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USA: l’antiglobalismo torna di moda
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YOUNGSTOWN, Ohio: Lo ha detto Barak Obama il 19 febbraio scorso: «E’ mia intenzione abolire le facilitazioni fiscali a quelle imprese che portano i posti di lavoro all’estero delocalizzando. Le daremo alle aziende che investono qui in America».
E ancora: «Taglieremo queste riduzioni tributarie fatte da Bush tutte a favore dei ricchi, e daremo agi fiscali alle famiglie ordinarie, alla gente che guadagna meno di 75 mila dollari l’anno. Compenseremo il vostro carico tributario col loro».

D’accordo, quel 19 febbraio John McCain ha promesso l’esatto contrario: «Ora è di moda prendersela con la Cina… ma il libero commercio globale è stato il motore della nostra economia.
Il free trade dev’essere il principio costante che guida l’economia di questa nazione».
Ma il repubblicano ripete il vecchio dogma.
Non è nemmeno il caso di sottolineare che la novità vera l’ha detta il nero democratico: ciò che spiega i suoi successi alle primarie.

Fino a un anno fa, nessun candidato avrebbe potuto dire quello che ha detto Obama - sfidare il dogma del super-liberismo globale - mantenendo la speranza di essere eletto.
E’ chiaro che il vento ha girato, e molto velocemente.
Il discorso anti-mondialista sta prendendo posto nel dibattito pubblico americano, il che significa che presto se ne potrà discutere in Europa, dove - dato il consueto ritardo culturale - è ancora tabù e squalifica un politico che osa parlarne (vedi le derisioni a Tremonti «colbertista», venute dalla sinistra che ha adottato in ritardo il tatcherismo, e se lo tiene caro).

La sinistra italiota dovrà recuperare in fretta le terminologie della nuova moda, perché in USA essa viene già posta nei termini socialmente esatti: di lotta di classe (magari a sinistra questo ricorderà qualcosa?).
La pone così l’economista David Cay Jonhston nel suo ultimo saggio, «Free  Lunch - How the wealtiest americans enrich themselves at government expenses» (and stick you with the bill).
Il sottotitolo si traduce: «Come i più sfondati americani si arricchiscono a spese dello Stato, e fanno pagare il conto a voi».
Ma a chi conosce le formule dogmatiche del liberismo, già il titolo - Free Lunch - dice tutto (1).

«No free lunch», nessun pasto gratis, è uno degli atti di fede cruciali del credo iper-liberista.
E’ la risposta ai lavoratori che si lamentano di non essere pagati abbastanza per vivere, ai poveri e ai malati senza assistenza: il sistema dove regna il mercato perfetto non dà «nessun pasto gratis», ciascuno è pagato nella misura in cui la legge di domanda-offerta giudica valga il suo lavoro, e non di più.
Il che significa anche: il liberismo totale sarà anche spietato, ma è «morale».
Ha una sua immanente, rigorosa giustizia: lì, niente corruzione, niente trucchi per aver pasti gratis. Lì il gioco è feroce ma leale, almeno; non come nelle economie sociali europee, dove conviene percepire sussidi di disoccupazione grassi anziché sgobbare…

Jonhston dimostra invece che nel liberismo ci sono pasti gratis.
Eccome.
Anzi sono luculliani, a base di caviale e champagne.
E a divorarli sono i ricchi, i signori del mercato.

«La forza-lavoro americana è molto produttiva ed ha grandemente contribuito all’immensa accumulazione di ricchezza nazionale», scrive Jonhston: «Per un dollaro di salario a persona nel 1980, l’economia ha generato 1,68 dollari».
Ma il lavoratore americano non è stato compensato per la sua produttività eccezionale.
Anzi, ha perso salario.
Nel 1973, la paga media dell’operaio USA era di 33 mila dollari l’anno; nel 2005, è stata - in dollari del 1973 - di 29.143 dollari.
E’ il 90% della popolazione ad avere perso potere d’acquisto in questa misura.
Se si guarda poi al 50 % che sta più in basso, si vede che il suo reddito medio a testa, che nel 1980 era di già miserevoli 15.464 dollari annui, nel 2004 era sceso ancora a 14.149 dollari.
Hanno perso una media di 15 dollari a settimana.

La domanda è: «Perché il popolo ha perso reddito mentre la ricchezza del Paese (espressa dalla crescita del PIL) è aumentata a balzi grandiosi?».
Vuol dire che qualcuno ha rubato.
Ha derubato i lavoratori più sgobboni e capaci del mondo.
E chi è stato?
Il padronato e i ricchi speculatori finanziari.
Loro si sono fatti un sacco di «pasti gratis» a spese dei poveri onesti.

