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La catastrofe dell’Occidente (parte III)
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Israele Britannico

Il processo di destrutturazione della Fede cristiana, un processo il cui esito finale è maturato ad Occidente, oltre Atlantico, nell’America puritana, è iniziato con Lutero.

Se quella cristiana è l’universalizzazione della Fede di Abramo, che San Paolo nella Lettera ai Romani (XI,16-24) chiama la radice santa e che era il Cristianesimo ante litteram («Prima che Abramo fosse, Io sono», Giovanni 8,58), e se è d’altronde anche l’universalizzazione della Legge di Mosé che Cristo ha certamente abolito nelle sue formalità farisaiche, esclusivamente etniche, legate all’economia dell’Antico Testamento, non però nella sua essenza ossia l’Amore di Dio e del prossimo (Deuteronomio 6,5; Levitico 19,18; Matteo 22,34-40) che Egli ha invece dichiarato permarrà fino alla fine del mondo (Matteo 5,17-20) Lutero, che lo volesse o meno, ha aperto la strada per la quale la fede cristiana, separata dal suo alveo apostolico, si è un po’ alla volta privata della Luce di Cristo, fino alla penetrazione in ambito cristiano degli influssi esegetici del giudaismo post-biblico ovvero di quell’esegesi che fa di Israele il Messia Collettivo. Infatti, nel momento stesso nel quale Lutero dichiarò la Chiesa visibile la Babilonia, inevitabilmente ed immediatamente il vuoto ecclesiale fu colmato dallo Stato (le sette protestanti sono non a caso chiese di Stato) e dalla nazione che, per tale via, iniziò ad assumere caratteri messianici, quelli che ritroviamo in varie ideologie moderne, dal giacobinismo al nazismo, fino all’americanismo.

Vi è, infatti, una stretta relazione tra l’esegesi del giudaismo post-biblico, penetrata in ambito cristiano per opera della Riforma, e quella che è stata definita la religione americana: la relazione è data dall’aver la seconda ereditato, per una sorta di osmosi spirituale, l’esegesi messianico-millenarista del primo. Essendo essa espressione radicale delle istanze nate dalla Riforma luterana, nella religione americana si è avuta, molto semplicemente, la sostituzione del soggetto messianico di riferimento: il messia collettivo, che per il giudaismo post-biblico è il popolo ebreo, diventa nella religiosità americana di matrice puritana la nazione americana, il cui destino manifesto sarebbe il segno della benevolenza divina verso l’America.

Il trait d'union tra la Germania luterana e l’America puritana fu, però, l’Inghilterra anglicana ed elisabettiana tra il XVI ed il XVII secolo. Dopo Lutero, è stato, infatti, lo scisma anglicano ad allargare la breccia per la quale l’esegesi postbiblica dell’ebraismo non cristiano è penetrata in ambito cristiano.

All’alba dell’età umanistica, nel clima incandescente dell’Europa del XVI secolo, era fervente l’attesa di una era messianica che inaugurasse un nuovo ordine mondano. Questa esegesi ebbe un notevole peso spirituale in Inghilterra durante il regno di Elisabetta, perché assurse a giustificazione teologica del suo progetto religioso-politico, dichiaratamente anti-ispanico ed anticattolico. La politica egemonica intercontinentale di Elisabetta aveva bisogno, per scopi di propaganda, di una nuova cultura che giustificasse la sua inedita concezione imperiale di tipo assolutista ed anti-tradizionale. La riforma imperiale tudoriana fu, in effetti, come si è visto, una riforma prima di tutto religiosa che glorificava la dinastia di Enrico VIII ed Elisabetta I come quella che, eliminato il Papa e reso il monarca capo della Chiesa nazionale, aveva ridato vita alle radici mistiche, ad un tempo arturiane e israelite, della antica monarchia britannica (1).

E’ nell’imperialismo religioso tudoriano che affonda le sue radici l’ideologia dei British Israelites. Questa ideologia fa risalire la stirpe britannica alle dieci tribù perdute di Israele, quelle del biblico regno del Nord, che nell’VIII secolo avanti Cristo furono deportate dagli Assiri. In tale prospettiva, il popolo inglese diventa l’erede messianico delle promesse divine, al popolo ebreo, interpretate secondo l’esegesi rabbinica ossia come promessa di una egemonia spirituale e politica mondiale.

