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Russia delenda est. E Obama si chiude in sé
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I commenti sono unanimi, ad Ovest come ad Est: la nomina di John Tefft come Ambasciatore a Mosca è un atto di aperta ostilità da parte del potere americano. «Odiatore della Russia, Tefft è stato Ambasciatore USA in Georgia durante la breve guerra del 2008; è stato lui a spingere Saakashvili a tentare l’invasione del Sud Ossezia», ha ricordato John Robles per Novosti.

Come si ricorderà, l’avventura del capo georgiano, che accettò di fare della Georgia un satellite USA sperando di recuperare con la violenza la piccola enclave russofona, finì male: l’armata russa intervenne e inflisse una dura sconfitta alle truppe georgiane. Queste erano state addestrate e fornite di armi e materiali dagli israeliani; persino il Ministro della Difesa era un israeliano di origini georgiane prestato per la bisogna, Temur Yakobashvili (figlio di Jakob), e nelle prime ore del conflitto, quando il trionfo gli parve imminente, dichiarò al giornale israeliano Haaretz: «Israele dev’esser fiero di come il suo esercito ha addestrato i soldati georgiani».

Tefft è stato un protagonista di questa avventura bellica; poi è stato inviato in Lituania dove ha contribuito alla russofobia ambientale, e poi in Ucraina: dove è stato uno dei preparatori e promotori della bellicizzazione dei gruppi di opposizione anti-russi che hanno preso il potere a Kiev. Il fatto che venga spedito a Mosca lancia un messaggio che Robles traduce così: «Gli USA hanno deciso di distruggere la Russia come competitore globale. Il fatto non è più segreto, l’Ucraina ha reso chiaro che ogni idea di “reset” o pacifica cooperazione è solo fantasia».

«Ancora poco fa gli USA esitavano a inviare proprio questo personaggio, Tefft, a prendere in mano il conflitto con la Russia, perché ciò avrebbe potuto essere interpretato come un atto di malevolenza», scrive il blog Russiepolitic a firma di Karine Bechet-Golovko; «Ma con il bisogno di radicalizzare la politica americana di fronte a Mosca, le apparenze cortesi sono divenute l’ultima preoccupazione. Da una parte, Washington dice: lanciamo un attacco frontale contro la Russia. E Mosca risponde: lo sappiamo e siamo pronti. I giochi sono fatti».

Bloomberg dà la stessa valutazione: «Tefft the Terminator viene a Mosca, e il Cremlino accetta un simile Smbasciatore, dice che gli va bene... significa che gli USA hanno rinunciato ad avere rapporti positivi con la Russia; e a Putin va bene, perché l’anti-americanismo lo rende forte in patria. I due Paesi non fanno più finta di essere amici. Nessuna illusione si nutre su ciò che la relazione può dare».

Dopo la «riconquista» di Slaviansk da parte del regime di Kiev, i gestori americani della crisi accelerano per la spallata finale, cercano l’umiliazione di Mosca. Il Cremlino prova a rimettere in piedi una tregua in Ucraina; Francia e Germania si danno da fare per un cessate il fuoco; Washington rifiuta ogni accomodamento e soffia sul fuoco. La nota Victoria Nuland, assistente segretaria di Stato (quella del «Fuck Europe»), ha raccontato davanti alla Commissione senatoriale delle relazioni estere delle menzogne plateali, in perfetta malafede: gli insorti russofoni hanno usato il precedente cessate il fuoco di 10 giorni «per scatenare violenza, spargimento di sangue e prendere terreno; la Russia ne ha approfittato per far affluire carri armati, artiglieria pesante e combattenti» in Ucraina, e per rafforzare il suo dispositivo bellico al confine... Siamo pronti ad imporre dei costi alla Russia, fra cui sanzioni mirate, specifiche per settore, se la Russia non cambia al più presto corso e non interrompe i legami coi separatisti».

Dopo Putin, Hitlerov?

Queste menzogne spudorate tendevano a creare clima di allarmismo nell’opinione pubblica, e un parossismo di ostilità nel Senato, e ci sono riuscite. Ma hanno avuto un effetto collaterale indesiderato per la Nuland; i senatori l’hanno accusata di debolezza (proprio lei) insieme con l’Amministrazione Obama. Se infatti Mosca sta mandando carri armati ed artiglieria pesante contro il Governo di Kiev (come mente la Nuland), allora «gli Stati Uniti sono una tigre di carta», è saltato su il senatore Bob Corner, repubblicano: «L’amministrazione smetta di dire pubblicamente che gli USA adotteranno azioni dure, quando non fanno niente». Il senatore Robert Menendez, democratico, ha addirittura portato ad esempio lo zelo della UE che esige dalla Russia la fine del sostegno ai separatisti, che restituisca i posti di blocco alle forze ucraine, riconsegni gli ostaggi e cominci negoziati di pace col presidente Poroshenko, mettendolo a confronto con la presunta passività americana: «E noi cosa stiamo aspettando?».

