Ritus Modernus. […]. L’unico punto su cui tutti i Papi, dal secolo V in poi, hanno insistito è stato l’estensione di questo Canone Romano alla Chiesa universale, sempre ribadendo che esso risale all’Apostolo Pietro, che visse gli ultimi anni della sua vita a Roma e vi morì nel 64. […].

«Il rito Romano si può definire come l’insieme delle forme obbligatorie del Culto che, risalenti in ultima analisi a N. S. Gesù Cristo e agli Apostoli, si sono sviluppate nei dettagli a partire da una Tradizione apostolica comune, e sono state più tardi sancite dall’Autorità ecclesiastica. […]. Un Rito che nasce da una Tradizione apostolica comune […] non può essere rifatto “ex novo” nella sua globalità. […].

«Ha il Papa il diritto di mutare un Rito che risale alla Tradizione apostolica e che si è formato nel corso dei secoli? […]. Con l’Ordo Missae del 1969 è stato creato un nuovo Rito [in rottura scismatica con la Tradizione apostolica, ndr]. L’Ordo tradizionale è stato totalmente trasformato e addirittura, alcuni anni dopo [estate del 1976, ndr], proscritto. Ci si domanda: un così radicale rifacimento è ancora nel quadro della Tradizione della Chiesa? No. […][1].

«Nessun documento della Chiesa, neppure il Codice di Diritto Canonico, dice espressamente che il Papa, in quanto Supremo Pastore della Chiesa, ha il  diritto di abolire il Rito tradizionale. Alla “plena et suprema potestas” del Papa sono chiaramente posti dei limiti […]. Più di un autore (Gaetano, Suarez) esprime l’opinione che non entri nei poteri del Papa l’abolizione del Rito tradizionale. […]. Di certo non è compito della Sede Apostolica distruggere un Rito di Tradizione apostolica, ma suo dovere è quello di mantenerlo e tramandarlo. […].

«Nella Chiesa orientale e occidentale non si è mai celebrato versus populum, ma ci si è volti ad Orientem […]. Che il celebrante debba rivolgere il viso al popolo fu sostenuto per la prima volta da Martin Lutero [e poi da Paolo VI, ndr]. […]. In alcune basiliche romane, l’altare era orientato versus populum, poiché l’ingresso era situato ad Oriente [Oriente dove sorge il sole, che è il simbolo di Gesù, quindi l’altare si volgeva verso l’Oriente ossia ad Dominum, ndr]. I Cristiani, dopo l’Omelia, si alzavano per la Preghiera successiva e si volgevano ad Oriente. […]. Affinché i raggi del sole sorgente ad Oriente potessero entrare all’interno delle chiese durante la Messa, nei secoli IV e V, a Roma e altrove, l’ingresso fu posto ad Oriente. Durante la preghiera le porte dovevano essere lasciate aperte e la preghiera doveva avvenire necessariamente in direzione delle porte. Il celebrante stava dietro l’altare in modo da potere, al momento del Sacrificio, volgere lo sguardo ad Oriente. Perciò la sua non era una celebrazione versus populum perché anche i fedeli, durante la Prece, si volgevano ad Oriente. […]. Inoltre i fedeli prendevano posto nella navate laterali a destra e a sinistra dell’altare e  l’altare durante la Prece Eucaristica veniva occultato da cortine. Perciò se i fedeli non guardavano l’altare non gli davano neppure le spalle, poiché erano nelle navate laterali ed avevano l’altare alla loro destra o alla loro sinistra, formando un semicerchio aperto a Oriente col celebrante» (Klaus Gamber, La riforma della Liturgia Romana. Cenni Storici – Problematica, [1979], tr. it., Roma, Una Voce, giugno/dicembre 1980, pp. 10, 19-20, 22, 26- 29, 30, 53-56); per fare un esempio, si veda la Basilica di San Pietro (≈ Sacerdote) col Colonnato del Bernini (≈ fedeli), che guarda dal Colle del Vaticano verso via della Conciliazione ove sorge il sole.

In un vecchio libro sulla Messa del 1921, Fortescue, asseriva: «Le preghiere del nostro Canone si trovano nel trattato De Sacramentis (fine del IV-V secolo) [...]. La nostra Messa risale, senza mutamento essenziale, all'epoca in cui si sviluppava per la prima volta dalla più antica liturgia comune [circa trecento anni dopo Cristo]. Essa serba ancora il profumo di quella Liturgia primitiva, nei giorni in cui Cesare governava il mondo e sperava di poter spegnere la Fede cristiana; i giorni in cui i nostri padri si riunivano avanti l'aurora per cantare un inno a Cristo come a loro Dio (cfr. Plinio junior, Ep. XCVI). Non vi è, in tutta la Cristianità, rito altrettanto venerabile quanto la Messa romana» (A. Fortescue, La Messe, Parigi, Lethielleux, 1921).

Padre Patrick Fahey

Recentemente, padre Patrick Fahey dell’Augustinianum di Roma, nel Dizionario patristico e di antichità cristiane, diretto da Angelo Di Berardino (Casale Monferrato, Marietti, II ed., 1994, II vol., coll., 2232-2338) scrive: «Dall’età apostolica a Ippolito[2], nei primi 4 secoli del Cristianesimo, le Comunità cristiane parlavano  di “frazione del pane” (I Cor., X, 6; Atti, II, 42; XX, 7; Didaché[3], XIV, 1; S. Ignazio d’Antiochia[4], Epistola agli Efesini, XX, 2). […]. La combinazione della “Liturgia della parola” [Letture della S. Scrittura e Predica, ndr] con la “frazione del pane” [Consacrazione sacramentale del pane e del vino, ndr] apparve abbastanza presto (Atti, II, 42; XX, 7[5]); molto  probabilmente, all’inizio dell’era cristiana, l’azione eucaristica era quella del pane/calice/pasto, tuttavia la “frazione del pane” prese il primo piano quando (I Cor., XI, 20-21; 33-34[6]) si separò l’azione eucaristica [o Consacrazione del pane e del vino, ndr] dal pasto vero e proprio o agape fraterna. […]. L’azione rituale era composta di quattro parti: 1) preparazione o offerta del pane e del vino [Offertorio, ndr]; 2) preghiera di ringraziamento [Canon Missae, ndr]; 3) frazione del pane [Consacrazione del pane e del vino, ndr]; 4) Comunione eucaristica. Fu così che il “pasto in comune o agape” assunse un altro significato (per i poveri). Già alla  fine del I secolo, il termine “Eucharistia” cominciò a designare la “frazione del pane” (S. Ignazio  d’Antiochia, Smirne, VII, 1; VIII, 1; Efesini, XIII, 1; Filippesi, IV, 1) e quest’azione fu trasferita principalmente alla domenica mattina. Ciò condusse ad un ulteriore indebolimento dell’aspetto di pasto. […], [che fu messo in primo piano  da Lutero e sullo stesso piede del Sacrificio eucaristico dalla Nuova Messa di Paolo VI, ndr].