Sir Francis Drake, il noto corsaro al servizio della regina Elisabetta, in una lettera del 1587, indirizzata a John Foxe, scriveva:«Che Dio sia glorificato, la sua Chiesa e la sua Regina preservate, i nemici della verità vinti e che possiamo avere ininterrotta pace in Israele» (2). Israele, come è noto, in quanto Stato nasce soltanto nel 1948. Con tutta evidenza l’Israele cui si riferiva Drake era, per l’appunto, l’Inghilterra intesa, secondo la criptica credenza esoterica anglo-giudaica, come Israele britannico.

Dal British Israel allastro nascente degli States

Nella dottrina dell’anglo-israelismo, o anglo-giudaismo, l’Inghilterra, dunque, assurge al ruolo di nazione prediletta da Dio per l’avvento del futuro Regno Messianico. Questa dottrina, le cui radici risalgono al clima politico-spirituale del regno di Elisabetta, ha costituito la giustificazione teologico-politica dell’imperialismo inglese fino al definitivo tramonto dell’impero coloniale nel secondo dopoguerra. Infatti il convincimento che la monarchia inglese fosse l’erede del regno di Israele consentiva di giustificare teologicamente l’imperialismo britannico.

La dottrina dell’anglo-israelismo non è cosa del passato. Essa è sopravvissuta al perduto impero. Ancora nel 1934 Arnold Toynbee riferiva che: «Fra i protestanti di lingua inglese si trovano… alcuni fondamentalisti che si reputano il popolo eletto nel senso letterale del termine, quale viene usato dal Vecchio Testamento. Questo Israele Britannico fa fiduciosamente risalire il suo ceppo fisico alle scomparse Dieci Tribù» (3).

Maurizio Blondet ne ha potuto constatare l’attuale vitalità: «Nel 1991 - egli ha scritto - mentre ero a Washington (infuriava la - prima - guerra del Golfo) mi capitòdi constatare che i British Israelites esistono tuttora. Conservo un loro curioso libretto che pubblicarono allora, ‘The Profhetic Expositor’, che è una summa delle loro credenzePresto tornerà il Messia e instaurerà il Regno di Dio, che saràun regno concreto e materiale, con territorio, leggi, popolo e trono’. Sarà ovviamente la Casa Reale Britannica, ‘discendente da Davide’, a occupare quel tronolideologia che lopuscoloThe Profhetic Expositoresprime (è) una sorta di dottrina segreta coltivata nella cerchia interna dei fedelissimi alla Corona, e intimamente legata alla religione di Stato britannica, lAnglicanesimo (…). In tempi a noi vicinissimi (1952) Sir Oliver Cocker-Sampson, alto esponente conservatoreintervistato sui motivi della costante politica inglese a favore del Sionismo e dello Stato dIsraelerispose: ‘Winston (Churchill), Lloyd George, Balfour (quello della famosa dichiarazione del 1917 sul focolaio nazionale giudaico da creare in Palestina) e io siamo stati allevati come protestanti integrali, credenti nellavvento di un nuovo Salvatore quando la Palestina ritornerà agli ebrei. Di fatto, non è facile spiegare razionalmente, in termini di Realpolitik, lostinazione della politica britannica a favore del Sionismo» (4).

La setta dei British Israelites è portatrice – eredità dei tempi tudoriani – di un forte odio verso la Chiesa cattolica. Lo storico britannico Hill, studioso del mondo spirituale e culturale inglese tra Cinquecento e Seicento, ci informa che nel 1594 il matematico inglese John Napier, l’inventore dei logaritmi, pubblicò nell’Inghilterra elisabettiana un’opera, dal sintomatico titolo di Chiara rivelazione dellintera Apocalisse di San Giovanni, nella quale si invocava: «Il gran giorno, nel quale piacerà a Dio chiamare la vostra Maestà, o i vostri eredi o gli altri prìncipi riformati, a quella grande universale riforma e distruzione di quella città e di quel trono anticristiano, Roma» (5). Anche Isaac Newton, lo scopritore della legge di gravità, era convinto che il Papa fosse l’Anticristo.

Il provvisorio cambio di regime, nel 1649, da monarchico a repubblicano, non costituì una rottura nel processo di formazione dell’anglo-israelismo. La teocrazia cromwelliana radicalizzò il millenarismo anglo-israelita, che giunse a livelli inauditi di delirio sterminatore, al quale pagarono il proprio tributo di sangue, insieme agli inglesi rimasti fedeli alla Chiesa di Roma, anche i cattolici irlandesi.

