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Un maestro unico
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Sarà per tutto questo protestare di insegnanti, ma verso l’alba - insonnia aiutando - m’è venuto alla mente il mio maestro di terza-quinta. L’avevo dimenticato da decenni. Ho detto una preghiera per lui, anche se sono certo che non ne ha bisogno, ma per gratitudine.

Come tutti, avevamo temuto il passaggio alla terza, perchè significava lasciare la maestra ed avere come maestro un uomo; ma non ricordo che il maestro Aldo Prati potesse dirsi severo. Rigoroso direi: dal primo giorno, ci chiarì che non avrebbe tollerato altri pennini che i Mitchell numero 5, piccole lance d’acciaio, tedesche, lisce senza arzigogoli (vietandoci certi pennini a forma di Tour Eiffel di bronzo, i nostri preferiti), e questa precisione nella minuzie fece impressione. Ma rigoroso in un suo modo lieve, sulle nuvole.

Perchè il maestro Prati, benchè ci insegnasse tutte le materie del programma, aritmetica, geografia e storia, non aveva in realtà che un interesse: la letteratura italiana. Più specificamente, la poesia. E in modo più esclusivo, Giovanni Pascoli.

Ma in quello della «Cavallina storna», patetico e dolciastro: il maestro Prati amava, e ci rivelò l’esistenza, di un Pascoli che aveva cantato i gelidi spazi interplanetari, la Luna dai desolati crateri, le profondità siderali. Ci aveva anche scritto un saggio di poche pagine, «Pascoli astrofilo e cosmico», stampato a sue spese, di cui regalava una copia agli scolari che gliene sembravano degni.

Ogni pretesto era buono perchè il maestro Prati si mettesse a parlare di quel Pascoli, e allora poteva deviare dal programma anche per molto tempo. Sapeva una quantità di aneddoti sul suo poeta; e non aneddoti privati e familiari, ma quelli del Pascoli serio filologo, commentatore di Dante.

Ci raccontò che Pascoli aveva illustrato la Divina Commedia come percorso simbolico verso la Sapienza Santa. Ci raccontò che una volta, nell’inviare un suo libro di poesie ad un critico perchè le recensisse, Pascoli gli scrisse la seguente dedica: «Sia la chiosa migliore del verso», ossia - ci traduceva - «ti auguro che il commento superi i miei versi».

Ma sentite, aggiungeva entusiasmandosi, che questa frase così concisa è un endecasillabo. Non sentivamo, dovevamo ancora imparare a «sentire». Il maestro Prati, girando tra i banchi, ci dava altri esempi di endecasillabi - declamava Dante, Carducci - scandendo le parole e contando per noi le sillabe sulle dita; a suo dire, la lingua italiana tende spontaneamente all’endecasillabo, è la sua nobiltà; e gli italiani quando parlano tendono a fare endecasillabi. Per natura.

Si astenne dal fare l’esempio più ovvio: «E’ vietato introdurre biciclette», perfetto endecasillabo. Credo, perchè - benchè il maestro Prati venisse a scuola in bici - non solo non l’avrebbe mai lasciata in un androne violando un divieto, ma perchè tutto ciò che era prosaico gli era semplicemente estraneo, non lo riguardava. Per questo sembrava camminare sulle nuvole, aveva qualcosa di fanciullesco - non so adesso, ma allora spesso gli insegnanti restavano fanciulli, contaminati dall’infanzia degli scolari.

Per lui, l’italiano era quel che per noi erano le biglie colorate, qualcosa di cui faceva raccolta, tesaurizzava, e di cui non si stancava di mostrarci i colori e le forme.

Ci faceva notare gli accenti: «Non si deve dire Flòrida, come gli americani, si deve dire Florìda, perchè significa fiorita, e perchè le parole italiane e della nobile lingua iberica sono per lo più piane». Flòrida era una «parola sdrucciola, sentite? Flò, Flò. Invece Florì, florì, sentite l’accento sulla penultima sillaba?».

Cominciavamo a sentire. Il colore della lingua. Da quel momento, dovemmo imparare a mettere gli accenti acuti quando occorreva, non sempre solo quello grave. Il maestro Prati non transigeva, segnava in blù la sciatteria dell’accento indistinto:  errore grave.

Benchè milanese, il maestro Prati parlava con un accento toscaneggiante: aveva lavorato molto su se stesso per amore della nobile lingua, stava attento a pronunciare le «e» larghe quando i fiorentini le pronunciano larghe, e strette quando a Firenze si dicono strette; e quasi sempre purtroppo, le «e» toscane sono il contrario di quelle milanesi.

