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Il convitato di pietra (II parte)
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Tratteremo, ora, di una presenza molto più invasiva di quelle fin qui viste.
Per verità, più che di una presenza, si tratterebbe di un clima diffuso reso soffocante per i suoi lasciti irrisolti e contraddittori.
A causa loro, e per una menzogna ampiamente e tacitamente propagata diretta a coprirne la gravità, abbiamo ritenuto di inserire fra le «presenze» (suscitate dal convitato di pietra) il liberalismo.
Ha il «pregio» di costituire il basamento su cui poggiano componenti di natura diversa: si pensi al liberismo, all'individualismo, al neoliberismo, all'edonismo, al capitalismo.
Un assieme tanto eterogeneo, pur essendo effettivamente il momento debole di quest'idea, ha la pretesa, in grado inversamente proporzionale, di atteggiarsi ad egemone rispetto ad ogni altra possibile variabile del pensiero.
Non è casuale la felice coesistenza del «pensiero debole» (già superato) con il liberalismo d'accatto contemporaneo.
Esso pretende di essere tanto egemone da offrirsi come idea/ideologia direzionale il cui termine coinciderebbe con la fine della Storia (1).
Vettore dell'individualismo politico e sociale, esso agisce sugli strati profondi della personalità individuale, fa leva sulla emotività, possiede una forte componente ideologica abilmente dissimulata, dispone di tempi opportunamente lunghi e di strategie forti e radicate storicamente.
Ma è con John Stuart Mill (2) che si realizza la fuoriuscita del concetto di libertà dal «novero delle condizioni indispensabili per l'esercizio dell'attività morale, giuridica, economica» per entrare nel mondo degli ideali o dei valori in sé cioè indipendenti dalle applicazioni pratiche.
Occorre tenere ben fermo il concetto.
 Il liberalismo/individualismo o il liberalismo/statalismo impegnavano il liberalismo sul piano della prassi (prova ne sia il fatto che le critiche più attente mosse al liberalismo sono centrate sull'asserito scollamento fra il quanto predicato ed il quanto realizzato).
I fatti, insomma, si incaricavano, presto o tardi, di elevare o condannare i principi (liberali) che li avevano ispirati ed è soprattutto sul piano delle realtà misurabili (l'economia) piuttosto che su quello dei valori immateriali (la morale), che è maggiormente visibile la dannosità di gran parte di quei principi.
Vogliamo dire che è nel momento in cui si è preteso di elaborare una sorta di nuovo «trascendentale» kantiano - inteso nel significato non specifico di ciò che antecede l'esperienza - che il concetto di «libertà liberale» sprigiona la sua massima «perversione».
E, d'altra parte, chi non si direbbe favorevole nei confronti di maggiore libertà, sia essa positiva (libertà «di») o negativa (libertà «da»)?
Chi rinuncerebbe ad ottenere maggiori opportunità?
Il liberalismo che predica appunto l'appagamento di simili «necessità» ha però la caratteristica di venire a mancare nel momento delle realizzazioni pratiche.
Ha ragione Veneziani, specie se si pensa che ne scriveva diciotto anni fa: gli scenari che sembrano aprirsi credibilmente fanno temere.
«La confluenza tra liberalismo e tecnoscientismo è possibile perché entrambi si presentano come ideologie immanentiste e razionaliste,  fondate sull'inappartenenza, sullo sradicamento e protese alla fondazione di un nuovo illuminismo, postideologico e individualistico. Il loro punto di intersezione è segnato dalla comune vocazione alla liberazione, che è poi prometeismo allo stato puro: liberazione come emancipazione assoluta da legami e limiti e liberazione come sprigionamento illimitato di energie e desideri» (3).
 Pervenuto a maturazione l'indirizzo individualistico mediante l'avvelenamento dei nuclei associativi e l'esplosione delle comunità di destino (famiglia, corporazioni di lavoro), il liberalismo ha sul piano della storia generato per reazione i mostri totalitari che, una volta estirpati, hanno aperto il vaso di Pandora da cui è fuoriuscita, fra il molto altro, l'«epopea egemone dell'anglosfera».