Nel discorso che Oliver Cromwell fece nel 1653 per l’inaugurazione del parlamento, i motivi ispiratori dell’ideologia anglo-israelita trapelano con tutta evidenza: «… voi siete chiamati da Dio - disse il Lord Protettore ai parlamentari - a governare con Lui e per Lui… la vostra è una chiamata dallalto… possa essere questa una porta aperta alle opere che Dio ha promesso e profetizzato… Noi conosciamo coloro che saranno gli alleati dellAgnello nella guerra contro i suoi nemici. Essi devono essere un popolo chiamato, eletto e fedeleIo sono sicuro che qualcosa ci attende, che ci troviamo su di una sogliae qualcuno di noi ha pensato che fosse nostro dovere porci su questa strada e non considerare invano quelle profezie di Daniele e dellApocalisse, ed il regno non verrà affidato ad unaltra nazione» (6).

La dottrina dell’Israele Britannico continuò a prosperare oltremanica, più o meno segretamente. Nel XIX secolo essa ricompare nelle opere di alcuni eruditi come John Wilson, il reverendo Glover, Edward Hein e George Moore, accompagnandosi apertamente ad un millenarismo nutrito dell’attesa spasmodica dell’imminente ritorno di Cristo per l’Armageddon finale e la restaurazione politica del regno messianico, del quale nell’impero inglese si individuava l’antefatto. L’Hein, ad esempio, assicurava che: «E del tutto impossibile che lInghilterra venga mai sconfitta… Armageddon si profila in distanza. Sarà il tempo quando quasi lintero mondo si radunerà in battaglia contro di noi, e dobbiamo essere pronti» (7).

L’aspetto razzista dell’ideologia anglo-israelita è direttamente connesso con questo millenarismo che proclama apertamente la superiorità metafisica della razza inglese e, all’interno di essa, della casta nobiliare, il vero Israele, divinamente destinata all’egemonia sul mondo intero.

Scrive in proposito ancora Maurizio Blondet: «Lo storico dellarte fabiano John Ruskin, alla fine dell800, entusiasmava la gioventù aristocratica predicando la superiorità anche razziale della casta signorile britannica, a cui come vero Israele era offerto il dominio del mondo: una missione morale, poiché il mondo andava incivilito estendendo ad esso, volente o nolente, i benefici del superiore umanesimo britannico» (8).

Tale dottrina, accesamente anticattolica, ha nutrito e tuttora nutre la convinzione di superiorità razziale coltivata dall’aristocrazia britannica. In nome di tale dottrina, negli anni trenta del XX secolo, gli ambienti blasonati della corte inglese strinsero intensi rapporti con il regime nazista, l’ideologia del quale, a sua volta, derivava il suo esoterismo dai circoli teosofici protestanti che a suo tempo alimentarono l’elitarismo razziale e nazionalista della Germania guglielmina, trasposizione ariosofica dell’anglo-israelismo.

Durante l’età vittoriana, con l’imperialismo inglese trionfante su scala planetaria, la dottrina dell’Israele Britannico ebbe il suo momento di maggior peso politico. Al momento dell’inizio del declino della potenza britannica la ragione addotta, dagli anglo-israeliti, per spiegare tale crisi, fu l’allontanamento dell’Inghilterra dalla missione salvifica affidatale da Dio. Fu a questo punto che molti anglo-israeliti costatando come al declino inglese corrispondesse l’emergere della giovane potenza americana, nata dalle stesse radici riformate dell’Inghilterra, giunsero alla conclusione che il favore di Dio si fosse spostato verso gli Stati Uniti e che fossero questi ultimi la vera nazione erede delle dieci tribù scomparse di Israele. Pertanto la funzione storica della madre patria inglese venne, da questi anglo-israeliti, derubricata al ruolo di una sosta provvisoria, dell’eredità israelita, in terra inglese necessaria in vista del suo definitivo passaggio verso il nuovo mondo, ancora di là dall’essere scoperto ma, nel disegno messianico in corso di realizzazione, deputato a diventare il luogo finale, la nuova terra promessa, dell’adempimento delle promesse bibliche.

Romolo Gobbi ha colto molto bene la filiazione anglo-israelita dell’ideologia puritana del Popolo Eletto, della Nazione Messianica, in relazione all’identità messianico-protestante degli Stati Uniti. Gobbi annota, ad esempio, che il colonnello David Humphreys, collaboratore del generale Washington, premetteva al suo Poema sulla Futura Gloria degli Stati Uniti dAmerica questo commento: «LAmerica, dopo essere stata nascosta per molti anni dal resto del mondo, fu probabilmente scoperta, nella maturità del tempo, per diventare il teatro in cui rivelare i più illustri disegni della Provvidenza, nei suoi doni alla razza umana» (9).