«La prima descrizione concreta della Liturgia eucaristica è quella di San Giustino[7], c.ca 150 (I Apol., 65-67): Letture degli Apostoli o dei Profeti; Omelia; Preghiera; Bacio  di pace; Offerta del pane e del vino; Comunione; Colletta o raccolta delle offerte. La lingua liturgica è il greco. La Liturgia descritta da Ippolito (Traditio Apostolica) comprende: Offerta del pane e del vino, Canone eucaristico, Consacrazione eucaristica, distribuzione della Comunione eucaristica, con le Letture e l’Omelia. […].

«Il Canone dovrebbe aver ricevuto la sua forma definitiva durante l’epoca di S. Gregorio Magno († 604). Certamente il Gloria esisteva in latino a Roma prima del VI secolo. Il canto dell’Agnus Dei fu introdotto alla fine del VII secolo da papa Sergio I (687-701)[8]».

Cardinali Alfredo Ottaviani E Antonio Bacci

«Lettera Di Presentazione Del “Breve Esame Critico Del Novus Ordo Missae”»

«Esaminato e fatto esaminare il Novus Ordo […] sentiamo il dovere, dinanzi a Dio ed alla Santità Vostra, di esprimere le considerazioni seguenti: Come dimostra sufficientemente il pur “Breve Esame Critico” allegato […]. Il Novus Ordo Missae, considerati gli elementi nuovi, […] rappresenta, sia nel suo insieme come nei particolari, un impressionante allontanamento dalla teologia cattolica della Santa Messa, quale fu            formulata nella Sessione XXII del Concilio Tridentino, il quale, fissando definitivamente i “canoni” del rito, eresse una barriera invalicabile contro qualunque eresia che intaccasse l’integrità del Magistero. […]. Sempre i sudditi, al cui bene è intesa una legge, laddove questa si dimostri viceversa nociva, hanno avuto, più che il diritto, il dovere di chiedere con filiale fiducia al legislatore l’abrogazione della legge stessa»[9].

Questa è la constatazione della rottura o discontinuità tra la Messa di Tradizione apostolica e la nuova Messa di Paolo VI, della quale i due Cardinali chiedono la “abrogazione”, poiché una legge deve essere promulgata ad bonum commune obtinendum, per il bene comune, mentre la nuova riforma liturgica è “nociva” per le anime (e vedremo il perché).

Il Contenuto Del “Breve Esame Critico”

Riporto ora l’essenza del “Breve Esame Critico”:

«§ I […]. Nella Costituzione Apostolica [Missale Romanum, 3 aprile 1969] si afferma che l'antico Messale, promulgato da S. Pio V il 13 luglio 1570, ma risalente in gran parte a Gregorio Magno e ad ancor più remota antichità, fu per quattro secoli la norma della celebrazione del Sacrificio per i sacerdoti di rito latino e [poi fu, ndr] portato in ogni terra, […]. Un esame particolareggiato del Novus Ordo rivela mutamenti di portata tale […] da contentare, in molti punti, i protestanti più modernisti. […].

«§ II Cominciamo dalla definizione di Messa al § 7 […]. La definizione di Messa è limitata a quella di “cena”. […]. Non implica, in una parola, nessuno dei valori dogmatici essenziali della Messa e che ne costituiscono pertanto la vera definizione. Qui l'omissione volontaria equivale al loro “superamento”, quindi, almeno in pratica, alla loro negazione. […]. Come è fin troppo evidente, l'accento è posto ossessivamente sulla cena e sul memoriale anziché sulla rinnovazione incruenta del Sacrificio del Calvario. Anche la formula “Memoriale Passionis et Resurrectionis Domini” è inesatta, essendo la Messa il memoriale del solo Sacrificio, che è redentivo in se stesso, mentre la Resurrezione ne è il frutto conseguente. […].

«§ III E veniamo alle finalità della Messa. 1°) Finalità ultima. È il Sacrificio di Lode alla Santissima Trinità, […]. Questa finalità [nel nuovo rito, ndr] è scomparsa: – dall'Offertorio, con la preghiera Suscipe, Sancta Trinitas; – dalla conclusione della Messa con il Placeat tibi, Sancta Trinitas; – e dal Prefatio, che nel ciclo domenicale non sarà più quello della Santissima Trinità, riservato ora alla sola festa e che quindi sarà pronunziato una sola volta l'anno. 2°) Finalità ordinaria. È il Sacrificio propiziatorio. Anch'essa è deviata, perché anziché mettere l'accento sulla remissione dei peccati dei vivi e dei morti lo si mette sulla nutrizione e santificazione dei presenti (n. 54). 3°) Finalità immanente. Qualunque sia la natura del sacrificio è essenziale che sia gradito a Dio e da lui accettabile ed accettato. Nello stato di peccato originale nessun sacrificio avrebbe diritto di essere accettabile. Il solo sacrificio che ha diritto di essere accettato è quello di Cristo. Nel Novus Ordo si snatura l'offerta in una specie di scambio di doni tra l'uomo e Dio: l'uomo porta il pane e Dio lo cambia in “pane di vita”; l'uomo porta il vino e Dio lo cambia in “bevanda spirituale”. […].

«§ IV Passiamo all'essenza del Sacrificio. Il mistero della Croce non vi è più espresso esplicitamente, ma in modo oscuro, velato, impercettibile dal popolo. Eccone le ragioni: 1°) Il senso dato nel Novus Ordo alla cosiddetta “Prex eucharistica […]. Di quale sacrificio si tratta? Chi è l'offerente? Nessuna risposta a questi interrogativi. […]. La menzione esplicita del fine dell’offerta, che era nel Suscipe, non è stata sostituita da nulla. Il mutamento di formulazione rivela il mutamento di dottrina. 2°) La causa di questa non esplicitazione del Sacrificio è, né più né meno, la soppressione del ruolo centrale della Presenza Reale, […] (n. 241, nota 63). Alla Presenza Reale e permanente di Cristo in Corpo, Sangue, Anima e Divinità nelle Specie transustanziate non si allude mai. La stessa parola transustanziazione è totalmente ignorata. […] [il Novus Ordo rappresenta un, ndr] sistema di tacite negazioni, di degradazioni a catena della Presenza Reale. L’eliminazione poi delle genuflessioni […]; della purificazione delle dita del sacerdote nel calice; della preservazione delle stesse dita da ogni contatto profano dopo la Consacrazione; della purificazione dei vasi […]; della palla a protezione del calice; della doratura interna dei vasi sacri […] tutto ciò non fa che ribadire in modo oltraggioso l'implicito ripudio della Fede nel dogma della Presenza Reale. […]. 3°) La funzione assegnata all’ altare […] quasi costantemente chiamata mensa. 4°) Le formule consacratorie. L'antica formula della Consacrazione era una formula “propriamente” sacramentale, e non narrativa, indicata