Assistiamo così, a guerre, a politiche, a culture, a film, a predisposizioni d'animo, ad immaginari collettivi realizzati in nome di una «libertà» di cui non si scorgono né i contorni né i contenuti.
E' di Tacito, ha scritto Del Noce (4), l'espressione «malignitas falsa species libertatis inest».
Ma tutto questo, ripetiamo, non sarebbe stato possibile se il concetto della libertà non fosse stato «astratto» dal piano, in particolare, dell'economia ma anche da quello della morale.
Si provi, dunque ad immaginare se alle premesse cui si è accennato si aggiungesse la militanza attiva del liberalismo; se il liberalismo si fosse dato la concretezza di un motore fisico in grado di fabbricare immagini liberali e simulacri di libertà in grado, come vedremo, di «cambiare l'anima».
Mai come oggi noi tutti abbiamo scambiato le libertà reali con la sicurezza personale offertaci dai poteri legittimi, certo tranquillizzati dal fatto di possedere una riserva abbondante ma indefinita di «libertà»; libertà concrete contro «libertà» astratta.
 Con il termine «libertismo» si suole indicare una idea/ideologia, una «filosofia» della libertà che, più che un'idea è diventato un mero «segno» linguistico con funzione di collegamento emotivo degli utilizzi più diversi (politici, estetici, militari, ecc.) con le aspirazioni diffuse dei cittadini che anelano a raggiungere finalmente ed inconsapevolmente un affrancamento dalla complessità dell'esistente. Naturalmente si potrà ben comprendere come possa accadere che, in realtà, l'esistente finisca col complicarsi proprio grazie a libertà mera suscitatrice di emozioni, non solo, ma anche che le libertà ed i diritti corrispondenti si assottiglino giorno dopo giorno e proprio nei Paesi in cui dovrebbe vigere la democrazia liberale.
A questo riguardo si potrà leggere, molto utilmente, l'opera di Jean-Claude Paye (5).
David Harvey, docente di antropologia all'università di New York oltre che ad Oxford ed alla J. Hopkins University ha connesso (6) l'ideologia dominante liberale ad un sistema di potere strutturato capace di imporre al mondo il fondamentalismo del mercato grazie al quale non esiste potere in Europa che possa, ad esempio, calmierare i prezzi dei beni di prima necessità.
Lungi dal diminuire per la magia della concorrenza, essi schizzano verso l'alto e spalancano la porta a maggiori povertà o concorrono ad incrementare il numero delle famiglie che si trovano sulla soglia.
Il libro di Harvey possiede la speciale bontà dell'opera scritta con particolare riserva di attenzione verso il lettore; è capace cioè, di armonizzare informazione e cultura dal cui confronto, purtroppo, quest'ultima esce abitualmente perdente.
Di grande utilità anche l'opera ponderosa (7) di Serge Salimi, dottore in Scienze politiche all'Università di Berkeley e professore associato all'Università Paris VIII.
 La strutturazione prese le mosse da un convegno che si tenne nel settembre 1955 a Milano e che ebbe la pretesa di mettere fine alle ideologie (comunismo, socialismo, fascismo, nazismo).
Mentre si accaniva contro le ideologie, quel convegno che si dette l' impegnativo titolo di «Futuro della libertà» e che, sembra, essere stato organizzato dal «Congresso per la libertà e la Cultura», forse finanziato dalla CIA e coperto da una fondazione privata (così almeno ne scrive Armand Mattelart).
Quel convegno, forte di circa «centocinquanta» fra docenti, scrittori, giornalisti, politici di tutto il mondo, consentì che passasse sotto accorto silenzio il fatto che l'ideologia liberale rimanesse la sola ed unica superstite permettendo che essa si intronizzasse nelle menti e nelle esperienze intellettuali degli occidentali.
Ora, come possa essere accaduto che un «proclama» congressuale riuscisse a materializzarsi non solo come atto autoritativo ma anche come atto subitaneo capace di «abrogare» processi ideologici di così ampio respiro e che avevano coinvolto continenti per tempi secolari oltre che le logiche e le passioni di milioni di individui, resterebbe un mistero se non si convenisse che l'ideologia superstite (condannata a più riprese dalla Chiesa e dalle altre ideologie) aveva trovato la via per darsi una organizzazione e una struttura finalizzati alla conquista del potere occidentale e le anime dei cittadini.