Il messianismo politico americano nel segno del
destino manifesto

La translatio messianica del ruolo di nazione redentrice, di vero Israele, dall’Inghilterra agli Stati Uniti è, in sostanza, la ragione per la quale: «Non è assurdo credere, a questo punto, che Benjamin Franklin obbediva alle stesse suggestioni quando, come membro del Triumvirato incaricato di disegnare il sigillo degli USA, proponeva nel 1776 di raffigurarvi Mosé che divide il Mar Rosso mentre il Faraone e i suoi armati sono sommersi dalle acque» (10).

Il simbolo proposto da Franklin, sebbene poi non ufficializzato, esprimeva molto bene l’isolazionismo elettivo americano, strettamente connesso con una esegesi giudaico-postbiblica del Vecchio Testamento. Una esegesi improponibile in un’ottica cristiana neotestamentaria, che legge l’Antico Testamento in prospettiva cristologica e non nazional-messianica. L’esegesi protestante della Scrittura riprende ma dopo Cristo – attenzione: questo è l’elemento discriminante tra la lettura giudaica postbiblica, cui il protestantesimo cede, e la fede cattolica! – il separatismo, certamente necessario in epoca mosaica, per custodire il monoteismo in un mondo politeista, e tuttavia ora, una volta che la Rivelazione ha trovato il suo adempimento e la sua universalizzazione in Cristo, senza più ragion d’essere. L’isolazionismo di matrice puritana, insieme al suo rovescio interventista, è, fin dalla loro origine, uno dei tratti peculiari del rapportarsi degli Stati Uniti con il resto del mondo. Washington e Jefferson furono gli elaboratori della dottrina, poi ufficialmente codificata nel XIX secolo dal presidente Monroe, con il nome del quale è oggi nota agli storici.

Secondo la dottrina Monroe, l’Occidente – qui identificato con il solo continente americano – sarebbe la luminosa terra della libertà antagonisticamente divisa dall’Europa, terra, al contrario, dell’oppressione. Dopo il primo abbozzo elaborato da Washington, fu Thomas Jefferson ad esprimere con estrema chiarezza questo sentimento americano di avversione e distacco verso l’Europa e la conseguente necessità di tenere distinto ed opporre l’emisfero occidentale, egemonizzato dagli USA, alla vecchia Europa. Jefferson riteneva provvidenziale il fatto che l’Oceano Atlantico separasse e proteggesse gli Stati Uniti dalla contaminazione della corruzione europea. La visione jeffersoniana è ispirata ad una prospettiva chiaramente millenarista, nella quale l’incontaminata purezza americana è presa ad immagine della realizzazione mondana delle profezie bibliche sul futuro regno di pace e di giustizia. La necessità di evitare ogni contaminazione con l’Europa deriva, secondo Jefferson, dal fatto che mentre il vecchio continente è il luogo delle monarchie, dove, testuale, «le nazioni si sono divise in due classi, lupi e pecore», l’America è il luogo della libertà e della felicità (11).

Nel suo discorso di insediamento, Jefferson tornò sul provvidenziale fossato oceanico posto tra Stati Uniti ed Europa. Successivamente, nel 1812 e nel 1820, egli riprese ripetutamente l’idea di un necessario meridiano che divida gli Stati Uniti dall’Europa. L’America diventa in Jefferson, con evidente richiamo ad un biblismo millenarista, l’emisfero nel quale «il leone e lagnello vivranno in pace luno accanto allaltro».

Per il tramite dell’anglo-israelismo e dell’eredità puritana, questo millenarismo messianico è tuttora vivo ed operante nella cultura e nella politica americana. Nel 1999, il senatore John Ashcroft, l’inventore del metodo carcerario di Guantamano, alla Bob Jones University, dichiarava: «Unica tra le nazioni, lAmerica ha riconosciuto che la fonte del nostro carattere è divino ed eterno, non civile e temporale. E poiché sappiamo che la nostra fonte è eterna, lAmerica è diversa» (12).

Jesse Helms, senatore statunitense, in un discorso tenuto presso uno dei principali think tank della destra neoconservatrice americana, la Heritage Foundation, ha esplicitamente dichiarato: «Noi siamo al centro del mondo e intendiamo restarci (…). Gli Stati Uniti devono dirigere il mondo portandovi la fiaccola morale, politica e militare del diritto e della forza, e servire da esempio a tutti i popoli» (13).

