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La babele globalista (parte I)
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La liquidità postmoderna

Il costituzionalista Michele Ainis, sul Corsera del 22 settembre scorso, ha posto domande «epocali» a proposito di quanto siamo soliti chiamare decentramento, regionalismo, federalismo.

«Lo scandalo che travolge la giunta Polverini – egli ha scritto – non è certo un buon motivo per abolire la Regione Lazio. Né la Lombardia o la Sicilia, dopo le peripezie di Formigoni e di Lombardo. Ma sta di fatto che le Regioni sono diventate molto impopolari; e il popolo è pur sempre sovrano. Di più: nei termini in cui le abbiamo costruite, le Regioni sono un lusso che non possiamo più permetterci. Non solo in Italia, a dirla tutta. Ne è prova, per esempio, il no di Rajoy alla Catalogna, che reclamava una maggiore autonomia fiscale. Ma è qui e adesso che il decentramento dello Stato pesa come una zavorra. È qui che la spesa regionale è aumentata di 90 miliardi in un decennio. Ed è sempre qui, nella periferia meridionale dell'Europa, che i cittadini ne ottengono in cambio servizi scadenti da politici scaduti. Sicché dobbiamo chiederci che cosa resti dell'idea regionalista, incarnata nei secoli trascorsi da Jacini, Minghetti, Colajanni, Sturzo. Dobbiamo domandarci se quell’idea abbia ancora un futuro e quale».

Il giurista, da sempre, è colui che deve fare i conti con il divario inevitabilmente sussistente, data l’imperfezione della natura umana causa peccato, tra l’«essere» e l’«esistente», tra il giusto ed il possibile. Non può pertanto meravigliare se qualunque principio giuridico calato nella realtà storica subisca inevitabilmente distorsioni.

Ciò, tuttavia, non ci esime dall’indagare sulle cause e sulle dinamiche che portano alle distorsioni dei principi ideali.

Molti cattolici tradizionalisti, memori della guerra giurisdizionalista che gli Stati nazionali, sin dai tempi delle monarchie assolute a partire dal XVI secolo, hanno mosso alla Chiesa, si sono arruolati, in questi ultimi decenni, nelle fila dell’autonomismo e del federalismo, senza valutarne affatto le radici ideologiche laiciste e contrattualiste. Questi cattolici credono che il post-moderno, ossia il post-statuale, stia loro restituendo il pre-moderno, ossia il pre-statuale ovvero un ritorno alle forme politiche tipiche del comunitarismo sussidiario medioevale, quando lo Stato, come è nato nella modernità quale sua forma politica propria, non ancora esisteva.

Più di una volta abbiamo avvertito costoro dello strabismo teologico e storico del quale sono vittime.

Alla «società solida» corrispondente alla modernità, di cui appunto lo Stato, che nasce come primo momento della secolarizzazione del Politico sulla scorta di filosofie meccaniciste e razionaliste (1), è la forma politica propria, ha fatto seguito – attenzione: come esito finale degli stessi presupposti filosofici della modernità, semplicemente giunti alla loro piena maturazione – la »società liquida» – così la definisce Bauman – che corrisponde al postmoderno.

Nella società liquida ogni legame naturale, compreso quello politico, è sciolto e sostituito da meri accordi sinallagmatici, sempre revocabili non appena le condizioni non soddisfano più ai propri interessi. In questa provvisorietà del contratto sociale sta la continuità tra moderno e postmoderno nel senso che in quest’ultimo viene definitivamente affermata quella perenne revocabilità di ogni legame, insita nel contrattualismo moderno, che la modernità, finché è rimasta meccanicamente solida, ossia finché il razionalismo ha retto all’irrompere, dal basso, dell’irrazionalismo, entrambi espressioni del soggettivismo, nascondeva dietro il giusnaturalismo snaturato in senso giuscontrattualista ed umanitario: quello crociano del «perché non possiamo non dirci cristiani» che certo paleo conservatorismo burkiano, ritornato sull’onda del neoconservatorimo straussiano ed ateo, crede di poter riproporre come se bastasse una esterna e moralistica riverniciatura «cristiana» dell’Occidente liberale per rimediare ai mali attuali e come se tale riverniciatura non si prestasse ad una strumentalizzazione della Fede a supporto di politiche, sociali ed internazionali, tutt’altro che in sintonia con Essa.