L'ambizione di abrogare - meglio, di destrutturate - gli Stati nazionali, le politiche di «welfare», di dichiarare apertamente guerra, come vedremo, alla stessa democrazia doveva in qualche modo essere coerentemente giustificata dall'esistenza di mezzi adeguati.
 Scriveva Amintore Fanfani «Da tale atteggiamento deriva la decisa condanna che i Pontefici degli ultimi due secoli hanno  fatto del liberalismo, promuovendo la limitazione dei suoi effetti nel campo economico e sociale mediante l'incoraggiamento concesso direttamente o indirettamente alla così detta legislazione sociale e auspicandone il superamento attraverso l'organizzazione corporativa della società» (8).
Il concetto di idee-ideologie lo si deve a Karl Dietrich Bracher secondo cui «… il problema specifico è quello della semplificazione e strumentalizzazione di alcune idee politiche, del loro uso a fini di mobilitazione delle masse e di dominio politico su una moltitudine… si mira a ridurre la realtà ad una formula e nello stesso tempo a plasmarla o anche a manipolarla nell'interesse di una politica di potere. Qui la funzionalizzazione delle idee a scopi politici può avere, sotto forma di ideologia tanto effetti positivi… quanto effetti negativi» (9).
Si pensi, ad esempio, all'ecologismo, al «privatismo», all'animalismo o al multiculturalismo od anche allo stesso economicismo.
Inoltre, la funzionalizzazione delle idee a scopi politici assolve al compito di impedire agli individui di riconoscersi all'interno di una «intuizione» o «visione del mondo» che posseggono i caratteri dell'unitarietà e della totalità.
E' per questa ragione che il processo di ideologizzazione, cioè il flusso di idee/ideologie rilasciate dal Sistema verso la collettività, scoraggia la formazione delle grandi visioni del mondo (poche e profonde) lasciando galleggiare negli individui un numero aperto di microsistemi logici (molti e superficiali).
Non consente, in altri termini, che gli individui pervengano a quella che Wilhelm Max Wundt chiamava «ricapitolazione delle conoscenze particolari in una intuizione del mondo e della vita che soddisfi le esigenze dell'intelletto e i bisogni del cuore».
 Era così aperta la via dell'egemonia ideologica del liberalismo.
In particolare, precisa Bracher, «Questa funzionalizzazione e strumentalizzazione delle idee al servizio della politica di potenza e di influenza porta ad una fusione completa dei due elementi e alla ideologizzazione del pensiero politico in tutti i campi… La funzionalizzazione delle idee agli scopi politici può far agire l'ideologia sia in senso positivo come stimolo all'azione costruttiva, sia in senso negativo come inganno e falsificazione per esagerazione o per semplificazione» (10).
L'ideologia, di cui l'idea è una sorta di surrogato, viene letta dall'uomo contemporaneo come una meta-narrazione come, cioè, un sistema complesso di idee che avrebbero la pretesa di spiegare e controllare una realtà diventata, per l'uomo contemporaneo, sfuggente proprio per via della complessità.
Il rinchiudersi nel presente consente a questo tipo d'uomo di poter fare a meno di quadri di riferimento intellettuali i quali esigerebbero il giudizio sul passato e l'elaborazione di un progetto complesso per il futuro.
Abbiamo detto che il liberalismo non è solo l'ultima ideologia rimasta, ma anche un sistema di potere strutturato animato da un progetto, «pensare l'impensabile», da personaggi, da centri di potere esattamente come gli altri poteri definiti occulti, diversamente dai quali forse, potrebbe essere definito «potere senza clamore».
Nel 1947 un gruppo di economisti, scrive Harvey, di storici e filosofi appartenenti al mondo accademico (c'erano Ludwig von Mises, Milton Friedman, Karl Popper ed altri) si riunì in Svizzera (nella località di Mont Pélerin) attorno a Friedrich von Hayek.