Anche Ronald Reagan esprimeva convinzioni politiche ispirate ad un millenarismo di retaggio evidentemente puritano quando affermava a proposito della Bibbia: «E un fatto assolutamente inconfutabile che in questo unico libro si trovano le risposte a tutti i complessi e spaventosi problemi che dobbiamo affrontare, sia in patria che allestero» (14).

Non si creda, tuttavia, che queste tendenze apocalittico-millenariste siano un patrimonio ideologico della sola destra repubblicana americana. Esse sono l’elemento essenziale dell’identità stessa dell’America e dunque trapelano anche nella cultura politica dei democratici. Il presidente Clinton, ad esempio, ebbe a suo tempo modo di ribadire la funzione storico-messianica dell’America impegnandosi ad una politica tutta «… nella direzione di valorizzare il ruolo guida degli Stati Uniti nel mondo» (15).

Anglo-giudaismo e rivoluzione puritana

L’anglogiudaismo è stato il terreno di coltura della rivoluzione puritana: l’idea millenarista pseudo-messianica emigrò sulla MayFlowers verso le sponde nordamericane. Eric Voegelin ha individuato nell’esperienza puritana, fondativa degli Stati Uniti, un progetto gnostico volto alla trasposizione intramondana della Gerusalemme celeste: il medesimo progetto che ha costituito, nella storia, il nocciolo duro di tutte le esperienze rivoluzionarie anticristiane, dal giacobinismo, al comunismo, dal liberalismo al nazismo. Il puritanesimo, infatti, è l’utopia religiosa dell’attuazione su questa terra della società perfetta, della società cristiana ideale. Una utopia intrisa di millenarismo. Nell’esperienza puritana il soggettivismo di origini luterane si trasforma in una ferrea tensione volontarista rivolta alla costruzione del mondo nuovo nel quadro di un’esegesi apocalittica che assegna un ruolo salvifico e messianico alla comunità egalitaria dei santi e dei puri, scelti da Dio, con esclusione elitaria di tutti gli altri, per l’edificazione della Nuova Gerusalemme nella Terra Promessa americana. Un volontarismo titanico di cui rimarrà traccia nella letteratura americana: si pensi al Moby Dick di Melville nel quale è espressa tutta l’angoscia dello spirito puritano di fronte al destino incombente sulla libertà del cristiano incatenata alla legge, al Leviatano che si inabissa (un’immagine scritturale, quella del mostruoso, che già Lutero ed Hobbes ripresero per indicare l’essenziale malvagità della natura umana e la bontà del potere autoritario e castigatore).







La libertà soggettivista diventa, qui, soggezione assoluta ad una Legge di nuovo interpretata come costringente legalismo farisaico, e non più colta nella sua essenza, definitivamente rivelata da Nostro Signore Gesù Cristo, di Amore di Dio e del prossimo. La religiosità puritana è non casualmente di tipo biblico-farisaico: in essa la figura di Cristo non ha più il carattere del Logos, del Verbo, ma assume un sapore pneumatico. Questo biblismo, che secolarizzandosi diventerà biblismo sociale ossia etica degli affari, non deve ingannare. In ambito protestante, infatti, l’esaltazione del Vecchio Testamento nasconde la falsificazione della fede attuata mediante un’esegesi giudaizzante che, segretamente, riproduce, per tale via, in ambito cristiano lo stesso fenomeno di concorrenza esegetica che ha già travagliato la storia dell’Antico Israele. Storia, quest’ultima, nella quale, si veda ad esempio Ezechiele 8,5-13, influssi cultuali spuri hanno più volte deformato la Fede di Abramo, ossia, come si è detto, la Radice Santa di cui parla San Paolo ovvero il Cristianesimo ante litteram (Prima che Abramo fosse, Io Sono Giovanni 8,58), contendendo alla Rivelazione divina l’egemonia spirituale (l’esegesi spuria della Scrittura era diventata maggioritaria nel Sinedrio ai tempi di Cristo come sta a dimostrare lo scontro del Signore con i sinedriti, da Lui esplicitamente accusati, salvo eccezioni come quelle di Nicodemo e Giuseppe d’Arimatea, di tradire la fede di Abramo e Mosé).