Si vede come gli esponenti del sistema americano si stanno montando tutti da soli, creando fra sé il clima psicologico che rende inevitabile un intervento bellico. Le numerose iniziative di distensione prese da Putin, le sue ragionevoli proposte per raffreddare la crisi non vengono nemmeno avvertite; dalla Russia si vuole solo la capitolazione completa, la resa incondizionata.

«La sola cosa che l’Occidente sia spetta dalla Russia, è che la Russia cessi di esistere», disse ai sui tempi il capo dei servizi sovietici esteri Chebarscin. Anzi peggio, perché fino a quando la Russia fu sovietica, Washington mandò Ambasciatori simpatizzanti. Oggi, l’amministrazione USA eccita con la sua smania e furore il delirio del regime di Kiev, ne incoraggia le azioni militari sterminatrici nel Donbass, nell’evidente volontà di sfidare la Russia ad intervenire. Che il regime di Kiev, sentendosi coperto dalla superpotenza, disperato della situazione interna economicamente disastrosa, possa scegliere deliberatamente la fatale fuga in avanti, è più che possibile: il Ministro della Difesa dei neo-governo ucraino ha promesso che si riprenderà la Crimea. E se lo fa davvero? La risposta l’ha data il Ministro degli Esteri russo Lavrov, freddamente, durante una conferenza stampa con la nostra Mogherini: «Non consiglio nessuno» di tentare una tale azione, ha detto Lavrov: «Noi abbiamo una dottrina di sicurezza nazionale, e questa illustra chiaramente quali azioni sarebbero decise in questo caso». Ossia: davanti all’aggressione di quel che Mosca ritiene suo territorio nazionale, Mosca non ignora che sarà posta nella condizione della decisione suprema, la risposta atomica. E fa sapere che non arretrerà di fronte alla decisione.

Se c’è un metodo nella follia americanista, lo si può identificare nel calcolo che la Russia è un Paese debole e vulnerabile nel quadro dell’economia globale; con le sanzioni che colpiscono gli oligarchi russi, e la crisi economica da esse provocata come l’isolamento della Russia rispetto alla finanza mondiale, il sistema di potere moscovita valuti che i costi del patriottismo non valgano i conti esteri bloccati, e sostituisca Putin con uno più filo-occidentale, disposto a compromessi «di civiltà» con l’Occidente. Ma può succedere anche il contrario, come ha avvertito con allarme Jacques Attali.

Questo banchiere internazionale ebreo-francese, già eminenza grigia di Mitterrand, futurologo ideatore di utopie mondialiste, ha parlato con la voce del buon senso durante un’intervista l’8 giugno scorso. All’intervistatore che gli faceva il solito paragone americanista – la Russia ridivenuta «sovietica», tirannica, minacciosa eccetera – Attali ha risposto: «Il paragone storico che farei è piuttosto con la repubblica di Weimar. Per me... (la Russia) è un Paese che viene umiliato, accerchiato, in più pieno di corruzione, disordine, totalitarismo latente e reale eccetera, come del resto tanti altri Paesi... Si continuiamo così, se continuiamo ad isolare la Russia, diverrà un nemico: passa da Weimar ad Hitler. Non penso che questo sarà Putin; è dopo di lui che verrà il pericolo. Noi europei non dobbiamo rifare con la Russia di Putin gli errori che facemmo con Weimar nel 1920...».

E Obama ha «staccato»

In mezzo a questo delirio, che cosa fa il presidente Obama? Spicca per la sua ostentata inazione, lascia cadere le questioni, non svolge più il servizio minimo presidenziale. Benché manchino più di due anni alla fine della sua presidenza, già adesso sta trattando con case editrici per la pubblicazione delle sue memorie (sembra convinto che i resoconti dei suoi fallimenti storici (1) risulteranno eccitanti), e per il resto passa il tempo ad organizzare cene con sportivi e personalità dello spettacolo, sul campo da golf e prolungando viaggi-vacanza. Recentemente ha rifiutato un incontro riservato con Henry Kissinger (che sarà quel che sarà, ma ha detto che la politica americana verso la Russia «è mancanza di politica», e vede Putin due volte all’anno). L’isolamento in cui Obama s’è chiuso è in parte un’ammissione d’incapacità intellettuale, in parte una protesta altezzosa al Congresso, a maggioranza repubblicana, che gli blocca tutte le iniziative e lo contrasta in tutto; nello stesso tempo egli «forza» oltre i limiti la sua autorità esecutiva, in uno strano miscuglio debolezza e dispotismo.