Con il postmoderno è giunto a pieno sviluppo il soggettivismo moderno che è alla base, dal punto di vista politico e giuridico, dell’individualismo e del contrattualismo. Ogni realtà di vita associata, e dunque «politica», ad iniziare dalla famiglia per arrivare allo Stato, è interpretata come un contratto tra monadi solipsistiche, per la regolazione di reciproci egoistici interessi (da quelli sessuali – ci si sposa solo per soddisfare istinti animali senza neanche più connetterli alla riproduzione, e non per generare figli nell’amore per aprirli all’amore; si accetta la convivenza sociale solo per trarne vantaggi nello scambio commerciale, senza alcuna assunzione di responsabilità politica né tantomeno comunitaria o patria).

Un maestro del contrattualismo come Gianfranco Miglio, primo ideologo della Lega, sosteneva che, stante la base contrattualista del Politico, i territori e le convivenze localistiche, come gli individui, sono assolutamente liberi di stipulare e rescindere, ad ogni momento, i «contratti sociali» con i quali stabiliscono le regole della momentanea vita associativa. Un pensiero, questo di Miglio, molto simile a quello degli anarco-liberisti statunitensi.

Guardando la questione dall’alto della teologia della storia, è possibile intravvedere una linea di direzione ben precisa che segna il passaggio dall’Universalità trascendente della Rivelazione, della quale la Chiesa, «Corpo Mistico di Cristo e pertanto popolo teologale che accoglie tutti i popoli naturali», è segno nella storia, ad un nuovo e spurio universalismo che ha la pretesa di realizzare il regno di Dio su basi immanenti, umanitarie, intra-mondane. Questo nuovo universalismo, che si è presentato sotto diverse forme ideologiche e che da ultimo ha assunto quella meglio corrispondente alla baumaniana società liquida, ossia il neo-liberismo, è ciò che abbiamo imparato a conoscere come « globalizzazione» o «globalismo».

Lungo questo percorso, lo Stato nazionale ha rappresentato un mero momento di snodo per chiudere verso l’alto, verso il Teologico, la Comunità politica moderna, lo Stato-contratto o Stato-macchina come partorito dal pensiero di Hobbes, Locke e Rousseau, e, subito dopo, fessurarne la corazza meccanicista verso il basso, per permettere l’irruzione di quelle forze irrazionali e nichiliste che covavano nel cuore del razionalismo moderno, oggi ben espresse dalla potente leva finanziaria capace di sottomettere e travolgere qualsiasi Stato.

La pretesa con la quale le monarchie assolute nazionali hanno fatto, a partire dal XVI secolo, il loro ingresso nella storia – «superiorem non recognoscens» dove il «superiore» erano la Chiesa e l’Impero – al di là di quanto essa ha espresso nel suo contesto epocale, ha una valenza anche trans-storica. Infatti in quella pretesa si può leggere l’affermazione per la quale la vicenda del mondo e quella dell’umanità, anche nella sua dimensione politica, sono esclusivamente nelle mani dell’uomo «emancipato», «liberato» (da qui il «liberalismo»), dalla Trascendenza che, in quella prospettiva, è sempre oscurantismo, autoritarismo, egemonia illiberale ed anti-libertaria. Riecheggia, nel «superiorem non recognoscens», l’antico «non serviam.

All’affermarsi dello Stato, quale forma politica propria della modernità, ha contribuito senza dubbio il suicidio dell’Europa cattolica attraverso le ferocissime guerre di religione, scatenate da Lutero con il concorso di colpa della decadenza morale della Chiesa tra XIV e XVI secolo, prima della Riforma Tridentina. Un giurista razionalista cinquecentesco, italiano emigrato prima in Germania e poi in Inghilterra, protestante, Alberico Gentile (o Gentili), colse molto bene l’emergere della funzione «pacificatrice», ossia già tendenzialmente neutrale ed aconfessionale, dello Stato moderno quando, rivolto ai teologi, ritenuti i fomentatori con le loro controversie della guerra intra-europea in corso, affermò «Silete theologi in munere alieno».