Dai documenti, dai sermoni, dai decreti sinodali, lasciatici dai puritani traspare con evidenza che, negata la Chiesa come Corpo Mistico e Visibile di Cristo nella storia, il modello teorizzato e praticato è il popolo di Israele, inteso al modo post-biblico come messia collettivo, del quale, in una teologia della storia sostanzialmente priva di prospettiva autenticamente cristiana, i puritani, che si sentivano una nazione-chiesa, si consideravano gli eredi. La letteratura religiosa puritana è un continuo citare passi veterotestamentari nell’intento di dimostrare che nel popolo della nuova terra promessa americana si perpetua il soggetto collettivo messianico destinato a manifestare la divina volontà di fronte alle nazioni. Accettando per sé l’ambigua prospettiva rabbinica e post-biblica del popolo messia, la comunità puritana diventa l’assemblea degli eletti, la nuova Sion, chiamata da Dio a costruire, nel deserto dei selvaggi territori d’America, la città posta sul monte (The City upon a Hill).

Era questa l’esortazione che uno dei leader tra i pilgrim fathers, John Winthrop, rivolse ai puritani sulla MayFlowers durante il viaggio verso l’America. Quella città ideale, che Dio si sarebbe degnato di far rifulgere davanti a tutto il mondo, avrebbe dimostrato che è possibile costruire la società cristiana perfetta: una città che, ammoniva Cotton Mather, i santi e gli eletti avevano il sacro dovere di tenere, come vigna del Signore, ben recintata e separata dal terreno incolto, il terreno del diavolo, ossia dal resto del mondo.

Elisa Buzzi, nota studiosa del puritanesimo, osserva:

«Ma a un certo punto questo straordinario impeto creativo, questa energia umana e religiosa si è esaurita, anzi si è rivoltata contro la vita. Già alla fine del 700 si può dire che il puritanesimo come fenomeno religioso e sociale, nella sua matrice originaria, non esiste più (…). Che cosa è accaduto perché questo popolo si chiudesse in se stesso, diventasse così simile alla descrizione che Tacito dà dellantico popolo ebraico: ‘Amicissimi tra di loro, ma nemici di tutti gli altri?’. Anzi, spesso, anche nemici di se stessi, persecutori di altri gruppi religiosi, sterminatori di indiani? Come è potuto accadere? (…) la risposta va cercata… nel cuore della loro esperienza religiosa. Il loro concetto del rapporto con Dio mancava di Gesù. Paradossalmente la loro grandezza era anche il loro limite, perché nel rapporto con Dio seguivano un metodo, una strada che… dopo Cristo, per dei cristiani, non è… accettabile, non è… quella che Dio stesso ha scelto. La posizione dei puritani conteneva una debolezza radicale: cercavano di rendere contemporaneo Cristo, di sperimentarlo, ma non ammettevano che Cristo fosse una presenza che continua nella storia… tutta la tensione religiosa è diretta e concentrata su Cristo, per avere esperienza diretta di Cristo’ (experiential piety). Ma è proprio in questo termine, ‘esperienza’, che si nasconde lequivoco, perché è unesperienza che rifiuta le modalità, il metodo scelto da Dio in Cristo, cioè lincarnazione e la permanenza di Cristo nella Chiesa, nei sacramenti e attraverso il Magistero. Questo rifiuto, nei grandi come Cotton o Edwards, genera il tentativo tragico, tormentoso, di mantenere allesperienza un significato veramente e puramente religioso (…). Negli altri, nei più, decade immediatamente nellirrazionalismo degli illuminati e degli entusiasti’ (anabattisti, antinomiani, quaccheri) oppure nel moralismo legalista e iperrazionalista, l’ipocrisia, il peccato sommo per i puritani, che a un certo punto deve essere accettato perché inevitabile, anzi socialmente utile. Se (però) la sorgente del puritanesimo si è inaridita, la cultura e la mentalità americane ci appaiono ancora oggi disseminate di ideali puritani. Il puritanesimo è finito, ma sussiste una eredità, una tradizione puritana. Anzitutto il senso di un destino particolare, di una promessa, di una missione di salvezza e rigenerazione per tutto il genere umano. Questa terra è stata posta qui per essere scoperta da un popolo speciale, da una nuova genia di esseri umani chiamati gli americani… (destinati) a rifare il mondo dallinizio e a costruire per tutta lumanità una luminosa città posta sul monte’. Non è una citazione da un discorso di Winthrop o da un Sermone di Edwards, ma dal Closing Statement, cioè dal Discorso Finale della campagna elettorale di Ronald Reagan nel 1980. Ma anche lidea della New Frontier kennediana, rivalutata oggi dai democratici, non è estranea allidea di una rigenerazione e di una missione» (16).