soprattutto da tre cose [e principalmente da, ndr] […] la punteggiatura e il carattere tipografico; vale a dire il punto fermo e daccapo, che segnava il passaggio dal modo narrativo al modo sacramentale e affermativo, e le parole sacramentali in carattere più grande, al centro della pagina e spesso di diverso colore, nettamente staccate dal contesto storico. Il tutto dava sapientemente alla formula un valore proprio, un valore autonomo; […]. Nella nota 15 per quanto riguarda la validità della consacrazione nella nuova Messa il “Breve Esame” scrive: Le parole della Consacrazione, quali sono inserite nel contesto del Novus Ordo, possono essere valide in virtù dell’intenzione del ministro. Possono non esserlo perché non lo sono più ex vi verborum o più precisamente in virtù del modus significandi che avevano finora nella Messa. I sacerdoti, che, in un prossimo avvenire, non avranno ricevuto la formazione tradizionale e che si affideranno al Novus Ordo al fine di ‘fare ciò che fa la Chiesa’ consacreranno validamente? È lecito dubitarne. Vale a dire, data la nuova forma grafica della Consacrazione, la formula del Novus Ordo non è più in sé strettamente parlando o “propriamente” una forma di Sacramento, ma lo può diventare solo impropriamente in virtù dell’intenzione del sacerdote. Si pone perciò un problema per i futuri sacerdoti che verranno de-formati con la “nuova teologia”, i quali potrebbero non rendere in senso stretto “forma del Sacramento dell’Eucarestia” quella che è solo una “forma sacramentale” in senso lato o improprio.

«§ V Veniamo ora alla realizzazione del Sacrificio. I quattro elementi di esso erano nell’ordine 1°) il Cristo; 2°) il sacerdote; 3°) la Chiesa; 4°) i fedeli. Nel Novus Ordo, la posizione attribuita ai fedeli è autonoma (absoluta), quindi totalmente falsa: dalla definizione iniziale: “Missa est sacra synaxis seu congregatio populi” al saluto del sacerdote al popolo (n. 28) […]. Vera presenza di Cristo, ma solo spirituale, e mistero della Chiesa, ma come pura assemblea che manifesta e sollecita tale presenza. Ciò si ripete ovunque: il carattere comunitario della Messa ossessivamente ribadito (nn. 74-152); l'inaudita distinzione tra “Missa cum populo” e “Missa sine populo” (nn. 203-231); […].

«§ VI Ci siamo limitati ad un sommario esame del Novus Ordo, nelle sue deviazioni più gravi dalla teologia della Messa cattolica. […]. È evidente che il Novus Ordo non vuole più rappresentare la Fede di Trento. A questa Fede, nondimeno, la coscienza cattolica è vincolata in eterno. Il vero cattolico è dunque posto, dalla promulgazione del “Novus Ordo”, in una tragica necessità di opzione. […].

«§ VIII […]. S. Pio V curò l'edizione del Missale Romanum […] mai come in questo caso appare giustificata, quasi profetica, la sacra formula che chiude la Bolla di promulgazione del suo Messale: “Se qualcuno presumesse attentare a quanto abbiamo decretato, sappia che si attirerà l’indignazione di Dio Onnipotente e dei suoi Beati Apostoli Pietro e Paolo” (Bolla Quo primum tempore, 13 luglio 1570) […]. L'abbandono di una Tradizione liturgica […] (per sostituirla con un'altra, che non potrà non essere segno di divisione per le licenze innumerevoli che implicitamente autorizza, e che pullula essa stessa di insinuazioni o di errori palesi contro la purezza della Fede cattolica) appare, volendo definirlo nel modo più mite, un incalcolabile errore».

(Corpus Domini 1969).

La Disamina Del Da Silveira Sulla “Nuova Messa” (1970)

La parte più bella e meglio concepita del libro succitato di Arnaldo Xavier Vidigal da Silveira (La Nouvelle Messe de Paul VI: Qu’en péneser?, Chiré-en-Montreuil, DPF, 1975) è senz’altro la prima, in cui l’Autore dimostra in maniera apodittica 1°) la semi/eterodossia ereticale filo-luterana della “Nuova Messa di Paolo VI”, che è 2°) anche oggettivamente in totale rottura scismatica con la Tradizione apostolica liturgica.

Tali errori dogmatico/liturgici restano nel Rito della Nuova Messa, che non è stato ritoccato, anche dopo le correzioni della sola Institutio generalis o Introduzione teologica del 1969 del Novus Ordo Missae, apportate da papa Montini nel 1970[10], a causa delle pesanti riserve espresse sulla Nuova Messa nel 1968/1969 dal Cardinale Prefetto del S. Uffizio Alfredo Ottaviani, il quale aveva studiato il Novus Ordo Missae e lo aveva fatto studiare per tre mesi pure da tutti i teologi del S. Uffizio, prima di presentare a papa Montini,  assieme al Cardinale Antonio Bacci, una “Lettera di accompagnamento” al “Breve Esame Critico del Novus Ordo Missae”, che non ebbe alcuna risposta da parte di Paolo VI e che, come disse nel 1995, il Cardinal Alfonso Maria Stickler (uno dei massimi studiosi della storia del diritto canonico  del secolo XX) “attende ancora una risposta”[11]

A partire dalla costatazione oggettiva della rottura evidente  (basta assistere alla Nuova Messa e a quella tradizionale per vedere e sentire la totale difformità e contrapposizione dei due riti: il primo antropocentrico e il secondo teocentrico) il da Silveira, nella seconda parte del suo libro, affronta la questione del “Papa eretico o scismatico”, che secondo lui andrebbe deposto  ipso facto, facendo però un passaggio indebito dall’ipotetico (è una opinione teologica puramente speculativa e investigativa che il Papa possa cadere in eresia formale) al certo (è teologicamente certo che il Papa può cadervi e perde ipso facto il Pontificato) e questa è la grave lacuna della seconda parte del libro, che tuttavia mantiene tutta la sua attualità e perfezione teologica nella sua prima parte, la quale assieme al “Breve Esame Critico del Novus Ordo Missae” con la “Lettera di accompagnamento”, firmata dai Cardinali Alfredo Ottaviani e Antonio Bacci e consegnata nelle mani di Paolo VI di persona dai due Porporati è quanto di meglio sia stato scritto contro gli errori della Nuova Messa del 1969.