Per chi ci legge da tempo, non sarà una gran novità.
Dopotutto, è noto che tutto il «successo» del capitalismo terminale consiste nel retribuire troppo il capitale a spese del lavoro, sempre meno retribuito.
Ma che lo si dica apertamente è una novità assoluta in America.
Tanto più quando lo si dice, come fa Johnston, con precise spiegazioni sul come il furto è stato perpetrato.

«Appena il presidente Nixon visitò la Cina nel 1972, le imprese petrolifere americane si buttarono a fare prospezioni. Immediatamente, chiesero al governo cinese di mettere in vigore una tassa sui profitti d’impresa».
«Con questa tassa pagata in Cina, le imposte che le imprese USA dovevano agli Stati Uniti furono pagate sempre meno».
Anzitutto perché «i profitti delle aziende USA prodotti all’estero non sono tassati, finchè restano fuori dagli USA».
Poi, perché «le leggi tributarie USA consentono alle imprese americane di detrarre dal prelievo fiscale sui propri profitti i tributi che pagano a governi esteri. Una deduzione non del solito 35%, ma del 100%».
In più, ovviamente, le tasse sui profitti d’impresa pagate in Cina non sono che una frazione delle imposte vigenti in USA.
E non basta ancora.

«Un’azienda con sede in USA e filiali o fabbriche in un altro paese può prendere a prestito capitali in patria, deducendo gli interessi e così alleviando il suo carico fiscale in America. Contemporaneamente, può lucrare interessi sulla liquidità – non tassata – che mantiene all’estero. Sicchè un’ìmpresa che chiude una fabbrica in USA per aprirla in Cina può dedurre gli interessi dai suoi profitti tassati in USA, mentre allo stesso tempo produce profitti all’estero che non saranno mai tassati».

Conclusione: nel liberismo terminale, «distruggere posti di lavoro in America e crearne in Cina è il modo più efficiente di accrescere i profitti, per le aziende industriali. Dal punto di vista degli azionisti e dei manager, ogni altra strategia diversa dal trasferire macchine e posti di lavoro all’estero [per esempio investendo di più in macchinari più efficienti, creando mansioni a più alta intensità di capitale] non è altro che uno spreco del capitale aziendale».
Per questo sono scomparsi, dal ‘93 ad oggi, 3,4 milioni di posti di lavoro in USA.

E attenzione: questo non è l’effetto, spietato ma «giusto», del libero mercato e della sua mano invisibile, né della deregulation selvaggia.
E’ effetto delle leggi tributarie.
Ad arricchire i ricchi impoverendo i lavoratori non è il liberismo, ma un dirigismo o statalismo a rovescio, che di fatto elargisce sussidi alle alte classi, ai banchieri e ai padroni di multinazionali. Sussidi di Stato, precisamente, dovuti alla fiscalità sopra spiegata: di fatto, lo Stato USA applica un dirigismo che dà l’introito delle tasse pagate dal 90% inferiore degli americani che lavorano, al 10% superiore.
Questo non è liberismo ma socialismo, dice Johnston: solo, è «corporate socialism», socialismo per i detentori di capitale e padroni del vapore.

Per esempio Sam Walton, il miliardario padrone di Wal Mart, il colosso dei grandi magazzini a poco prezzo, è un perfetto «corporate socialist».
Attentissimo ad avvantaggiarsi di ogni beneficio che lo Stato concede ai ricchi: dall’uso di terreni gratuiti - che i comuni e gli Stati gli concedono perché si degni di impiantare un suo grande magazzino nella loro zona, agli affitti di spazi a lunghissimo termine e a costi inferiori a quelli di mercato, fino all’assunzione di lavoratori «addestrati a spese dello Stato».
Da lì viene ogni dollaro di profitto che Walton intasca.
Non viene da sue invenzioni, da brevetti, da genialità e rischi imprenditoriali: viene dal ciò che ruba agli altri cittadini-contribuenti.

Il presidente Bush e il Congresso (non solo i repubblicani) hanno perfezionato il «corporate socialism» con gli ultimi tagli fiscali: grazie ai quali il 10% dei percettori di massimo reddito in USA hanno una detrazione del 53%, e perfino i 300 mila individui al vertice della scala sociale - il decimo superiore dell’uno per cento dei massimi percettori - pagano oggi il 15% meno imposte di prima.
E si parla di individui con un reddito medio annuale di 26 milioni di dollari a testa.
Capito?

Quando in USA si comincia a chiamare il liberismo del mercato globale «Corporate socialism», non c’è dubbio: dato il senso spregevole che ha in America la parola «socialism», sta nascendo la volontà di cambiare lo stato di cose presenti in quanto spregevole.
E per cambiare le cose non occorre imporre dazi, né altre misure di protezionismo o di «populismo».