L’idea di un’elezione divina degli Stati Uniti è stata ripresa da Samuel Huntington, il teorico, recentemente scomparso, dello scontro di civiltà, nella sua ultima opera La Nuova America, come il tratto caratterizzante ed irrinunciabile dell’autentica identità wasp americana: un elemento essenziale, a suo dire, che la politica dei neoconservatori dovrebbe proporsi di salvaguardare, a tutti i costi, dall’inquinamento delle altre culture e componenti etniche immigrate negli States.

Questa idea pseudo-messianica è stata alla base anche dell’ossessione di George W. Bush per l’esportazione globale ed unilaterale della democrazia. Il messianismo millenarista, proprio della mentalità puritana, è tornato, non a caso, anche nelle dichiarazioni bushiste sull’America in apocalittica e titanica lotta, la guerra al terrore, contro l’Impero del Male. In un breakfast di preghiera, nel 2002, ad esempio, Bush jr. affermò che: «Dalla fondazione dellAmerica, la preghiera ci rassicura che la mano di Dio guida gli affari di questa Nazione!».

La religione americana è in sostanza una spiritualità intimistica caratterizzata dall’assenza di dogmi definiti e dall’esperienza solipsista di Dio (o del proprio io confuso con l’alterità di Dio). Questa spiritualità ambigua è l’essenza della religione civile, patriottica ed interconfessionale, alla quale aderiscono gli americani nella loro messianica convinzione di essere depositari, per elezione e volontà divina, di una missione escatologica. Sarebbe infatti sbagliato credere che il destino nazional-imperiale, che essi si attribuiscono, sia dagli americani identificato con la sola esportazione globale del modello americano o, per stare a slogan recenti, della democrazia. La vocazione missionaria che, da un secolo a questa parte, ha spinto gli americani a rovesciare il proprio isolazionismo elettivo nell’interventismo purificatore è il retaggio dell’esaltazione puritana, connessa con l’osmosi in ambito protestante dell’esegesi scritturale giudaico-postbiblica, dell’America come la Città di luce sulla collina, benedetta da Dio per illuminare l’oscurità tenebrosa di questo mondo impuro e peccaminoso.

Una convinzione messianica che accomuna gli americani, eredi dei puritani, ai giacobini ed ai marxisti, che, come loro, erano preda del delirio totalitario per l’esportazione mondiale della Rivoluzione. Gli americani nutrono di religiosità spuria ed immanente il proprio patriottismo (in altre parole bestemmiano Dio allo stesso modo in cui lo bestemmiava il nazionalismo nazista con il suo Gott mit uns) nella cromwelliana convinzione che Dio abbia affidato all’America un mandato per la salvezza dell’intera umanità dalle insidie del Male che, di volta in volta, è stato identificato nell’oscurantismo della vecchia Europa del papismo e del falso protestantesimo (questa l’accusa all’Europa lanciata dai primi coloni puritani emigrati in America), nel fascismo, nel comunismo, nell’islam.

L’isolazionismo originario dei perfetti cristiani che, in quanto tali, dovevano tenersi lontano da qualsiasi relazione con il resto del mondo, di per sé impuro e sgradito a Dio, diventa, rovesciandosi, la giustificazione teologica della missione di purificazione dell’intero pianeta. Questo tipo di religiosità, con tutte le sue chiliastiche e pericolose implicazioni fondamentaliste, accomuna gli americani siano essi di formazione liberal che di formazione conservatrice.

Osserva Sebastian Fath: «Da questa concezione discende una convinzione profonda, sinceramente condivisa tanto dai repubblicani che dai democratici: gli Stati Uniti, nazione prospera e potente non restano passivi quando tanti Paesi al mondo si trovano lontani dai valori che hanno a cuore» (17).

Se poi gli altri popoli vogliano o meno godere di quei valori americani è domanda che gli americani neanche si pongono ritenendola del tutto superflua, perché laddove vi è opposizione a quei valori lì vi è il Male ossia il nemico da debellare anche a costo dell’intervento militare. La civiltà americana, sempre giusta e sempre devota, fedele alla sua missione salvifica, è però la stessa nella quale i contenuti dottrinali si dissolvono in innumerevoli religioni fai-da-te.

E Fath conclude: «Per la maggioranza degli americani la bandiera a stelle e strisce insieme al modo di vivere che essa rappresenta ha preso il posto di Gesù Cristo come figura escatologica di un millennio di felicità. Ed è innanzitutto per quel dio che si battono» (18).