Bugnini, La “Nuova Messa” E La Massoneria

Dopo aver letto queste pagine sull’antichità di origine divino/apostolica della Messa tradizionale romana viene spontaneo domandarsi: “Ma come si è potuti arrivare a tanto sfacelo liturgico, in rottura aperta ed evidente con la Tradizione apostolica?”. Ebbene Andrea Tornielli, in un articolo pubblicato sul mensile 30 giorni, dice espressamente che vi fu anche lo zampino della Massoneria, oltre la mentalità modernistica di Paolo VI e di Monsignor Annibale Bugnini il principale artefice, assieme ai Cardinali Lercaro e Doepfener, subordinatamente a Paolo VI, della Riforma liturgica del 1969.

Nel giugno del 1992 il n. 6 del mensile “30 Giorni”, nato nel 1982, vicino al movimento “Comunione e Liberazione” fondato da don Luigi Giussani, diretto poi dal senatore a vita Giulio Andreotti, riportava in copertina una squadra, un compasso e una “pentalfa” o stella a cinque punte (i simboli della Massoneria), appoggiate sul Canon Missae del Messale Romano di San Pio V. Il titolo recitava: «La Massoneria e l’applicazione della Riforma liturgica». Il sottotitolo: «“Scristianizzare mediante la confusione dei riti e delle lingue” è l’ordine contenuto in una lettera che il Grand’Oriente avrebbe indirizzato a Monsignor Bugnini, principale artefice della Riforma liturgica. È autentica? I risultati pratici, […], sembrano confermare l’esistenza di un progetto. Se fosse falsa, sarebbe segno che il pensiero massonico è diventato mentalità dominante tra i Cattolici. Senza che neppure se ne accorgano».

All’interno del mensile un “Dossier liturgia” di 16 pagine a cura di Andrea Tornielli, ora affermato giornalista, vicino all’Opus Dei e a papa Bergoglio, che s’interroga: «Il latino è scomparso in soli cinque anni dalla Chiesa. Com’è stato possibile?».

Tornielli afferma, a pagina 41, «Una Babele cercata». Ossia la confusione delle lingue liturgiche, dopo la soppressione pratica, anche se non teorica del latino, è stata voluta e cercata scientemente e deliberatamente. Non è stato un “incidente di percorso”, o una “crisi di crescita”, come si è soliti dire in linguaggio curiale post-conciliare. L’Articolista constata che se de jure il Concilio Vaticano II con la “Sacrosantum Concilium” non aveva abrogato il latino, anche se aveva lasciata la libertà alle Conferenze Episcopali di introdurre nel rito della Messa e negli uffici liturgici la lingua vernacolare, de facto «nel giro di appena cinque anni dalla fine del Concilio [8 dicembre 1965, ndr], il latino era di fatto scomparso dai libri liturgici per essere interamente soppiantato dalle lingue nazionali» (p. 43).

Il Tornielli, quindi, si chiedeva: «Come si è arrivati a “de-latinizzare” interamente prima il Messale e poi il Breviario dei preti?» (ivi).

A questo punto Tornelli risponde citando la famosa lettera che il 14 luglio del 1964 il Gran Maestro della Massoneria del Grand’Oriente d’Italia avrebbe inviato a Monsignor Annibale Bugnini, chiamato in codice, “Buan” in cui si invita «a diffondere la s-cristianizzazione mediante la confusione dei riti e delle lingue. […]. La Babele linguistica e ritualistica sarà la nostra vittoria, come l’unità linguistica e di rito è stata la forza della Chiesa. […]. Il tutto deve avvenire entro un decennio» (p. 43).

Il “fratello Buan” ovvero Annibale Bugnini ha, o avrebbe, risposto il 2 luglio del 1967. L’Articolista si chiede se le lettere siano autentiche, cosa difficile da dimostrare poiché scritte a macchina e fotocopiate da una “talpa” vaticana che «le avrebbe poi fatte avere ad alcuni Vescovi e Cardinali amici, tra cui l’Arcivescovo di Genova Giuseppe Siri e il Prefetto della Segnatura apostolica Dino Staffa». Se si da credito alle lettere, conclude Andrea Tornelli, «sarebbe esistito un vero e proprio “progetto” di erosione all’interno della dottrina e della liturgia della Chiesa cattolica, ma potrebbe trattarsi di falsi. […]. Comunque i risultati ottenuti dalle riforme di Bugnini concordano pienamente con l’intento che vi è espresso» (p. 44). Vale a dire ammesso e non concesso che le lettere siano un falso, esse sono veridiche, poiché l’effetto che si prefiggevano si è avverato pienamente.

“Dai loro frutti li riconoscerete” ci insegna il Vangelo. Qualcuno ha detto che Monsignor Bugnini fu allontanato da Roma nel 1975 ed inviato come pro-Nunzio apostolico a Theran in Iran da Paolo VI († 1978), ove rimase sino alla sua morte avvenuta il 3 luglio 1982, poiché preoccupato e irritato della sua presunta affiliazione massonica oramai ingombrante poiché venuta alla luce.

Quello che è certo è il fatto che Paolo VI non ha voluto mai ascoltare le suppliche di chi gli chiedeva l’abrogazione della Riforma liturgica di “Bugnini”? (i Cardinali Alfredo Ottaviani e Antonio Bacci nelle “Lettera di presentazione” al “Breve Esame Critico del Novus Ordo Missae”, 1969) o almeno di “lasciar fare anche l’esperienza della Tradizione” (Monsignor Marcel Lefebvre, 1976) e neppure al suo amico Jean Guitton che gli esponeva, nei loro colloqui, le sue perplessità sulla Riforma liturgica (Paolo VI segreto, Cinisello Balsamo, San Paolo, II ed., 2016). Quindi, ammesso e non concesso che il principale autore della Riforma sia stato Bugnini e non Montini, assieme a Lercaro e Doepfener, è certo che essa è stata accettata e difesa “con le unghie e con i denti” da Paolo VI, il quale riteneva abrogata la Messa tridentina dalla promulgazione del Nuovo Rito, come scrisse a Monsignor Marcel Lefebvre nel 1976, ordinandogli di non celebrare più la Messa di Tradizione apostolica per celebrare quella promulgata da lui, che è oggettivamente metà cattolica e metà luterana e in evidente rottura con a Tradizione apostolica liturgica (altare rivolto al popolo, lingua volgare, Canone da recitarsi ad alta voce e addirittura urlato col microfono, Comunione eucaristica in piedi e poi anche sulla mano, eliminazione della genuflessione del sacerdote sùbito dopo la Consacrazione del pane e del vino, eliminazione della purificazione delle dita del celebrante, abolizione del dover mantenere pollice e indice delle mani del celebrante che hanno toccato l’Ostia consacrata, unite per evitare che le particelle dell’Ostia contenente realmente Gesù Cristo, andassero perdute).