La soluzione la indica Johnston nella sua analisi sulle norme fiscali che favoriscono, anzi rendono conveniente, la delocalizzazione di lavori in Cina.
Basta abolire quelle norme che «truccano la gara» e sono sleali a vantaggio di pochi non-bisognosi. Non a caso Johnston dice che la sola risposta a questo parassitismo dei miliardari è «una rivolta dei contribuenti»: la rivolta fiscale è la base della democrazia anglo-americana, della «rivoluzione» come la si intende là.

Il successo di Obama mostra, se non altro, che lo spirito di rivolta dei contribuenti monta; per questo gli elettori hanno liquidato Hillary Clinton, espressione dell’Establishment che deve essere rovesciato in blocco.
Vedremo quanti voteranno, alla fine, McCain il liberista in ritardo.
Ma noi italiani dobbiamo preoccuparci d’altro.
E precisamente di come sarà adottata la nuova linea economica che partirà da Washington e che conquisterà anche i nostri politicanti, appena sarà una «moda» stabilita.
E di chi la adotterà.

Perché da noi in Italia, i «corporate socialist» non sono gli imprenditori, essi stessi alle corde; sono i parassiti della Casta.
In USA le leggi fiscali avvantaggiano i miliardari privati, qui il peso sulla nostra società è esercitato dai miliardari pubblici.
Ora, il mio timore - come ho già avuto occasione di dire - è che della nuova moda s’impadronirà la Casta.
Quella stessa che ci ha «privatizzato» (come taxisti) e «liberalizzato» (come barbieri), che ha svenduto il patrimonio industriale IRI agli stranieri in nome del liberismo, che ha ridotto le paghe operaie italiane a livelli da terzo mondo e portato l’esazione fiscale alle stelle, ci darà presto lezioni di anti-globalismo, e di dirigismo statalista.

Presto?
Già lo fanno.
Già predicano che bisogna »«aumentare i salari» usando «il tesoretto».
Già piangono sugli operai morti della Thyssen (per aiutare i quali i deputati, fatta una colletta, non hanno sborsato nemmeno 35 euro a testa).
Già sentono che è arrivato il momento di sfoderare le vecchie parole d’ordine della loro fallita ideologia di un secolo fa, «lotta di classe», «sfruttamento», «capitale contro lavoro».
Ho già sentito Bertinotti, una sera di queste, tenere questo genere di discorsi.
Ricordava che lui era stato sindacalista.
Parlava di grandi fabbriche che sfruttano i lavoratori… ma le grandi fabbriche non esistono più, e Bertinotti è abbastanza informato e intelligente da non poter non saperlo.

Resta l’altra sola conclusione: che sia in malafede.
Che parli di «grandi fabbriche» fantasma e di «lavoratori» alla Cipputi, sporchi di morchia, per non parlare del vero oppressore: la Casta.
Quella di cui questo miliardario fa parte.
Già, perché più istruttive delle sue parole, era il suo look.
La sua giacca di sopraffina fattura, probabilmente Handmade in London, la sua cravatta di soffice mohair scozzese, l’eleganza suprema ed agiata, da cliente esclusivo delle vere multinazionali del lusso.
Mica sto parlando di Dolce & Gabbana, che vestono i macrò e gangster russi arricchiti, no: sto parlando di certe bottegucce di Bond Street coperte di antiche boiseries, dove il sarto tiene in un registro manoscritto le misure del cliente accanto a quelle di Filippo d’Edimburgo, o il calzolaio conserva le forme in legno delle scarpe che gli farà su misura.

Sto pensando alla profumeria Penhaligon, che ti prepara l’acqua di colonia su tua ricetta esclusiva, al negozio Dunhill  che conosce la tua miscela di tabacchi preferita e te la fa avere nella tua residenza di Montecitorio.
Dove chi ha il numero può telefonare e sentirsi risponder dal maggiordomo: «No, l’onorevole non c’è. E’ dal suo guantaio di Amsterdam».
Sì, più guardo Bertinotti mentre parla di operai e grandi fabbriche, più capisco che si sente al sicuro: a lui, nessuna moda sottrarrà il pasto gratis.

Perché la Casta era di sinistra quando era liberista, sarà di sinistra quando tornerà statalista.
Magari gli americani, dopo dure battaglie e rivolte fiscali, faranno sputare ai loro capitalisti privati
i «pasti gratis» di cui si sono ingozzati.
Noi, alla Casta, glieli manterremo sotto qualunque ideologia: noi la votiamo, metà di italioti la vota perché resti lì, perché continui a ingozzarsi e a tassare.





1) Walter Uhler, «Obama’s populism versus McCain’s free trade», Walter C. Uhler.com, 20 febbraio 2008.



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