L’esito finale di questo percorso storico è stata la pretesa di autogestione da parte dell’uomo della realtà che così viene ricondotta in suo esclusivo potere. Una pretesa di dominare il reale spinta fino a fare di esso, nelle filosofie idealiste e fenomenologiste, una mera proiezione della potenza, della volontà o dell’io umano. Con questa premessa il passo verso il delirio prometeico era consequenziale. Infatti, a quella premessa ha fatto seguito la pretesa umanitaria del rifacimento del mondo «a propria immagine», «ad immagine dell’uomo».

L’uomo non è più «Imago Dei» chiamato ad ordinare il mondo alla luce dell’Alleanza con il Creatore e dunque alla luce della Rivelazione. L’uomo è, ora, concepito esso stesso come «dio» e la realtà, compresa quella politica, come sua emanazione e quindi come oggetto del suo potere manipolatore emancipato da qualsiasi limite superiore alla stessa volontà umana. Ritorna l’antica e seducente tentazione dell’«eritis sicut Dei» (Genesi 3,5).

Accettando questa prospettiva, l’uomo pretende di liberarsi da ogni vincolo credendo di diventare assolutamente libero e padrone di sé, laddove invece, come la storia ha finora dimostrato e continua a dimostrare ogni giorno, va cadendo sempre più in forme sempre nuove, ma anche sempre essenzialmente identiche, di schiavitù.

Abbiamo detto che lo Stato nazionale, potentemente corazzato della forza della sua sovranità verso l’interno e verso l’esterno, ha subìto, a partire dagli ultimi decenni (ma le forze che a questo tendevano agivano da secoli), una destrutturazione che, fessurandone la corazza verso il basso, ha reso possibile l’avvento della globalizzazione.

Qualcuno ha giustamente osservato che oggi lo Stato nazionale si trova nelle stesse condizioni degli antichi corpi intermedi comunitari che esso, a suo tempo, ha distrutto per porre direttamente di fronte a sé medesimo i singoli individui sciolti da ogni appartenenza intermedia. Oggi lo Stato nazionale è diventato un corpo intermedio in procinto di essere stritolato dalla globalizzazione o, meglio, da un nascente Potere Umanitario Globale, sovra e trans-nazionale, di fronte al quale si vanno disponendo, in concorrenza e senza più alcuna mediazione, le realtà locali, regionali o infraregionali.

C’è chi, in proposito, parla ormai di «glocalismo» più che di globalizzazione. Non è un caso, infatti, che realtà trans-nazionali come l’Unione Europea si siano affermate facendo leva su concetti come «Europa delle regioni» contro quello di «Europa delle Patrie» che rappresentava, quest’ultimo, ancora la realtà moderna fuoriuscita da Westfalia ma non più corrispondente alle pulsioni postmoderne verso il nuovo universalismo umanitario e «liquido». La UE ha fatto proprio, distorcendolo in senso reticolare ed orizzontale, il principio di sussidiarietà (che per il magistero sociale cattolico, il quale contempla solo «gerarchia tra le associazioni», è invece essenzialmente verticale come la parola stessa «sub-sidium» dice) onde usarlo allo scopo di creare regioni o macroregioni trans-frontaliere in modo da perforare i protezionismi nazionali la cui eliminazione era necessaria alla realizzazione del mercato comune.

Il regionalismo, l’autonomismo, il federalismo, che agli occhi dei cattolici hanno un grande fascino perché richiamano la realtà organica della tramontata Cristianità e che quindi potrebbero vantare una ascendenza «nobile», in realtà si sono rivelati, lungo il percorso che dal moderno ci ha portati al postmoderno, utili strumenti della globalizzazione e non sintomi di una restaurazione pre-moderna. Essi hanno consentito la destrutturazione dello Stato-macchina moderno, nato dalle monarchie assolute trasformatesi in repubbliche giacobine, senza, solo per questo, restituirci l’Universalismo cristiano. Anzi, essi hanno contribuito ad avviare la fondazione di un nuovo impero, solo che questo impero ha più i tratti della agostiniana «civitas diaboli» che della «civitas Dei».