Il Motuproprio di Benedetto XVI (2007)

Il pregio oggettivo, assieme alle ambiguità delle affermazioni sul “rito straordinario e ordinario”, del Motu proprioSummorum Pontificum cura” del 7 luglio 2007 di Benedetto XVI è quello di aver riconosciuto, che la Messa detta di San Pio V non è mai stata abrogata e non poteva esserlo, poiché la Liturgia è un Luogo teologico ed è “la Fede pregata” e il potere è stato consegnato a Pietro per edificare la Fede e non per abrogarla o mutarla.

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Seconda Parte

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Le Cinque Diverse Opinioni Sul Papa Eretico

Dopo aver costatato la oggettiva rottura tra il Nuovo Rito montiniano e la Messa romana di Tradizione apostolica il  da Silveira passa a illustrare le 5 opinioni teologiche sostenute dai Dottori della Chiesa nella Controriforma e dai teologi più qualificati  della terza Scolastica. Qui di séguito riassumo ciò che l’Autore ha scritto su tali ipotesi teologiche e mi permetto di confutare le sue incongruenze, che nulla tolgono alla serietà scientifica del libro in questione.

A pagina 30/31 del suo libro citato nel precedente articolo (La nouvelle Messe de Paul VI: Qu’en penser? Chiré-en-Montreuil, DPF, 1975) Arnaldo Xavier Vidigal da Silveira fa uno schema riassuntivo, molto utile e ben redatto, delle cinque opinioni dei Dottori ecclesiastici sulla ipotesi teologica del Papa eretico.

Prima Ipotesi

Egli distingue nettamente tra di loro le cinque tesi ipotetiche e insegna che la prima opinione o meglio l’antecedente, che è quella insegnata comunemente come la più probabile dalla maggior parte dei teologi e dei Dottori (S. Roberto Bellarmino, Francisco Suarez, Melchior Cano, Domingo Soto, Giovanni da San Tommaso, Juan de Torquemada, Louis Billot, Joachim Salaverri, Antonio Maria Vellico, Charles Journet) è che il Papa come Papa non può cadere in eresia formale, mentre può favorire l’eresia o cadere in eresia materiale come dottore privato oppure come Papa, ma solo nel magistero non definitorio, non obbligante e quindi non infallibile (cfr. A. X. da Silveira, p. 33, nota 1; cfr. B. Gherardini, Concilio Ecumenico Vaticano II. Un discorso da fare, Frigento, Casa Mariana Editrice, 2009; Tradidi quod et accepi. La Tradizione, vita e giovinezza della Chiesa, Frigento, Casa Mariana Editrice, 2010; Concilio Vaticano II. Il discorso mancato, Torino, Lindau, 2011; Quaecumque dixero vobis. Parola di Dio e Tradizione a confronto con la storia e la teologia, Torino, Lindau, 2011; La Cattolica. Lineamenti d’ecclesiologia agostiniana, Torino, Lindau, 2011[12]). Perciò la conseguente è che il Papa non perde il Pontificato a causa della sua eresia, poiché questa non è ritenuta teologicamente certa, ma solo ipoteticamente possibile o al massimo probabile.

Seconda Opinione

La seconda opinione, tenuta in conto da Juan de Torquemada (Summa de Ecclesia, Venezia, Tramezinus, 1561), ma che non è stata seguìta da altri teologi di fama, ritiene che il Papa possa cadere in eresia come dottore privato e, “ammessa e non concessa” tale possibilità, il Papa eventualmente eretico perderebbe ipso facto il Pontificato anche solo per l’eresia interna e non conosciuta da altri, poiché tra eresia e giurisdizione l’incompatibilità è assoluta e non solo in radice; nel qual caso l’eresia taglierebbe la radice della giurisdizione e non l’intera giurisdizione. Sarebbe come tagliare la radice di un albero che resterebbe in vita ancora per qualche tempo, mentre se taglio l’albero intero (assolutamente o in sé e per sé) esso cessa ipso facto di esistere (R. Bellarmino, De Romano Pontifice, lib. II, cap. 30, p. 420; F. Suarez, De Fide, disputatio XXI, sectio III, n. 7, p. 540; L. Billot, Tractatus de Ecclesia Christi, Prato, Giachetti, 1909, tomo I, p. 612; J. Salaverri, De Ecclesia Christi, Madrid, BAC, 1958, p. 930; A. X. da Silveira, op. cit., p. 88, nota n. 5). Siccome, però, la Chiesa di Cristo è una società visibile, non è possibile ammettere la perdita di giurisdizione per un motivo non conoscibile dai fedeli e dai Vescovi, altrimenti la struttura visibile, gerarchica e giuridica della Chiesa, che è anch’essa di istituzione divina, dipenderebbe solo da cogitazioni mentali.

Terza Opinione

La terza opinione è stata presa in esame da un solo teologo francese del XIX secolo (D. Bouix, Tractatus de Papa, Parigi/Lione, Lecoffre, 1869) su oltre 137 autori; essa ritiene che il Papa se per ipotesi cadesse in eresia manterrebbe egualmente il Pontificato, ma i fedeli non dovrebbero restare passivi, manifestando al Papa il suo errore affinché si corregga (cfr.  A. X. da Silveira, Qual è l’autorità dottrinale dei documenti pontifici e conciliari?, “Cristianità”, n. 9, 1975; Id., È lecita la resistenza a decisioni dell’Autorità ecclesiastica?, “Cristianità”, n. 10, 1975; Id., Può esservi l’errore nei documenti del Magistero ecclesiastico?, “Cristianità”, n. 13, 1975) senza tuttavia poterlo dichiarare deposto (“depositus”) o deponendo (“deponendus”); questa terza opinione non è condivisa da tutti i teologi “probati”.

Quarta Opinione

La quarta opinione è stata studiata soprattutto dal Cardinal Tommaso de Vio detto il Gaetano, da Giovanni di San Tommaso (De auctoritate Summi Pontificis, Québec, Università di Laval, 1947)  e anche da Francisco Suarez (che esamina la prima e la quarta, ma ritiene più probabile la prima della quarta); secondo la quarta opinione occorre che vi sia una dichiarazione dell’eresia del Papa da parte dell’Episcopato o del Collegio cardinalizio, la quale dichiarazione non sarebbe una decisione e deposizione giuridica, ma renderebbe evidente il fatto che Cristo ha ritirato il Pontificato al Papa (“prima Sedes a nemine iudicatur”), che sarebbe “decaduto” più che deposto giuridicamente dopo le ammonizioni canoniche dei Vescovi o dei Cardinali per evitare l’errore conciliarista. Come si vede questa è la via che aveva tentato di percorrere già nel 1964 l’Abbé Georges de Nantes.