Sembra che quel Paese eserciti una particolare attrattiva su quanti amano la «riservatezza»; altra rinomata località è Ascona.
I membri della Mont Pélerin si definivano «liberali»che condividevano convintamente i princìpi del libero mercato, criteri che avrebbero dovuto soppiantare le idee di John M. Keynes con cui si cercò di combattere prima la Grande Depressione del '29 e poi la recessione del dopoguerra.
 Sull'atto di nascita della «Mount Pelerin Society» si legge: «Società per il rinnovo del Liberalismo».
Era così cominciata la scalata al potere mondiale da parte delle oligarchie liberali; ed era solo il 1947.
Lo Stato ed i suoi interventi in economia erano le bestie nere dei liberali/neoliberisti ma, sia Harvey, sia Wallerstein, sia Jameson e perfino Abbagnano colsero l'intrinseca debolezza di un simile teorizzare.
Adoratori della proprietà privata (e refrattari alla funzionalità sociale della stessa), delle libertà individuali (ma che non fossero minimamente condizionate dalle naturali esigenze della società) e della libertà d'impresa (concepita priva di ostacoli alla soddisfazione del profitto privato disancorato dalle opportunità dell'intero Paese), quei liberali si scalmanavano per ottenere sempre maggiori retrocessioni dello Stato nazionale salvo poi ad esigere dallo stesso la tutela degli adorati beni appena ricordati.
La Mount Pélerin poté contare sui miliardi messi a disposizione da imprenditori e dirigenti d'azienda terrorizzati dal possibile consolidarsi di un sistema di economia mista che potesse diminuire la loro influenza anziché «proteggere e accrescere il loro potere». Non badarono ai compagni di strada e così appoggiarono perfino il maccartismo e i «think-tank» (=serbatoi di pensatori) neoliberisti (l'IEA londinese e la Heritage Foundation di Washington).

I premi Nobel conferiti ad Hayek e a Friedman (nel '74 e nel '76) regalarono alle tesi neoliberiste particolare credito.
Dopo alcuni anni quelle tesi divennero pratica politica con la Thatcher in Gran Bretagna e un anno dopo, nel 1980, con Reagan alla presidenza degli USA.
Ed alla Thatcher, Harvey attribuisce la chiarezza delle seguenti espressioni: «Non esiste la società, esistono solo gli individui, di sesso maschile e femminile» (oltre alle loro famiglie). L'attacco ideologico sferrato dalla Thatcher fu implacabile. 'L'economia fornisce il metodo… ma l'obiettivo è cambiare l'anima'… Iniziò così un processo di trasformazione profonda in direzione di una maggiore sperequazione sociale e di una restaurazione del potere economico delle classi alte» (11).
Il bersaglio, dunque, non era più solo la conquista del potere, non il controllo e la sorveglianza della società ma la demolizione della stessa mediante l'individualismo liberale ed il suo derivato economico.
E' evidente che un progetto di tale portata non poteva e non può non avere alle spalle una complessa visione d'insieme ed una lauta disponibilità di mezzi materiali.
Se rileggiamo Negri e Hardt (12) possiamo trarre utili riferimenti sulla postsocietà odierna e interpretare con maggiore chiarezza il senso della temperie che ci circonda.
Da quello che abbiamo detto è possibile sapere da quanto lontano giunga e a chi rendere grazie e di che marca sia lo stupro consumato in pieno giorno nell'indifferenza generale.
 L'assalto del liberalismo nei confronti della democrazia oltre che della sinistra di cui va demolendo le posizioni centriste così da spingere il riformismo al punto di fargli trasformare le posizioni formalmente socialiste in quelle sostanzialmente liberali, ci è stato spiegato da Bobbio.
«Si può descrivere sinteticamente questo risveglio del liberalismo attraverso la seguente progressione (o regressione) storica: l'offensiva dei liberali è stata rivolta storicamente contro il socialismo, il suo naturale avversario nella versione collettivistica (che è del resto quella più autentica); in questi ultimi anni è stata rivolta anche contro lo Stato-benessere, cioè contro la versione attenuata (secondo una parte della sinistra, anche falsificata) del socialismo; ora viene attaccata la democrazia, puramente e semplicemente.
