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Breve memoria sugli inglesi persecutori
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Nel 1757, durante lavori in una casa ad Henley Street abitata a lungo della famiglia Shakespeare, nascosta dietro una trave del soffitto, fu trovata una dichiarazione di fede cattolica: era firmata da John, padre del drammaturgo. John Shakespeare era stato a suo tempo messo sotto inchiesta; s’era notato con sospetto che non partecipava, la domenica, alle funzioni anglicane, anche se lui s’era scusato di non farsi vedere in pubblico per timore di un processo per debiti. Il critico e filologo Edmond Malone dapprima riconobbe autentico il documento; più tardi si smentì, dichiarandolo un falso. Il documento originale è stato ovviamente fatto sparire. Solo nel ventesimo secolo si sono trovate copie di quello stesso testamento, in italiano ed in inglese: scritto da San Carlo Borromeo, e fatto circolare da gesuiti entrati clandestinamente in Inghilterra, doveva essere letto in punto di morte alla presenza di due testimoni, come professione pubblica di fede cattolica, a chi – avendo nascosto la sua fede in vita per sfuggire alle persecuzioni – voleva salvarsi l’anima.

Perchè la persecuzione anti-cattolica fu atroce e lunghissima. Dal 1534, anno della Legge di Supremazia con cui Enrico VIII (per sposare Anna Bolena) si proclamava unico capo della Chiesa d’Inghilterra e fino al 1829, quando fu emanata la Legge di Emancipazione Cattolica, per quasi tre secoli i sudditi britannici identificati come recusant furono privati dei diritti politici e civili, e perseguibili penalmente per il loro cattolicesimo. La propaganda additò i cattolici in blocco come traditori, quinte colonne del Papa e degli spagnoli, e fu la necessaria preparazione alla privazione dei diritti. I laici cattolici non potevano comprare nè ereditare terreni, nè aprire scuole, nè accedere alla professione legale; una taglia di 100 sterline fu promessa a chiunque avesse denunciato, con delazione allo sceriffo, a popish bishop, priest or jesuit, un vescovo, prete o gesuita papista colto a dire Messa o ad esercitare altra funzione entro i confini del regno. Si facevano irruzioni nelle case dei sospetti di papismo, cassetti venivano frugati, cassepanche sfondate, mobili spostati alla ricerca di priest holes, nascondigli dei preti ricavati nelle pareti. Catturati, i sacerdoti potevano essere imprigionati a vita a discrezione del re; più spesso subirono l’impiccagione e lo squartamento. Nel 1778 fu imposto ai cattolici, in cambio di qualche alleviamento della loro condizione di inferiori e braccati, un giuramento di fedeltà alla corona; persino questa legge fu giudicata troppo benevola dal popolaccio, che provocò disordini.

La culla delle libertà occidentali instaurò il primo Terrore della storia d’Europa, che niente ebbe da invidiare al successivo terrore giacobino o sovietico. E’ oggi impossibile comprendere lo sgomento, la lacerazione tra la devozione al sovrano e alla Comunione, e il timore per la salvezza dell’anima che dominò in quegli anni i perseguitati: va ricordato che il protestantesimo inglese non fu, come quello luterano in Germania, un furor di popolo, ma un’ingiunzione regale sopra un popolo tranquillamente credente nei sacramenti e nel potere salvifico della Eucarestia.

Difficile anche ricostruire il dolore e la mobilitazione eroica che la tragedia inglese fece nascere nel più vasto mondo cattolico, volto soprattutto a soccorrere quelle anime in pericolo – non di morte corporale, ma per l’eterna salvezza. Il testamento stilato da Carlo Borromeo, cardinale di Milano, trovato in casa Shakespeare, non è che un piccolo indizio di quella mobilitazione per le anime. Bisognerebbe raccontare delle centinaia di gesuiti, votati alla morte, che come commandos spirituali partivano dalle coste francesi e raggiungevano l’Inghilterra sotto false identità, al solo scopo di celebrare Comunioni clandestine in case private, dove i perseguitati si riunivano in piena notte, spesso in cantina, in piccoli gruppi, sperando di sfuggire alle delazioni della servitù, cui seguivano perquisizioni, arresti e confische.

(D)Javid Bey
   Edmund Campion
Edmund Campion, «un tempo delizia delluniversità e della Corte, che poi gettò la sua vita in un sacerdozio mortale perchè lisola non restasse orfana del Sacrificio come nella profezia di Daniele»: così Cristina Campo (1) rievocò questo martire inglese. Campion aveva davanti una brillante carriera ad Oxford, nel 1569 era stato scelto per dare il benvenuto ad Elisabetta, la regina vergine, all’università; era divenuto diacono anglicano. Ma poi, «colto da rimorso di coscienza», fuggì in Francia, si fece ordinare gesuita apposta per tornare a portare la grazia nella sua patria.