Quinta Opinione

La quinta opinione è quella presa in considerazione da Melchior Cano (De locis theologicis, lib. IV, cap. 2, Roma, Cucchi, 1900), da Domingo De Soto (In IV Sent., dist. 22, q. 2, a. 2, Venezia, Zenarius, 1584, vol. I, pp. 1085-1088), da S. Roberto Bellarmino e dal Card. Louis Billot i quali, dopo aver posto come antecedente la maggior probabilità che il Papa come tale, e non come dottore privato, non può cadere in eresia, ne tirano la conseguenza che, se ciò dovesse avvenire per pura ipotesi speculativa, allora il Pontefice romano perderebbe il Pontificato ipso facto. Tuttavia il da Silveira trascura l’antecedente, che è per i Dottori della seconda Scolastica una pura ipotesi possibile o al massimo probabile, ma mai teologicamente certa e ne tira la conseguenza come se fosse teologicamente certa, ricalcando, filosoficamente, l’argomento ontologico, ossia il passaggio dall’idea di Dio alla sua esistenza reale e compiendo, teologicamente, un passaggio indebito dal possibile/probabile al certo. Questa è la lacuna di tutto il bel lavoro antologico del da Silveira, che lo porta a ritenere teologicamente certa l’ipotesi dell’eresia del Papa e la conseguente perdita automatica del Pontificato.

Secondo il Bellarmino (De Romano Pontifice, lib. II, cap. 30, p. 420), siccome gli eretici manifesti, notori e pubblici  perdono ipso facto la giurisdizione, ammesso e non concesso che il Papa possa cadere in eresia, in caso di eventuale eresia manifesta egli perderebbe immediatamente l’autorità papale. Questa è l’interpretazione della posizione bellarminiana data dai padri gesuiti Franz Xavier Wernz e Pedro Vidal (Jus Canonicum, Roma, Gregoriana, 1943, vol. II, p. 517). Il da Silveira (op. cit., pp. 83-85; p. 93 nota 14; p. 94 nota 17) sostiene l’interpretazione della tesi del Bellarmino data da Wernz-Vidal (cfr. anche L. Billot, Tractatus de Ecclesia Christi, Prato, Giachetti, 1909, tomo II, p. 617; J. Salaverri, De Ecclesia Christi, Madrid, BAC, 1958, p. 879, n. 1047). Come già notato sopra il da Silveira compie un passaggio indebito dal possibile al certo e reale quando scrive (op. cit., p. 96-97) che «un eventuale Papa eretico perderebbe il suo incarico nel momento in cui la sua eresia diverrebbe “notoria e pubblicamente divulgata”».

Ricapitolando Le 5 Ipotesi

Come si vede è di capitale importanza distinguere 1°) l’antecedente (“se per pura ipotesi speculativa il Papa cadesse in eresia …”), la quale non è ammessa come certa da nessun teologo o Dottore controriformistico e neo-scolastico; 2°) dalla conseguente (“… allora perde il Pontificato ipso facto o dopo una dichiarazione da parte dell’Episcopato?”). Purtroppo il da Silveira si focalizza sulla conseguente prendendola erroneamente per teologicamente certa, senza dedurla filosoficamente, come la logica formale comanda, dall’antecedente che è solamente possibile o probabile. Per cui il suo libro risulta essere una buona compilazione storico/antologica delle cinque diverse opinioni dei teologi, ma teoreticamente pecca di conclusione logicamente e teologicamente indebita quando passa dall’ipotesi dell’antecedente alla certezza della conseguente.

Basta studiare attentamente ciò che scrive il da Silveira medesimo: “Gli Autori contrassegnati da due asterischi [**] (Bellarmino, Suarez, Billot) ritengono più probabile che il Papa non possa cadere in eresia, ma non considerano certa questa opinione” (p. 29). Egli invece la considera teologicamente certa.

Conclusione Del Presente Articolo

Per quanto riguarda la prima parte del libro sulla “Nuova Messa di Paolo VI” nulla da eccepire, anzi essa è (assieme al “Breve Esame Critico del Novus Ordo Missae”) una delle migliori critiche fatte alla Nuova Messa del 1969; perciò è ottima e mostra tutte le gravi deficienze dogmatiche e liturgiche, che rendono il Novus Ordo Missae tendenzialmente luterano e oggettivamente in forte rottura con la Tradizione apostolica del Canon Missae romanum.

Invece per quanto riguarda la seconda parte di esso, è evidente che l’opinione del “Papa eretico deposto o deponendo” è una sola ipotesi congetturale e che soprattutto non ha uno sbocco pratico, sotto pena di cadere nell’eresia conciliarista. Quindi “tanta fatica per nulla”, alla fine si resta con un pugno di mosche in mano, come ha dimostrato anche la storia di tutti gli Autori che hanno cercato di risolvere il mistero d’iniquità operante già ai tempi del Concilio Vaticano II e poi nel postconcilio con la deposizione 1°) ipso facto oppure 2°) dopo una monizione canonica e un giudizio penale dell’Episcopato/Cardinalato nei confronti del Papa reputato eretico e giudicato giurisdizionalmente come tale.

Fine Della Settima Parte

Continua

don Curzio Nitoglia



[1] Questo problema è analogo a quello che si pone oggi con Bergoglio, il quale con la Esortazione Amoris laetitia (19 marzo 2016) ha autorizzato la partecipazione alla Comunione eucaristica da parte di coloro  che vivono in stato di peccato  mortale (divorziati risposati) e che non vogliono abbandonare questo  stato; mentre con il Sinodo amazonico (inverno 2020) si appresterebbe ad abrogare la norma di origine divino/apostolica del celibato  ecclesiastico. Molti Cardinali, Vescovi e persino il Pontefice dimissionario, Benedetto XVI, gli hanno detto che non ha questo potere, dovendo lui conservare la Tradizione divino/apostolica e non cambiarla o distruggerla, come insegna pure il Concilio Vaticano I. Tuttavia sembra che tiri dritto e ostinatamente non solo per la Comunione ai divorziati risposati, ma anche per quanto riguarda il celibato  ecclesiastico.

[2] Ippolito è uno Scrittore ecclesiastico, non un Padre della Chiesa, vissuto nella prima metà del III secolo. Fu Vescovo, ma non si sa di quale Diocesi, di lui ne parlano Eusebio di Cesarea (Hist. Eccl.) e S. Girolamo (De virib. ill.). L’opera più famosa che gli viene attribuita è il Philosophumena, ossia Syntagma o Elenco di tutte e eresie, in cui ne tratta 32 confutandole;  essa ci  è stata tramandata da Epifanio Vescovo di Salamina (365-403), nato in Palestina verso il 315 nel suo Panarion, in cui tratta addirittura ben 80 eresie e le confuta. Inoltre sono attribuiti a Ippolito vari Commenti ai Libri della S. Scrittura, tra cui i più attuali sono Commento all’Apocalisse e il Trattato Su Cristo e l’Anticristo. Cfr. M. Simonetti, Prospettive escatologiche della Cristologia di Ippolito: Bessarione I, La Cristologia nei Padri della Chiesa, Roma, 1979, pp. 85-101; A. Zani, La Cristologia di Ippolito, Brescia, 1984; Angelo Di Berardino, diretto da, Dizionario patristico e di antichità cristiane, Casale Monferrato, Marietti, II ed., 1994, 2° vol., coll. 1791-1798, voce “Ippolito” a cura di P. Nautin; Id., cit., 1° vol., coll. 1162-1164, voce “Epifanio di Salamina” a cura di C. Riggi.

