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Libia oggi, Siria domani (e Italia poi?)
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Come sta la Libia due anni dopo la «liberazione» operata dalla Nato alleata ai «ribelli», l’Occidente essendo tanto preoccupato – allora – per i diritti umani e la sicurezza dei cittadini? «Un copto egiziano di nome Ezzat Hakim Attalah è stato torturato a morte a Bengasi dopo essere stato imprigionato nel mercato municipale» dalle milizie che occupano la città, secondo un’organizzazione dei diritti umani egiziana.

E ancora:

  
«Nella cittadina di Tawergha, le milizie di Misurata hanno completato la pulizia etnica della parte di popolazione negra, presa di mira come sostenitrice di Gheddafi. 40 mila persone sono state espulse dalle loro case, fra detenzioni arbitrarie, torture e assassinii». Human Right Watch, l’ONG americana, ha pubblicato un rapporto su questo sterminio di massa, che passa inosservato alle cancellerie occidentali liberatrici; usando persino immagini satellitari per documentare la distruzione delle case: 1370 almeno sono state «incendiate, saccheggiate e demolite in modo sistematico, onde prevenire il ritorno degli espulsi».

«Domenica scorsa, il capo dello staff del primo ministro Alì Zeidan è scomparso nella capitale Tripoli, e sembra sia stato sequestrato. Pare si tratti di rappresaglia perché dei ministri del governo hanno denunciato ad alta voce che le milizie agiscono con impunità. Lo stesso giorno, un gruppo di miliziani ha fatto irruzione nel ministero della giustizia pretendendo le dimissioni del ministro, che aveva accusato la milizia di mantenere prigioni illegali».

Sono alcune delle notizie che Patrick Cockburn ha riportato sull’Independent. Giornalista e attivista dei diritti umani, Cockburn s’è dato la pena di tornare in Libia e vedere sul campo cosa è della «liberazione» e dei «diritti» di cui sopra, cosa che i grandi media occidentali hanno da tempo smesso di fare. Come perfettamente prevedibile, Cockburn ha constatato che le milizie sono dappertutto, spadroneggiano e terrorizzano trionfando nel disordine e nell’illegalità più impunita a spese della popolazione inerme.

«Fuori da Tripoli, il dominio dei pistoleri è assoluto», ma anche dentro Tripoli il governo cosiddetto provvisorio, teoricamente sostenuto dall’Occidente franco-americano e Nato, è alla mercé delle bande armate.





«Il 5 marzo scorso», racconta Cockburn, «il parlamento libico doveva discutere se epurare e cacciare dai posti pubblici i libici che hanno collaborato con Gheddafi nei 42 anni della sua dittatura. L’epurazione totale avrebbe coinvolto anche famosi oppositori, che magari trent’anni fa furono ministri del vecchio regime... Manifestanti hanno preteso la purga totale, costringendo i parlamentari a rifugiarsi, per timore della propria vita, nel palazzo del servizio meteorologico alle porte di Tripoli; qui sono stati assediati da un’orda di armati sparacchianti che son riusciti a irrompere nell’edificio, mentre i poliziotti addetti alla sicurezza si dileguavano. I parlamentari sono stati tenuti ostaggi per 12 ore», sotto la minaccia della folla e dei suoi kalashnikov. «E le cose peggiorano invece di migliorare». (Libya's future looks bleak as media focus turns elsewhere)


Bande armate festeggiano il secondo anno di anniversario della ribellione


Un altro failed state, «stato fallito»; più precisamente, reso fallimentare dall’intervento liberatore ed umanitario dell’Occidente; come già l’Iraq, l’Afghanistan, la Siria. Il risultato era tanto previsto e prevedibile, che anche i più ingenui dovrebbero accorgersi che non si tratta di errori o effetti collaterali, ma di una precisa volontà politica. L’Occidente nel suo complesso, tramite i suoi decisori e falsi agnelli, «vuole il caos» in questi Paesi.

L’indomani dell’atroce attentato dei «ribelli» alla Facoltà di Architettura di Damasco – bombe di mortaio contro la mensa a quell’ora affollata, 115 morti e 20 feriti – il ministero della difesa francese Yves Le Drian è volato in Turchia per un accordo di vendita di armi, tramite Ankara, ai medesimi «ribelli», fra cui sono egemoni – e l’Occidente lo riconosce senza ipocrisie – «Al Qaeda e jihadisti» esteri. Formalmente, è la Turchia he compra gli armamenti francesi. Ma il fatto che da 2012 la Turchia di Erdogan sia diventata il quarto importatore di armi al mondo (dopo India, Cina e USA) lascia pochi dubbi sul fatto che parte degli armamenti sono girati ai «liberatori» anti-Assad. Del resto Francois Hollande, il soi disant «socialista», ha appena tentato di imporre alla UE la levata dell’embargo europeo sulle armi con destinazione Siria: senza riuscirci. Ma il presidente più moscio della storia francese sa diventare un duro, quando gli viene richiesto; e la Francia sa far da sé in questo caso, armando sempre più i ribelli con armi sempre più sofisticate. Come la Casa Bianca del resto, che ha fornito ai siriani «liberatori» una nuova carabina per franchi tiratori, avanzatissima e con potere di penetrazione fra i muri.