Sbarcò in Inghilterra il 24 giugno 1580 facendosi passare per gioielliere: immediatamente identificato, ricercato, braccato, di rifugio in rifugio andò predicando e somministrando i sacramenti nel Berkshire, nello Oxfordshire, nel Lancashire; riuscendo nel frattempo a scrivere Decem Rationes, un opuscolo sui dieci motivi per rifiutare l’anglicanesimo che, stampato clandestinamente e diffuso di mano in mano fece scalpore; tanto che di passaggio da Lyford e poi in Berkshire, egli potè ancora predicare, su richiesta del popolo, il 14 luglio. Il giorno dopo fu arrestato: la sua missione non potè durare nemmeno un mese.

Portato alla torre di Londra, fu processato in presenza di Elisabetta che gli offrì ricchezze e cariche se rinnegava la sua fede, cosa che rifiutò, pur professando la sua lealtà, come suddito, alla regina. Ascoltata la condanna insieme a due compagni, replicò: «Condannando noi, condannate i vostri stessi antenati, tutti i vostri vescovi e re e tutto ciò che fu la gloria dInghilterra, isola di Santi, figlia devota della sede di Pietro». Poi i tre condannati intonarono il Te Deum Laudamus. Furono squartati a Tyburn il primo dicembre 1581.

(D)Javid Bey
   Philip Howard
Philip Howard, conte di Arundel era un «affascinante mistico in panni frivoli», lo dice Cristina Campo. Suo padre, Thomas Howard, aveva già subìto l’esecuzione nel 1572. Siccome Philip restava apertamente cattolico ed era brillante uomo di corte, secondo cugino della regina, fu rinchiuso per questa sua colpa nella Torre di Londra il 25 aprile 1585: dieci anni, in attesa di giudizio per un’accusa di tradimento che i persecutori non riuscirono a provare. Prossimo alla morte per malattia, supplicò alla regina la grazia di poter vedere l’ultima volta la moglie e il figlio, che gli era nato dopo il suo arresto, e che non aveva mai visto. Elisabetta gli fece rispondere: «Se egli anche una volta sola assisterà al servizio protestante, non solo potrà vedere moglie e figli, ma sarà reintegrato nei suoi onori e possessi con ogni segno del mio regale favore».

Il morente replicò, con aristocratica sprezzatura: «Dite a Sua Maestà che se la mia religione è la causa per cui soffro, mi dispiace di non aver da perdere che una sola vita». Fu lasciato morire in solitudine nella Torre, e seppellito senza nome nella cappella della Torre stessa.

Robert Dibdale
, nato a Stratford on Avon, fu probabilmente compagno di scuola elementare di William Shakespeare. Per le autorità britanniche risulta scomparso fin dal 1576, forse a Lovanio. Di sicuro era al collegio inglese di Rheims, dove si preparavano i votati alla morte, nel 1579; attraversò la Manica il 22 giugno 1580, per essere arrestato a Dover appena sbarcato. Forse perchè non era ancora ordinato sacerdote, fu rilasciato ed espulso. Dibdale raggiunse di nuovo la scuola inglese di Rheims, ricevette l’ordine sacerdotale nella Cattedrale di Rheims il 31 marzo 1584; ai primi di agosto sbarcava di nuovo sulle coste inglesi sotto il falso nome di Palmer. Protetto da gruppi di fedeli che lo facevano passare di rifugio in rifugio, di cantina in cantina, riuscì a celebrare, confessare e comunicare i perseguitati per quasi un anno. Fu arrestato a Londra nel luglio 1586: appena un anno prima era stata varata la legge che dichiarava delitto capitale l’essere prete cattolico nel regno. Dibdale fu impiccato, stirato e squartato a Tyburn, il sobborgo di Londra irto di forche, insieme a due altri preti, John Adams e John Lowe.

John Adams
era stato ministro protestante, ma poi fuggito a Rheims; ordinato prete a Soissons il 17 dicembre 1580, partì in missione per l’Inghilterra il 29 marzo 1581; catturato quasi subito, riuscì ad evadere. Fino al 1583, dicono le cronache, «faticò strenuamente a Winchester e nello Hampshire, dove aiutò molti, specie delle classi povere», da clandestino. Fu catturato di nuovo nel marzo 1584, ed espulso con 72 altri sacerdoti. Pochi mesi dopo era già di ritorno in Inghilterra: stavolta, arrestato nel dicembre 1585, fu condannato allo squartamento.