Dal millenarismo ereticale delle sette medioevali e moderne si passa al millenarismo patriottico, nazional-imperiale, della santa nazione americana. Santa non in senso cristiano ma nel senso dell’interpretazione rabbinica del Vecchio Testamento, nel senso, cioè, di un soggetto collettivo che pretende per sé un ruolo ed una funzione messianica che esiste soltanto nei sogni millenaristi dei capi religiosi e politici di quel soggetto autoreferenziale. Il protestantesimo, compreso quello puritano, da Lutero in poi, nonostante lo spiccato antigiudaismo dell’ex monaco Martino, è stato il cavallo di Troia della penetrazione in ambito cristiano dell’esegesi giudaizzante, che legge la Promessa divina nei termini della realizzazione mondana del Regno mediante un soggetto messianico collettivo (la nazione americana per gli eredi statunitensi del puritanesimo del XVII secolo, il popolo, ed oggi anche lo Stato, di Israele per il giudaismo rabbinico post-biblico). Il che spiega molto bene la odierna convergenza, che tende a diventare anche politica, tra il protestantesimo millenarista ed evangelicale americano, che ha costituito la base di massa della presidenza Reagan prima e di quella dei Bush poi, e la destra religiosa fondamentalista israeliana.

Thomas Molnar descrivendo l’ideologia americana ha osservato:

«… abbiamo a che fare con unaescatologia laica’ (…). Eun cristianesimo secolarizzato ad autorizzare larroganza (americana)… Hitler, in fondo, con il suo Terzo Reich che doveva durare mille anni, non ragionava diversamente. Ciò che soprattutto ci interessa è che (in America) il millenarismo gode di buona salute …» (19).

Luigi Copertino

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La catastrofe dell’Occidente (parte II)




1) Confronta E. Innocenti, La gnosi spuria - I …, opera citata, in particolare pagina 208.
2) Citato in Giuseppe Cosco, Le radici del fondamentalismo protestante: lIsraele Britannico, in Avallon - l’uomo e il sacro, numero 54, Rimini, 2005, pagina 85.
3) Confronta Arnold Toynbee, Panorami della storia, II, Milano, pagina 53.
4) Confronta M. Blondet, Complotti - i fili invisibili del mondo - 1. Stati Uniti, Gran Bretagna, Il Minotauro, Milano, 1995, pagine 87-92.
5) Confronta C. Hill, LAnticristo nel Seicento inglese, Milano, 1990, pagina 25.
6) Citato in G. Cosco, Le radici…, opera citata, pagina 85.
7) Citato in G. Cosco, Le radici …, opera citata, pagina 87.
8) Confronta M. Blondet, Complotti …, opera citata, pagina 49.
9) Confronta Romolo Gobbi, Figli dellApocalisse, Milano, 1993, pagine 220-221.
10) Confronta G. Cosco, Le radici …, opera citata, pagina 89.
11) Jefferson espose la sua dottrina nelle Corrispondenze parigine del 13 agosto 1786 e del 16 gennaio 1787. Dobbiamo la loro citazione al testo pro-manuscripto, messoci gentilmente a disposizione, del testo di una lezione universitaria di Claudio Finzi, docente di Storia delle Dottrine Politiche presso l’Università di Perugia. Il Finzi ha ora pubblicato le sue lezioni universitarie in argomento per i tipi della Settimo Sigillo con il titolo di Europa, Occidente, Americhe - saggi di geofilosofia politica, Roma, 2009.
12) Citato da Miguel Martinez in www.kelebek.it.
13) Citato da Miguel Martinez in www.kelebek.it, che trae da Ziegler, pagina 36.
14) Citato da Roberto Giammanco, Limmaginario al potere: religione, media e politica nellAmerica reaganiana, Antonio Pellicani editore, Roma, 1990, pagina 191.
15) Citato da G. Cosco, Le radici…, opera citata, pagina 90.
16) Per tutte le citazioni della Buzzi si veda della stessa autrice Verso la terra promessa - Lesperienza del popolo nel puritanesimo americano, supplemento a Litterae Communionis Tracce, settembre 1994, Milano, pagine 14-17.
17) Confronta S. Fath, Dio benedica lAmerica. La religione della Casa Bianca, Carocci, 2005.
18) Confronta S. Fath, Dio benedica lAmerica …», opera citata.
19) Confronta Thomas Molnar, LAmericanologia, Settimo Sigillo, Roma, 2005, pagine 69-70.

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