Una riforma costituzionale ispirata al
«glocalismo»

Questo è vero anche leggendo la questione, della quale ci stiamo occupando, nella prospettiva del quotidiano.

La caduta verticale della struttura antropologica stessa dell’«homo liberale» si manifesta anche negli scandali e nelle ruberie dei politici che hanno perso ogni senso del bene comune. Non che un tempo, i re ed i parlamenti non abusassero del proprio potere ma, comunque, mostravano ancora di avere freni tali da impedire l’implosione del Politico.

« …nel 2001, grazie alla bacchetta magica del centrosinistra, – continua Ainis nel suo articolo – scocca la riforma del Titolo V; ed è qui che cominciano tutti i nostri guai. Perché dal troppo poco passiamo al troppo e basta; ma evidentemente noi italiani siamo fatti così, detestiamo le mezze misure. E allora scriviamo nella Costituzione che la competenza legislativa generale spetta alle Regioni, dunque il Parlamento può esercitarla soltanto in casi eccezionali. Aggiungiamo, a sprezzo del ridicolo, che lo Stato ha la stessa dignità del Comune di Roccadisotto (articolo 114). Conferiamo alle Regioni il potere di siglare accordi internazionali, con la conseguenza che adesso ogni ‘governatore’ ha il suo consigliere diplomatico, ogni Regione apre uffici di rappresentanza all'estero. Cancelliamo con un tratto di penna l’interesse nazionale come limite alle leggi regionali. E, in conclusione, trasformiamo le Regioni in soggetti politici, ben più potenti dello Stato».

Quella riforma costituzionale fu l’esito del tentativo della sinistra di inseguire una Lega sull’onda del successo elettorale e come tutte le riforme non meditate (compresa quella che hanno oggi partorito i bocconiani al governo a proposito di Province e spending rewiew) ha provocato più danni che benefici. Si pensi solo al fatto che mentre nella prima parte, quella non toccata dalla riforma del 2001, della Costituzione si parla di «governo della Repubblica», perché nel 1948, anno di promulgazione dell’attuale Costituzione, la Repubblica coincideva con lo Stato, nel titolo V riformato lo Stato diventa, nel citato articolo 114, soltanto una delle componenti –, insieme e senza più rapporto gerarchico con Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni – della Repubblica, in modo che laddove quest’ultima ha costituzionalmente un governo lo Stato non lo ha più.

Il Titolo V riformato è stato inserito come un agente estraneo in un corpo normativo più antico, senza alcun coordinamento, provocando gravi incertezze foriere di amplissimo contenzioso in sede costituzionale.

Si aggiunga il fatto che questa sciagurata riforma costituzionale è intervenuta in un momento storico nel quale, indietreggiando lo Stato quale fonte dei trasferimenti finanziari verso gli enti locali – funzione che aveva come contropartita il controllo centrale sulle spese e la finanza locale –, le amministrazioni territoriali sono state abbandonate, anzi incentivate, all’indebitamento verso le banche ed i mercati finanziari.

Prima della svolta anni ‘90, Regioni, Province e Comuni finanziavano la propria spesa di investimento ricorrendo ai prestiti, agevolati ed a basso costo, della Cassa Depositi e Prestiti, o di altre similari finanziarie pubbliche, ponendo a garanzia, nel limite massimo del 25%, i proventi iscritti nei primi tre titoli del proprio bilancio. Si trattava di un sistema equo e sostenibile di finanziamento degli investimenti locali che oltretutto consentiva allo Stato, con un ben preciso limite all’indebitamento, di controllare l’esposizione degli enti locali. Esposizione debitoria che, inoltre, era esclusivamente nei confronti dello Stato e quindi, in qualche modo, costituiva una sorta di «partita di giro» tra enti locali e Stato.