John Lowe
era figlio di un sarto, Simon Lowe o Low, londinese forse d’origine ebraica. Anche lui fuggì, e fu ordinato diacono a Roma nell’agosto 1582. Nel dicembre dell’anno seguente sbarcò in Inghilterra. Documenti della polizia dimostrano che la sua assenza all’estero non era sfuggita alle occhiute autorità. Sua madre, Margaret, abitava presso il ponte di Londra dopo la morte del marito. Una sera, qualche passante sentì questo giovane che, passeggiando a fianco della vecchia Margareth, le parlava della sua aspirazione al martirio. Fu denunciato immediatamente, arrestato, e squartato.

(D)Javid Bey
   Edmund Campion
Robert Southwell, ultimo di otto figli, a soli 15 anni scelse di andare a Douai, in Francia, al Catholic English College; a 17 chiese ed ottenne, data la sua insistenza, di entrare nella Compania di Gesù, dove rapidamente concluse il noviziato e gli studi di filosofia e teologia, divenendo anche prefetto degli altri studenti. A 25 anni, nel 1586, chiese ed ottenne di tornare in patria da missionario clandestino: riuscirà a celebrare, predicare e confessare per sei anni, ospitato successivamente da famiglie cattoliche che sapevano di rischiare tutto ospitando un prete clandestino, infine diventando cappellano di lady Ann Howard, la moglie di San Filippo Howard, conte di Arundel, allora prigioniero nella Torre. Per lui, il giovane gesuita scrisse la Epistle of Comfort, che circolò in forma manoscritta, copiato di mano in mano – il Samizdat del terrore britannico – insieme ad altri suoi scritti religiosi: A Short Rule of Good Life, Triumphs over Death, Mary Magdalens Funeral Tears ed una Humble Supplication to Queen Elizabeth.

Dopo l’esecuzione di Jerome Bellamy, un cattolico colpevole di ospitare missionari, la figlia di questo, Anne Bellamy, fu torturata e violentata dal cacciatore di preti della regina, Richard Topcliffe, finchè non rivelò i movimenti di Southwell. Arrestato, torturato, condannato a morte, il giovane gesuita, raggiante, notò che sarebbe stato suppliziuato «alla età del nostro Salvatore», al che Topcliffe lo rimproverò di inaudita superbia; Southwell allora rispose che, lui, si riteneva «un verme della terra». Sulla carretta che lo portava al patibolo, cercò di benedire la folla con le mani strette dal pinion, un oggetto di tortura a cremagliera, poi si avviò a morte recitando il Salmo «in manus tuas». Era così magro che rimase appeso per qualche tempo al nodo scorsoio senza morire, e cercava di farsi il segno della croce. Poichè il boia si preparava ad aprirgli il ventre e spargerne le budella mentre era ancora vivo, Lord Montjoy si attaccò ai piedi del martire per affrettarne il decesso. Il corpo fu sbudellato e squartato come da procedura. La sua testa tagliata e mostrata alla folla, che però – quella volta – non urlò il consueto «Traditore!».

Philip Powell
, un gallese, era un avvocato di successo, ma nel periodo della persecuzione si fece benedettino in Francia, tornò in Inghilterra come missionario, nascosto di famiglia in famiglia. Era un periodo di torbidi; il benedettino finì come cappellano militare per l’armata del generale Goring, un realista di Cornovaglia; quando queste forze furono sbandate, riconosciuto come prete, processato e condannato alla squartamento, esclamò: «Chi sono io, che Dio mi onori tanto da volere che muoia per lui?». Chiese un bicchiere di sherry, per festeggiare.

Ma a che scopo elencare? L’elenco sarebbe troppo lungo, più di ottanta sono i martiri santificati dalla Chiesa, ma imprecisabile il numero degli anonimi, spesso piccola gente, uccisi, torturati, espropriati. Ed eroici.

John Donne
   John Donne
«Io ebbi la mia prima educazione tra uomini di unoppressa e afflitta religione, usi al disprezzo della morte e affamati di un immaginario martirio», ha lasciato scritto John Donne il poeta e saggista religioso. Donne è uno di quelli che abiurò: un suo fratello, Henry, era morto in prigione per aver dato rifugio ad un prete cattolico, William Harrington, che aveva tradito sotto tortura e a sua volta squartato. Per la vita, la ricchezza e i piaceri del sesso, Donne accettò di far carriera nella chiesa anglicana, fino a diventare diacono di Saint Paul a Londra, membro del Parlamento, cappellano reale, autore di applauditi testi anticattolici. Ma era stato, come ricorda Cristina Campo, uno di quei

«fanciulli che per anni, a tavola, non udirono gli adulti discorrere di mercature e feste, di intrecci familiari o di cariche di corte, ma di Presenza reale e Sacrificio Propiziatorio. Fanciulli riscossi nel colmo del sonno perchè un giovane pallido, in panni non suoi, è giunto in piena notte da Douai o da Rheims e alla primalba, porte e finestre serrate nel gabinetto di studio di suo padre, sta rivestendo i paramenti sacerdotali e da tutta Londra gli amici già convengono, in tacite piccole frotte, per assistere alla interdetta Messa romana. Fanciulli a cui si fa compiere un lungo giro (...) perhè non vedano la folla congregarsi trascinando su tralicci, la testa in basso, lo stesso o altro giovane pallido verso una collinetta irta di forche - o forse sollevati ben alti sulla folla perchè simprima nella mente quel volto esangue, rovesciato e estatico».