L'insidia è grave… L'ideale del neo-liberalismo diventa allora quello dello Stato insieme minimo e forte.
Del resto che le due antitesi non si sovrappongano lo dimostra lo spettacolo di uno Stato insieme massimo e debole che abbiamo continuamente sotto gli occhi…
Il pensiero liberale continua a rinascere anche sotto forme che possono urtare per il loro carattere regressivo e da molti punti di vista ostentatamente reazionario
(non si può negare l'intenzione punitiva che assume la lotta per lo smantellamento dello Stato assistenziale contro coloro che hanno voluto alzare troppo la testa) perché è fondato su una concezione filosofica da cui, piaccia o non piaccia, è nato il mondo moderno: la concezione individualistica della società e della storia» (13).
Ci sia perdonata la lunghezza del brano; ci ha offerto, in compenso, una sintesi significativa e autorevole.
 L'insidia (del liberalismo che attacca la democrazia) è grave: ci sembra che sia la liberaldemocrazia, il cavallo di Troia liberale dentro una democrazia che appare senza alternative storiche.
Lo spiega molto meglio Colin Crouc quando scrive che i due termini - democrazia e liberaldemocrazia - non solo non sono equivalenti ma la seconda è «… una forma storica contingente, non  un concetto normativo stabilito una volta per tutte…
La democrazia liberale insiste sulla partecipazione elettorale come attività politica prevalente per la massa, lascia un largo margine di libertà alle attività delle lobby, con possibilità assai più ampie di coinvolgimento soprattutto a quelle economiche, e incoraggia una forma di governo che evita interferenze con l'economia capitalista.
Si tratta di un modello elitario scarsamente interessato al coinvolgimento di larghi strati di cittadini o al ruolo delle organizzazioni al di fuori dell'ambito economico
» (14).
Le evidenziazioni sono nostre.
 E' stato Immanuel Wallerstein a sostenere la sostanziale inadeguatezza del liberalismo attuale concludendo un breve ma denso saggio che ha il gran pregio della chiarezza.
Ha scritto a proposito di liberali e democratici: «I primi, come ho detto, sono stati i sostenitori della competenza. I secondi… sono stati sostenitori della priorità urgente della lotta all'esclusione…
La competenza, quasi per definizione, implica l'esclusione.
Se vi è competenza, allora vi è incompetenza.
L'inclusione implica riconoscere pari importanza alla partecipazione di ognuno… i due temi entrano, pressoché inevitabilmente, in conflitto.
 I frères diventano ennemis.
I liberali hanno avuto i loro giorni di gloria.
Oggi siamo minacciati dal ritorno di coloro che non vogliono né competenza né inclusione, in breve il peggiore dei mondi possibili
» (15).
Immaginiamo che Michelangelo Bovero (16) pensasse a costoro quando ha proposto di chiamare un loro
 possibile governo, kakistocrazia (dal greco «kakistos» superlativo di «kakos» = cattivo, inabile, inetto, nel senso di «privo delle qualità che dovrebbe avere» e «krateia» = governo).
Preferiamo il termine cheirocrazia (dal greco «keiron» = peggiore e  «krateia» = governo) che più dell'altro dice di uomini peggiori moralmente, privi di valore e di una qualche eccellenza.
In quest'accezione il peggiore sarebbe tale per la distanza che lo separa dal bene, dal bene comune, dalla politica, dalla sfera pubblica come se dignitose magnanimità gli fossero naturalmente precluse. Il termine lo può trovare in Polibio (Storie VI, 9) lì dove esamina il governo di coloro che,  dimentichi della prima democrazia, si sono arricchiti e cercano di predominare sugli tutti gli altri corrompendo il popolo.
Ricordiamo che Carl Schmitt distingueva fra «archia» e «crateia» («oligarchia» o «aristocrazia»), intendendo indicare con quest'ultima il «potere mediante supremazia e presa di possesso».
 

Oggi il liberalismo è inutile; ha conquistato ma non sa conservare; ha promesso ma non ha mantenuto e solo surrettiziamente ricorre al concetto di libertà, come sostiene Abbagnano.