Onde evitare gli indebitamenti inutili, come quelli che spesso avevano dato adito alle cosiddette «cattedrali nel deserto», sul tipo di scuole progettate per ospitare un’ampia popolazione scolastica ma costruite in paeselli montani in forte calo demografico, l’esperienza aveva indotto a vincolare le richieste di mutui da parte degli enti locali alla Cassa Depositi e Prestiti (che li finanziava principalmente con la raccolta del risparmio postale) con l’approvazione preventiva di stringenti «piani economico-finanziari» volti a dimostrare, dati tecnici e conti alla mano, la fattibilità dei progetti da finanziare e la sostenibilità del prestito. Anche la possibilità degli enti locali di rivolgersi al prestito bancario – quello all’epoca ancora tradizionale e costituito dal tipico «mutuo bancario» – era sottoposta alle stesse regole volte a limitare e rendere sostenibile il debito nonché ad indirizzarlo verso progetti di concreta ed utile fattibile e non fantasiosi.

A partire dalla seconda metà degli anni ‘90, in coincidenza con la più vasta deregolamentazione del mercato finanziario in atto a livello globale in quel periodo (Bill Clinton in quegli anni aboliva il Glass-Steagall Act, dando la stura al liberismo finanziario che ci ha portati all’attuale rovina), anche il sistema regolamentato e pubblico del finanziamento degli enti locali fu progressivamente abrogato, o reso secondario, in modo che le amministrazioni territoriali iniziarono a rivolgersi esclusivamente alle banche ed ai mercati, che dal canto loro riempirono i bilanci locali di derivati dal rendimento iniziale fortissimo a bassi interessi, cosa che stimolava gli inaccorti e sciagurati amministratori ad indebitarsi onde avere nell’immediato ingente liquidità a disposizione, ma che poi, mentre il tasso di interesse saliva col passare del tempo, si trasformavano in veri e propri cappi usuraici, con indebitamento anche ultra-cinquantennale delle comunità amministrate. In tal modo gli enti locali sono stati trasformati in una riserva finanziaria per gli speculatori a discapito dei servizi pubblici ai cittadini. Quello che, a questo punto, gli enti locali si trovarono a servire non erano più i propri cittadini ma il proprio «debito pubblico» ovvero l’avida fame di «denaro da denaro» dei «mercati finanziari».

In Italia, la destrutturazione della configurazione gerarchica dello Stato moderno ha avuto una forte accelerazione durante gli anni Novanta del secolo scorso. Il Titolo V riformato della Costituzione è stato solo la sciagurata ciliegina sulla torta di un processo, costituzionalmente nichilista, già in atto. Una serie di riforme «federaliste» e «liberali» hanno progressivamente eliminato il sistema di controlli preventivi di legittimità con l’illusione di poterli sostituire – in un’ottica, assurda ed errata, che guarda alla Pubblica Amministrazione come ad una azienda privata – con quelli successivi di gestione. Il risultato, come annota anche Ainis, venuti meno i controlli esercitati dallo Stato mediante i commissari di governo sull’attività amministrativa delle Regioni e quelli delle Regioni mediante i co.re.co. (gli ex comitati regionali di controllo) sull’attività di Province e Comuni, è stato l’esplodere a livello locale delle spese inutili e delle ruberie.

Si aggiungano da un lato il venir meno del controllo esercitato dai segretari provinciali e comunali – che essi, quando erano, al contrario di oggi, funzionari dello Stato indipendenti dalla nomina politica di sindaci e presidenti di Province, esprimevano con il proprio parere di legittimità sulle delibere di giunta e consiglio – nonché dall’altro lato l’introduzione della fittizia separazione tra organi elettivi di governo, cui spetta la programmazione, ed organi dirigenziali, cui spetta la gestione amministrativa – fittizia perché separate, giustamente, le competenze si è contestualmente sancita, vanificando la separazione, la nomina fiduciaria, ossia «politica», dei dirigenti da parte di sindaci e presidenti elettivi – e ben può comprendersi lo scivolamento verso l’anarchia ed il caos nel quale, poi, hanno fermentato le performance dei Bossi junior alias Trota, dei Lusi e dei Fioriti.