L’appoggio diretto diventa tanto più aperto e brutale, in quanto la Francia ha già sloggiato l’ambasciatore siriano e consegnato l’ambasciata al «governo della coalizione», ancora inesistente se non sulla carta. Per questo voltafaccia, vera abiezione diplomatica, Parigi ha preso a pretesto il «massacro di Houla», la strage compiuta il 25 maggio 2012 in questa cittadina sotto il controllo dei ribelli; i cui veri autori, col tempo, si sono rivelati probabilmente i ribelli stessi, adusi a uccidere la popolazione liberata che non sta dalla loro parte: minoranze religiose di preferenza.

La Francia e l’Occidente hanno fretta. Anche perché tutte le tattiche tentate per abbattere il regime degli Assad sono finora fallite.

Si è tentata la tattica di comprare dei generali; la tattica libica, defezione di alte personalità del regime. La tattica anti-Saddam, accusando la Siria di usare armi chimiche «di distruzione di massa» per giustificare l’intervento, accusa stinta, dilavata e dimenticata. I massacri indiscriminati, ovvero strategia del terrore alla libico-irachena; e ad ogni bagno di sangue operato dai terroristi, se ne è accusato Assad. Ma due anni dopo, la Siria resiste ancora, e la popolazione – che non ama Assad – resta ancor più terrificata dai «liberatori», jihadisti stranieri.

C’era una opposizione nel Paese; l’Occidente l’ha sostituita con un’opposizione creata al computer, rappresentante di un popolo virtuale non da quello reale; questa opposizione virtuale è stata fornita di una «resistenza» al photoshop, formata da stranieri, ma con armi reali; e tuttavia, com’era da aspettarsi quando milizie del genere si mettono contro un esercito regolare saldo come s’è rivelato il siriano, hanno preso batoste. Ma, come scrive un sarcastico commentatore, «i combattenti che cadono non muoiono; appena un jihadista muore, si trasforma in civile: in tal modo risulta sempre che l’armata di Assad ha ammazzato civili in massa». Una realtà virtuale, che i media occidentali ripetono e diffondono quasi all’unisono.

Tutto sembra legittimo ai giornali, visto che Assad è un dittatore e l’Occidente s’è dato il compito divino di sopprimere i dittatori (almeno certuni). Naturalmente, ci sono state manifestazioni di piazza, migliaia sono scesi nelle strade , due anni fa, contro Assad e per chiedere riforme. Ma se le folle in piazza sono considerate «rappresentative» della volontà popolare in Siria, perché non in Francia? Dove recentemente un milione di persone hanno manifestato nelle strade di Parigi contro i matrimoni gay? O in Grecia, dove le piazze ribollono da mesi contro la miseria inflitta dall’euro-zona? O magari in Bahrein o in Katar, dove le manifestazioni di piazza sono trattate a mitragliate?

Domande ingenue. Le centrali occidentali hanno deciso che «il popolo siriano» merita la liberazione, e preparano l’ovvio futuro che vediamo oggi in Libia: l’Armata Siriana Libera, ossia i jihadisti pagati dai sauditi ed armati da noi, hanno già ripulito Homs della sua minoranza cristiana (80 mila persone cacciate col terrore), e nelle zone in cui dominano, hanno organizzato il caos, la miseria e la paura. Secondo i piani, si può dire. E senza alcun rispetto per la «diversità umana» eccezionale e preziosa che la Siria rappresenta(va), un crocevia millenario dove castelli crociati guardano su colonnati romani, dove moschee splendide conservano reliquie cristiane, dove si dice Messa ancora nella lingua di Gesù , e sciiti e sunniti alawiti hanno vissuto a fianco a fianco, in prezioso precario equilibrio, da secoli. Si avrebbe voglia di invocare per il paesaggio antropico-culturale siriano lo stesso rispetto che l’Occidente tributa per la «bio-diversità»: ma poi ci si ricorda subito che anche della bio-diversità l’Occidente fa strame, quando lo vuole Monsanto. Qui, è all’opera una Monsanto più potente, pervadente e imperiosa. Tutto come previsto, dunque.

Libia nel caos. Mali nel caos. Siria nel caos. Egitto nel caos. L’altra sponda del Mediterraneo ci è stata ben preparata dai nostri «alleati», nella paralisi dei nostri non-governanti da avanspettacolo. L’Italia è già di per sé, quasi un «failed state» ; al limitare di un’area voluta in instabilità permanente, può esserci un progetto di coinvolgerci, di renderci un grumo libico o siriano?

Leggo che Grillo annuncia «una primavera araba anche in Italia». Visto come finiscono le primavere arabe, e tanto più conoscendo i rapporti idilliaci che il 5 Stelle intrattiene con l’ambasciata USA, c’è da preoccuparsi.



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