«Non si dice sècchio, ma sécchio», e per far notare la differenza, pronunciava la prima volta quasi «sàcchio» (esagerando il modo di Milano), e la seconda «sìcchio».

Chissà perchè, tutto questo non ci annoiava; forse il suo entusiasmo ingenuo, fanciullesco, ci contagiava. Forse, invece, ci stava insegnando a sentire la lingua come si sente una stoffa, a palparla e capire che può essere velluto, può essere canapa, può essere seta.

Un giorno fu deciso che la scuola (prima genericamente «la scuola di via Mac Mahon», presso la Ghisolfa) si sarebbe chiamata Dante Alighieri. Il direttore didattico, che lo stimava molto, incaricò il maestro Prati di elaborare le parole che sarebbero state scolpite sulla lapide di dedica. Fu, credo, l’evento più importante e anche traumatico della sua vita: ci si arrovellò per settimane, ogni giorno ci diceva che aveva scritto la frase giusta, e il giorno dopo che l’aveva corretta. Correva a casa a correggere, mai soddisfatto; rileggeva la Divina Commedia (che sapeva a memoria) per inzupparsi di Dante.

Il giorno che nell’atrio la lapide fu scoperta in una piccola cerimonia, leggemmo la frase che l’aveva tanto macerato. Cinque righe, ricordo vagamente che erano piene di dantismi («Macro il volto nobile e austero...»), ma il direttore didattico e gli altri insegnanti lo felicitarono molto. Al maestro Prati quel giorno tremava un poco il mento, non per le lodi, ma per la tensione: avrò onorato la lingua? Non avrò fatto torto a Dante, al poeta?

Quel giorno, in classe, ci spiegò i dantismi che aveva usato, ad uno ad uno: «Macro» invece di «magro», e declamò: «E se continga che il poema sacro/ al quale han posto mano cielo e terra/ sì che m’ha fatto per più anni macro… Lo vedete, Dante: asciugato dalla fatica di scolpire il suo poema: non più ‘Commedia’, ma ‘poema sacro’; e lui  non è un poeta ma un fabbro, uno scultore che lotta con la materia, che ‘a risponder è sorda’... Beh, è un po’ difficile per voi...».

Veniva a scuola sempre perfettamente sbarbato, con il solito abito grigio chiaro da mezza stagione, liso ma stiratissimo: mai in maglione, ovviamente. Il maestro Prati sapeva che rappresentava lo Stato - lo Stato educatore, che esige rispetto e forme. La sua vita privata era come non esistesse, o non importasse; aveva moglie, non so se avesse figli. Da venticinque anni era solo e totalmente il maestro Prati.

Una volta dovetti andare a casa sua e mi ricevette in quella sala che esisteva allora nelle case borghesi, che non si poteva chiamare «soggiorno» perchè nessuno ci soggiornava mai, occupata da un tavolo lucido da pranzo, in eterna attesa di  improbabili pranzi per dodici persone (non si poteva nemmeno immaginare il maestro Prati a pranzo), e da un divano su cui nessuno sedeva mai. Anche lì a casa sua, il maestro Prati stava in giacca e cravatta.

Certo, non voglio fare un confronto con la scuola d’oggi. Sono passati tanti anni. I maestri non avevano a che fare con ragazzini iperattivi, nè sessualizzati precocemente, nè cinici e derisivi. Atti di prepotenza fisica avvenivano sì, ma all’oratorio, nei giochi rudi di gruppo. Non mi piaceva - il mio tipo di divertimento consisteva nell’immaginare guerre e assalti, la difesa di fortini dall’assalto di indiani, e questo gioco si faceva meglio con un amico o due - e mi piaceva la scuola, l’ordine controllato e sereno che ci dava; il grembiule con il colletto di plastica bianca non era vissuto come un’imposizione, ma come un’appartenenza: eravamo anche noi, come il maestro Prati, dello Stato.

Non lo portavamo solo noi ragazzini, il grembiule. La mia maestra di seconda - la signorina Triulzi - indossava anche lei il grembiule nero, grembiule di Stato, come i bidelli, quando entrava in classe. Non ho mai visto il suo vestito sottostante, per così dire privato. Secondo mia madre, era bruttissima, ma a me non pareva. Non s’era mai sposata. Il suo cognome «Triulzi» era milanesissimo, deformazione dialettale di «Trivulzio», nome di una famiglia aristocratica e anche del paese feudo di quei nobili; eppure anche lei senza accento, e sull’italiano non transigeva.