Questo processo di destrutturazione della configurazione gerarchica della macchina dello Stato, pur essendo già in atto a partire dall’attuazione delle Regioni nel 1970, ha trovato il suo culmine negli anni ‘90 con le riforme targate Bassanini, ministro dei governi di centrosinistra e, fino a quel momento, ignoto docente di «diritto regionale», la cui strategia politica era quella di riguadagnare alla sinistra libertaria l’elettorato fuoriuscito verso la Lega.

Del resto, con buona pace di tutti coloro che, in buona o cattiva fede, hanno appoggiato o simpatizzato per il partito di Bossi, non bisogna dimenticare che il leghismo, con il suo federalismo macroregionale e trans-nazionale, corrisponde alla tendenza epocale verso il neo-universalismo globalista che il post-moderno va registrando in tutto il mondo occidentale.  

La prima Lega, non a caso, portando avanti gli interessi delle piccole e medie imprese, contro lo Stato nazionale «burocratico», era caratterizzata da un’ideologia contrattualista alla quale, come detto, Gianfranco Miglio apportò il suo placet cattedratico. Poi, negli anni del «celodurismo» celtico e neopagano, inneggiante al «dio» Po, quella stessa Lega assunse tratti pittoreschi ed identitari, di tipo financo etnico e razziale, inventando dal nulla pretese radici storiche padane, anche decontestualizzando e pertanto falsificando la memoria della medioevale «Lega Lombarda» e del suo scontro con Federico Barbarossa (che fu una pagina di storia del tutto diversa da quella che i leghisti, in questo ripetendo le stesse falsità dei liberali risorgimentali, pretendono sia stata). Questo inventare a scopo politico radici identitarie inesistenti, fosse solo per il fatto che insieme alla continuità la storia conosce anche la discontinuità, sicché nessuno di noi è oggi solo celtico, longobardo, romano, padano, napoletano o italiano, ma un po’ tutte queste cose insieme, è un fenomeno ben conosciuto agli storici ed ai politologi.



Si tratta della mitopoietica propria alle mobilitazioni politiche moderne: un po’, per intenderci, come fece il fascismo di sinistra, erede del giacobinismo settecentesco e del mazzinianesimo ottocentesco, con il mito politico della «romanità». Il giacobinismo aveva preso il fascio littorio come uno dei suoi simboli rivoluzionari in nome della «Roma prisca e pagana» opposta alla «Roma cristiana». Ritornello che sarà puntualmente ripreso dal mito mazziniano della «Terza Roma», quella repubblicana e para-massonica a venire dopo la pagana e la papale.

Attualmente, la Lega con la gestione Maroni sembra voler ritornare alle origini e si rivolge più agli imprenditori ed alle partite IVA che non ai suoi celtici e cornuti (anche nel senso politico del termine) militanti «populisti» che, con tanto di camicie verdi, ne affollano le rituali feste politiche. Sarà pure un caso, ma a noi non è affatto mai sembrato strano, che un neopagano nicciano d’oltralpe quale Alain De Benoist, già maitre à penser della Nouvelle Droite, abbia sempre avuto forti simpatie per il fenomeno leghista.

(fine prima parte)

Luigi Copertino


Seconda parte
Terza Parte




1
) Nel secolo XVI, tuttavia, fu proposta ed in concreto operò anche una concezione della Comunità politica, ancora tradizionale benché già aperta al moderno ossia già in qualche modo statuale, rappresentata dalla «Monarchia» ispanico-imperiale, di tipo confederale, come, tra l’altro, interpretata dalla Scuola teologico-politica di Salamanca. Tale concezione alternativa, che avrebbe potuto dare esito ad una forma diversa di modernità politica, non secolarizzante, ha purtroppo seguito le sorti del conflitto anglo-ispanico, sfavorevole alla Spagna ed all’Europa cattolica. Conflitto che è storicamente al crocevia della deriva in senso «occidentale» dell’Europa cristiana. Quella deriva che ha portato fino all’occidente odierno, scimmiottatura umanitaria della Cristianità. L’Occidente che pretende di fare ancora «crociate» contro il mondo islamico, distorcendo però il senso di incontro di civiltà, al di là del fatto meramente contingente dello scontro che fu limitato e assolutamente parziale, che ebbero le autentiche «peregrinatio armate» medioevali.


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