Il successo pagato con l’abiura non cessò di tormentarlo di oscuro rimorso. Nel 1608 scrisse un poema-trattato dove tentò di giustificare moralmente suicidio, con casuistica sottigliezza mostrando che non era un peccato. Un verso recita: «... perchè il vero martirio per molti/è non poter essere martiri».

Furono decenni atroci, di spie, delatori e lapsi, forche, di nascondimento, di paura per il corpo e per la dannazione eterna, e di sete di martirio: tutte cose che le polemiche britanniche sulla visita di Papa Ratzinger disonorano, per ricacciare nell’inconscio nazionale, e nella falsa coscienza britannica, quella vergogna morale occulta, per cui non s’è mai chiesto perdono.

Furono anni di bassezze morali inimmaginabili. La regina cattolica di Scozia, Maria Stuart, speranza del partito cattolico, sposò il conte di Bothwell, che solo tre mesi prima aveva assassinato il primo marito di Maria, lord Darnley, padre del futuro re Giacomo. Come si può solo immaginare, oggi, lo scoramento e sbandamento che questa fretta sospetta e indecorosa portò nelle file e nei cuori cattolici, già in pericolo?

Amleto, che uccide Polonio nascosto a spiare dietro una tenda (spie dappertutto, c’è del marcio in Danimarca) si sente dire da sua madre: che temeraria e sanguinosa azione è questa! E lui risponde alla madre: «Quasi tanto cattiva, mia buona madre, come uccidere un re e sposarne il fratello!». La figura di una regina che sposa incestuosamente l’assassino di suo marito torna nell’Amleto ma anche nel Riccardo III, come un incubo ricorrente. Il pallido Amleto vive l’irresolutezza e la lacerazione del cattolico, impedito nell’azione dal non saper più dove stia il bene e il male.

L’elogio che l’amico Orazio fa sul corpo di Amleto morto «Si spezza ora un nobile cuore... Addio amato principe, i cori degli angeli ti invitino al tuo riposo», è in realtà un elogio trasparente al duca di Essex, amletica, aitante, valorosa, impulsiva figura, favorito, ritenuto amante ma forse figlio occulto di Elisabetta che per propaganda si faceva dire vergine, e da lei fatto decapitare per il sospetto di volerle togliere il regno (atto che porterà la vecchia regina spietata a perdere la ragione). Anzi, sono le parole stesse che il duca di Essex pronunciò sul patibolo: «... e quando la mia anima e il mio corpo si dipartiranno, Dio, manda i tuoi angeli benedetti che mi siano vicini, a portarla nelle gioie del cielo».

La paura della dannazione eterna balena anche nel re usurpatore che nell’Amleto ha ucciso suo fratello e ne ha sposato la moglie.

«... Può ottenersi il perdono ritenendo il frutto della colpa? In questo mondo corrotto, la mano indorata del delitto può allontanar la giustizia, e spesso si vede il reo comprar la legge col ricavato del suo misfatto; ma non così in cielo. Ivi non è frode alcuna, ivi lazione si mostra nella sua vera sembianza, e posti dinanzi alle nostre colpe, ci è forza confessarle. Che mi rimane? Sperimentare lefficacia del pentimento. Cosa non può esso fare? Ma che cosa può fare a chi non sa pentirsi? O doloroso stato! O coscienza nera come la morte! Oh anima sepolta nel fango, in cui ti immergi tanto più, quanto più ti dibatti per uscirne!».




Papa Benedetto XVI e la regina Elisabetta II al palazzo di Holyroodhouse, Edimburgo


Shakespeare, spero si capisca, mette in bocca al peccatore, insieme ad una descrizione dei tempi foschi di iniquità apocalittica, un’apologia della confessione cattolica, e nel re, incestuoso e fratricida, l’anima disperata per la mancanza del perdono sacramentale.

Nella finzione teatrale, potevano dirsi verità tremende, che il pubblico capiva al volo e che potevano sfuggire ai poliziotti. Ma l’Inghilterra non ha mai riconosciuto nel suo maggior genio, il lacerato, perseguitato cattolico nascosto.



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