Un compagno una volta, nel «ripetere con le sue parole» un racconto appena letto, parlò della «pecorella che barbellava dal freddo». Barbellava? Orrore milanese! Non è italiano! si dice «tremava», si dice! L’incolpevole si trovò dietro la lavagna, stranito, non capiva cosa aveva fatto di male, parlava così con la mamma e la nonna... oggi, ci sarebbe stata una denuncia contro la signorina Triulzi all’autorità giudiziaria.

Certe cose che ci disse la maestra Triulzi mi sono rimaste stampate nella memoria. Un ragazzino aveva tirato a una rondine con la fionda. La maestra ci spiegò che assolutamente non si devono ammazzare le rondini, perchè (a parte che non sono buone da mangiare), nel loro sfrecciare divorano una quantità di insetti dannosi per l’agricoltura: in qualche modo, mi pare volesse dirci, anche le rondini lavorano per la patria e meritano onore. Sarebbe una viltà, come tirare una fiondata al maestro Prati. Era anche una lezione di ecologia e di ambientalismo, ma detta in un modo speciale: tutto contribuisce a fare l’Italia, le rondini e i maestri, il grano salvato dalle rondini come Dante e Pascoli.

Oggi le rondini sono diventate rarissime. Una volta, d’estate, riempivano il cielo di Milano di grida; magici uccelli dalle ali aguzze come minuscoli aerei da caccia, il loro ritorno ci rallegrava. Facevano il nido di terra aggrappato alle vecchie chiese, le stavamo a guardare quando portavano un vermetto ai loro piccoli invisibili là dentro.

Pascoli veniva facile alla mente: «Tornava una rondine al nido..». D’autunno, si mettevano in grandi file sui fili elettrici. Erano i maestri a dirci che le rondini stavano partendo per l’Africa, ma che sarebbero tornate col caldo, per dare il loro contributo all’agricoltura italiana.

Ormai non si vedono più. Persino qui a Bagnaia, dove non mancano le vecchie mura e i cornicioni antichi, che sicuramente hanno ospitato migliaia di generazioni rondinesche (i figli delle rondini, ci disse la Triulzi, tornano alle stesse mure dei genitori, che non possono ricordare), non se ne vedono più.

Le ho riviste invece, con sorpresa, a Pomaia in Toscana, sull’edificio della «scuola» dei buddhisti tibetani. L’edificio non è così antico, eppure le rondini avvevano fatto una quantità di nidi proprio lì, stridevano volando in stormi incredibili. Sono rimasto una mezz’ora a guardarle volteggiare e tuffarsi come caccia, con quelle ali aguzze e senza fronzoli come un pennino Mitchell, a divorare insetti. Al punto che una signora mi ha chiesto che cosa stessi guardando.

Le rondini, ho risposto: dunque ci sono ancora. Perchè stanno qua e non altrove? Sui tetti dei buddhisti? Forse, allora, non sono gli anticrittogamici ad averle sterminate; forse è l’aria spirituale di noi italiani, il clima psicologico che emaniamo, a tenerle alla larga. Forse le rondini «sentono» il karma buono e cattivo, come il maestro Prati «sentiva» la lingua come un tessuto variabile, ora canapa, ora velluto o seta.

Come le lucciole di cui Pasolini segnalava la scomparsa: non è naturalismo, è qualcosa di spirituale che s’è perso in noi, ad averle uccise. L’estate di quegli anni era per noi ragazzini questo: il grido delle rondini nel cielo di giorno, e di notte le lucciole. Non era difficile credere al sovrannaturale, quando la gente chiacchierava all’aperto di notte, in campagna o nei giardinetti in città, circondata di quelle piccole luci palpitanti e intermittenti. Ma quali insetti; erano senza pungiglione, luci innocue e misteriose, silenziose testimoni di un aldilà fatato. Piccoli angeli in visita. Noi bambini le catturavamo per metterle in un barattolo di vetro; il mattino dopo le trovavamo morte, e anche da morte non sembravano insetti, non avevano nulla di ripugnante, erano miti corpicini bruni, un poco impolverati. Ci sentivamo in colpa; gli adulti, del resto, ci dicevano: lasciatele vivere, le lucciole, non fate loro del male.

Altri tempi, altro karma.


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