[3] La “Didaché” è uno scritto di un Autore anonimo, tuttavia l’opera è assai importante poiché ci permette di conoscere le abitudini religiose del popolo cristiano nel I-II secolo. Essa fu composta probabilmente tra il 130 e il 150 (cfr. A. Fliche – V. Martin, Storia della Chiesa, vol. I, La Chiesa primitiva, III ed., 1958, Cinisello Balsamo, San Paolo, cap. X, I Padri apostolici, a cura di a cura di  P. Ortiz de Urbina, p. 430).

[4] Ignazio, Vescovo d’Antiochia, poco prima del 100 fu arrestato e condotto a Roma, dove si aspettava di subire il Martirio. Dopo aver attraversato l’Asia Minore arrivò a Smirne, il cui Vescovo allora era San Policarpo ancora giovanissimo. Da lì scrisse una Lettera a ciascuna delle chiese di Efeso, di Tralli e di Magnesia, poi scrisse anche ai Romani annunciando il suo prossimo arrivo; indi giunse nella Troade e qui  scrisse una Lettera alla chiesa di Filadelfia, una a quella di Smirne e un’altra a Policarpo Vescovo di Smirne. Queste sette Epistole sono state conservate e sono giunte sino a noi. Esse sono posteriori di circa dieci anni a quella di S. Clemente (96-98) e furono scritte mentre Ignazio viaggiava da Antiochia di Siria verso Roma ove morì attorno al 107.

[5] Gli Atti degli Apostoli furono scritti da San Luca attorno al 62. Al capitolo II versetto 42 San Luca scrive che i Cristiani «erano assidui alle istruzioni degli Apostoli, alle opere di carità, alla comune frazione del pane e all’orazione». Padre Marco Sales commenta: «Le occupazioni di primi Cristiani erano essenzialmente quattro: 1°) assistevano con assiduità alle istruzioni fatte dagli Apostoli sulla vita e gli insegnamenti di Gesù; 2°) si davano alle opere di carità fraterna (“tè koinoìa”) con eguale diligenza, giacché sin da allora essi formavano una Comunità ben separata dai Giudei; 3°) perseveravano nella fractio panis, ossia nella celebrazione dell’Eucarestia, come si legge nella versione siriaca. È certo  che la frazione del pane indichi l’Eucarestia, la quale è chiamata così a motivo di quanto narrato sulla sua istituzione (“prese il pane, lo spezzò…”: Mt., XXVI, 26; Mc., XIV, 22; Lc., XXII, 19); 4°) erano anche assidui nelle orazioni. Si tratta di orazioni determinate e proprie della liturgia dei Cristiani, le quali essendo qui congiunte con le istruzioni  o prediche degli Apostoli e con la partecipazione all’Eucarestia, è  molto probabile che fossero  quelle usate durante la celebrazione del Sacrificio eucaristico» (Commento agli Atti degli Apostoli, Torino, Berruti, 1911, p. 30, nota n. 42; ristampa Proceno – Viterbo, Effedieffe, 2016). Inoltre al capitolo XX versetto 7 gli Atti riportano: «Il primo giorno della settimana, essendoci  adunati per spezzare il pane, Paolo parlava ad essi e allungò il discorso sino alla mezzanotte». Padre Sales chiosa: «Il primo giorno della settimana è la Domenica, che già sin dai primi tempi si consacrava in modo speciale al Signore, Risorto di Domenica (I Cor., XVI, 2; Apoc., I, 10) per spezzare il pane, ossia per celebrare la SS. Eucarestia. La celebrazione del Santo sacrificio della Messa aveva luogo la sera, come lascia comprendere il contesto», infatti San Paolo che sta celebrando di sera inizia la predica e la protrae sino alla mezzanotte (M. Sales, Commento agli Atti degli Apostoli, Torino, Berruti, 1911, p. 119, nota n. 7; ristampa Proceno – Viterbo, Effedieffe, 2016).

[6] San Paolo nella I Epistola ai Corinzi (XI, 20-21; 33-34), la quale fu scritta tra il 55 e il 57 ad Efeso, rimprovera i Cristiani, affermando: «Quando vi riunite in comune per la celebrazione eucaristica, non mangiate degnamente la Cena del Signore. Infatti ognuno nel mangiare, consuma prima la propria agape, e così uno ha fame, invece un altro è ubriaco. Non avete forse le vostre case ove magiare e bere? […]. Perciò, o fratelli, quando vi riunite per mangiare l’agape aspettatevi a vicenda. Se qualcuno ha fame, mangi prima a casa sua, affinché non vi riuniate a vostra condanna» . Monsignor Settimio Cipriani commenta: «La “Cena del Signore” è l’Eucarestia, che viene nettamente distinta  dalla “cena propria o agape fraterna”. Infatti l’Eucarestia non è una “egoistica agape o cena privata”. Se “l’agape privata” deve ridursi ad un baccanale per i ricchi, (i quali portano da casa loro ogni ben di Dio per la “agape comunitaria”, ma poi lo mangiano loro stessi e non lo spartiscono con gli altri) e ad un digiuno umiliante per i poveri, (i quali non hanno quasi nulla da portare e restano a guardare i ricchi, che mangiano lautamente ciò che hanno portato); allora ognuno mangi a “casa sua” e così non offenderà i fratelli  poveri. […]. Quindi non si celebri l’Eucarestia prima che tutta la Comunità sia riunita ed ogni agape o banchetto privato, che non sia il Convivio eucaristico, sia escluso dalla riunione sacra, perciò si elimini l’agape fraterna, che servirebbe solo allo sfogo intemperante della golosità dei più ricchi ed affamati» (Le Lettere di San Paolo, Assisi, Cittadella Editrice, 1965, p. 191, nota n. 20; p. 195, nota n. 33). Padre Marco Sales chiosa così: «Ciascuno di voi, invece di mettere in comune i cibi portati per l’agape fraterna, li riserva per sé e per i suoi, e comincia a mangiare la sua agape, senza aspettare gli altri coi quali avrebbe dovuto condividerla. Allora ecco che i poveri, venuti senza abbondanti provvigioni, patiscono  la fame; mentre i ricchi, invece di soccorrerli, si abbandonano  alle intemperanze della golosità e si ubriacano. I fedeli, infatti, in teoria avrebbero dovuto portare da casa, ciascuno secondo le proprie possibilità, i cibi necessari per tutti e per il pasto comune e fraterno, ma, poi  all’atto pratico, ciascuno pretendeva di mangiare ciò che aveva portato personalmente anche se era destinato per il pasto comune e fraterno. […]. Io - continua l’Apostolo - non posso lodarvi, poiché il modo in cui celebrate l’Eucarestia è in opposizione con la natura e la dignità di questo Sacramento. […]. Infatti, o Cristiani, ogni volta che partecipate all’Eucarestia, compite un atto, che è un memoriale vivo, ossia che commemorando riattua la morte del Signore. […]. Essendo così severo il giudizio di Dio verso chi si comunica indegnamente, allorché voi, o Cristiani, vi radunate per magiare l’agape, “aspettatevi gli uni gli altri”, evitando l’abuso sopra accennato. Inoltre se “qualcuno si scusa dicendo di aver fame” e non vuole aspettare gli altri, allora se proprio non riesce a frenare la fame mangi prima di venire alla Messa a casa sua. Infatti  l’agape non fu istituita per saziare la fame, ma soprattutto per manifestare la carità fraterna e mutua tra fedeli» (M. Sales, Commento alle Lettere degli Apostoli, Torino, Berruti, 1911, p. 227-229, note n. 21-34; ristampa Proceno – Viterbo, Effedieffe, 2016).