D'altra parte, l'inadeguatezza dell'armamentario liberale di fronte alla drammatica decadenza dell'ultima postmodernità su cui ormai tutti sembrano concordare rendendo irrilevante la diversità delle estrazioni culturali, sembra essere lampante: non si può pretendere di combattere la «società del rischio» (i cui scenari sono stati illustrati da cui Beck (17) col disfrenamento del libero mercato (la teoria economica del liberalismo) e somministrando ai cittadini ulteriori dosi di individualismo. Guido Carli - che fu membro dell'Istituto Atlantico, dell'Istituto di Affari Internazionali, del Bilderberg e della Commissione Trilaterale, dunque bene addentro alle élite chiuse mondialiste - precisò a proposito del mercato: «So bene che tra il profitto individuale e l'utilità collettiva esiste un divario incolmabile e non ho mai condiviso infatti le teorie dell'equilibrio economico generale, inteso come stato di natura della società industriale.
Al contrario. Sono profondamente convinto che l'economia di mercato sia un ordinamento non conforme alla natura che può esistere soltanto se instaurato, rinforzato e imposto in ogni momento da leggi severe e interventi conformi della pubblica autorità...
Non esiste un sistema così intensamente pianificato quanto l'economia di mercato...
Le grandi agenzie federali che controllano i mercati finanziari… gli interventi della Banca Centrale sul mercato dei capitali... non sono elementi di programmazione?
» (18).
Trarremo le conclusioni nella terza ed ultima parte.

Giuliano Rodelli


Note
1)
Si rilegga oggi, dopo 15 anni e osservando gli scenari presenti, l'analisi programmatica di Francis Fukuyama, «La fine della Storia e l'ultimo uomo», Rizzoli, 1992. Il saggio fu contestato sul piano della verosimiglianza dell'assunto ed è stato trascurato per quello che ci sembra sia stato e cioè che costituisse un programma.
Lo stesso errore è stato fatto con Samuel Huntington, «Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale», Garzanti 1997. Eppure entrambi gli autori erano membri del Council on Foreign Relations (CFR). Di entrambe le opere, curiosamente, sono passate in sordina le due espressioni secondarie dei titoli: ultimo uomo e nuovo ordine mondiale, forse più significative delle due principali.
2) John Stuart Mill, «Saggio sulla libertà», Saggiatore, 2002, pagina 101.
3) Marcello Veneziani, «Processo all'Occidente», Milano, 1990, pagina 30.
4) Augusto del Noce, «Rivoluzione Risorgimento Tradizione», Giuffré, 1993, pagina 154.
5) Jean-Claude Paye, «La fine dello Stato di Diritto», Manifesto libri, 2005. Si veda anche in Reseau Voltaire l'intervista rilasciata dallo stesso Paye a Silvia Cattori.
6) David Harvey, «Breve storia del neoliberismo», Saggiatore, 2007, pagina 30 e seguenti.
7) Serge Salimi, «Il grande balzo all'indietro», Fazi, 2006.
8) Amintore Fanfani, «Cattolicesimo e protestantesimo nella formazione storica del capitalismo», Marsilio, 2005, pagina 116.
9) K.D.Bracher, «Il Novecento, secolo delle ideologie», Laterza, 1999, pagina 395.
10) K.D.Bracher, «Il Novecento… citato», pagina 695.
11) David Harvey, «Breve storia…» citato, ivi.
12) Antonio Negri, Michael Hardt, «Moltitudine», Rizzoli.
13) Norberto Bobbio, «Liberalismo vecchio e nuovo», «Mondoperaio» 11/81, pagina 93.
14) Colin Crouch, «Postdemocrazia», Laterza, 2003, pagina 5.
15) Immanuel Wallerstein, «Liberalismo e democrazia: Frères Ennemis?», in «Concetti
 Chiave», numero 6 marzo 2002.
16) Michelangelo Bovero, «Il governo dei peggiori», Laterza.
17) Ulrich Beck, «La società del rischio», Carocci.
18) Guido Carli, «Intervista sul capitalismo italiano», Laterza, 1977 pagina118.


 
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