[7] Giustino è un Padre apostolico del II secolo, nacque in Palestina e passò dallo stoicismo al Cristianesimo nel 132/135. Quindi si recò a Roma dove scrisse le sue due Apologie (c.ca 148/161) indirizzate ad Antonino  Pio (138/161) e poi il Dialogo con Trifone, che è  la più antica apologia del Cristianesimo rimasta a noi e indirizzata contro l’errore del Giudaismo talmudico. Giustino fu martirizzato sotto il Prefetto di Roma, Rustico, tra il 163 e il 167. Egli fu il primo cristiano a servirsi della filosofia aristotelica per fare teologia, conciliando fede e ragione, filosofia e teologia. Egli organizzò la più antica raccolta di dottrine eretiche nella sua opera chiamata Syntgma (andata perduta) che confuta circa 80 eresie del suo  tempo. Cfr. A. Di Berardino diretto da, Dizionario patristico e di antichità cristiane, Casale Monferrato-Roma, Marietti-Augustinianum, 1994, II ed., vol. II, coll. 1628-1632, voce «Giustino filosofo e martire » a cura di R. J. De Simone; E. Bellini, Dio nel pensiero di San Giustino, La Scuola Cattolica, n. 90, 1962, pp. 387-406; G. Jossa, La teologia della storia nel pensiero cristiano del secolo secondo, Napoli, 1965; G. Otranto, Esegesi biblica e storia in Giustino, Bari, 1979; B. Bagatti, San Giustino e la sua Patria, Augustinianum, n. 19, 1979,  pp. 319-331; C. Noce, Giustino: il nome di dio, Divinitas, n. 23, 1979, pp. 220-238.

[8] F. X. Funk, Didascalia et Constitutiones Apostolorum, Paderborn, 1935, 2 voll.; M. Righetti, Storia liturgica, Milano, III ed., 1966, 4 voll.

[9] Il Card. Ottaviani era allora Prefetto del S. Uffizio, cioè della “Suprema Congregazione”, che vigilava sulla ortodossia delle dottrine insegnate nel mondo, grazie ad un mandato ricevuto dal Papa stesso. Il Cardinal Bacci era il Prefetto della Sacra Congregazione dei Riti ed era un grande esperto in teologia e in latino presso la Segreteria di Stato sin dal 1921. Quindi questa “Lettera” ha tutt’oggi – nonostante i suoi 50 anni – un valore intrinseco, data l’alta conoscenza della teologia, del diritto, della liturgia e della storia da parte dei suoi due Autori, ed un valore estrinseco, poiché deriva dall’Autorità Suprema allora deputata dal Papa stesso a decidere su ciò che è o no conforme alla dottrina e morale cattolica. Il Breve Esame Critico è stato esaminato direttamente dai due Cardinali e fatto esaminare dagli esperti del S. Uffizio e i due Cardinali si dicono “obbligati ad esprimersi” sul Novus Ordo perché esso “si allontana in modo impressionante dalla teologia cattolica sul Sacrificio della S. Messa definita infallibilmente ed irrevocabilmente dal Concilio di Trento”.

[10] Giustamente il da Silveira fa notare che, se un architetto sbaglia il progetto di una casa e corregge solo il progetto, ma non ripara le deficienze dell’edificio costruito in base a tale progetto, la casa non è comunque agibile e abitabile. Quindi, se Paolo VI - nel 1970 - ha dovuto correggere la definizione della Messa riportata nel n. 7 della Institutio generalis del Novus Ordo Missae del 1969; implicitamente ha riconosciuto di aver sbagliato progetto o definizione della Messa, che fu dichiarata anche dal Cardinal Charles Journet come materialmente eretica. Nel prossimo articolo, dunque, vedremo 1°) perché la Nuova Messa montiniana sia in rottura con la Tradizione apostolica, e, daremo 2°) un riassunto delle cinque opinioni teologiche dei 136 Dottori della Chiesa e teologi approvati dalla Chiesa, citate brillantemente dal da Silveira nella seconda parte del suo libro, affinché il lettore possa farsi più facilmente un’idea della varietà di ipotesi teologiche che riguardano la controversa questione del Papa eretico e deposto o deponendo, le quali costituiscono una vera e propria “giungla teologica”.

[11] Consiglio vivamente lo studio della prima parte del libro del da Silveira assieme allo studio del “Breve Esame Critico del Novus Ordo Missae”, che è un piccolo gioiello di precisione e profondità teologico/liturgica. Ambedue possono essere trovati sul sito www.intermultiplicesunavox

[12] Monsignor Brunero Gherardini in questi libri fa un lavoro analogo, ma molto più preciso ecclesiologicamente, di quello che fece il da Silveira sulla rottura tra Messa tradizionale e Nuova Messa montiniana. Il prelato da vero specialista di ecclesiologia, da lui insegnata per molti anni nella Pontificia Università Lateranense, spiega e dimostra la opposizione di contraddizione tra la Dottrina cattolica e la dottrina neomodernistica soggiacente ai 16 Decreti del Concilio Vaticano II, sfatando la leggenda della “ermeneutica della continuità” spesso asserita, ma mai provata da Benedetto XVI.

 
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