Ai repubblicani, che al Congresso lo accusano di autoritarismo illegale, ha risposto: «Beh, allora querelatemi» (So sue me, che è anche il titolo di una canzone pop), eccitando la sete di sangue presidenziale della destra. Lo speaker della Camera, John Boehner, ha promesso di trascinarlo effettivamente in tribunale (sic) «per il frivolo, impertinente accantonamento della Costituzione che ha giurato di difendere. È completamente al disotto della dignità dell’ufficio. Il presidente è frustrato, lo so. Anch’io. Anche il popolo americano è frustrato». L’accusa è di umiliare il potere legislativo, una possibile accusa da impeachment.

Il lato comico è che sono i media neocon, da Fox News al blog Free Beacon, ad accusare Obama di «dar l’impressione di aver rinunciato al suo lavoro» davanti ai tutti i problemi: l’ISIS che avanza in Iraq, i giornalisti di Al Jaazera arrestati in Egitto, il regime siriano che non si lascia scalzare dai ribelli (ossia dall’ISIS, nell’altro contesto definito terrorista islamista – un esempio di bispensiero orwelliano), e soprattutto, la immigrazione clandestina di massa dal Sudamerica: decine di migliaia di ragazzini latinos non accompagnati premono sulle frontiere del Texas, una specie di crociata dei bambini che rende difficile ai vigilantes «applicare la legge» (sparare sugli illegal aliens).

«È una minaccia esistenziale» per gli USA, ha proclamato un Generale. E Obama che fa?

«Esce dalla Casa Bianca per prendersi un caffè da Starbuck’s con il suo staff, o fare una puntata da Chipotle», per uno spuntino tex-mex. «Si è arreso», «accetta una quantità di cene dove non parla mai di politica». «Si è annoiato nel suo guscio», «sta pianificando la propria post presidenza». Charles Krauthammer, un forsennato columnist suprematista ebraico, (una specie di Fiamma Nirenstein del Washington Post), ha emesso la sentenza: «Quel che sa fare al meglio Obama è campagna elettorale, e per questo ha dato speranza alla gente. Ma governare non sa».

«E ciò è grave per il popolo americano», ha concluso A.B. Stoddard di Fox News, «non solo per tutti i problemi che abbiamo, ma perché ce lo dobbiamo tenere per altri due anni e più», Obama, in questo stato di auto-spegnimento.

Il rabbioso sgomento delle destre neocon è ben spiegabile. Con la sua presa di distanza, sia volontaria sia un dato del carattere dell’ambiguo presidente nero, Obama sta facendo mancare la copertura istituzionale alla follia aggressiva, al parossismo bellicista del Sistema. La sua «assenza» può essere la versione estrema, ormai resa patologica dagli insuccessi ripetuti, della signorile «aloofness» obamiana, o la reazione ancestrale (oso dirlo?) dello schiavo negro che si piega alla forza del padrone cantando d’altro.

Sia che lo faccia apposta oppure no, in ogni caso, smaschera la finzione della «grande democrazia» che il potere esecutivo riposi davvero nel presidente. Mostra che la forza eversiva della superpotenza è scatenata da automatismi dementi che non hanno autorizzazione civile né legale, scopre chi veramente comanda nella «democrazia americana» e preferiva continuare a farlo all’ombra della Presidenza, rimandando alla sua responsabilità. Nel caso peggiore, illustra che le politiche più avventuriste dello Stato più armato e militarizzato della storia umana sono guidate da un pilota automatico: e da un pilota automatico impazzito, trascinato dalla sua stessa potenza di distruzione e da viscerali odi accesi dalle menzogne a cui lui stesso crede.

Non c’è nessun essere umano nella cabina del superjet lanciato all’Armageddon globale.





1) Un breve elenco: Obama ha sostenuto (o accettato di controfirmare) il sostegno armato voluto dai neocon all’opposizione contro il regime di Assad in Siria, definita «democratica», e adesso si trova con la stessa opposizione che, sotto l’altra veste di «terroristi islamici», prendono il potere su un terzo dell’Iraq: cosa difficile da spiegare all’opinione pubblica, per fortuna distratta dalla crisi economica (chiamata però ufficialmente «ripresa» – il bis-pensiero orwelliano galoppa nella neolingua del Sistema). Arabia Saudita: il principe Bandar bin Sultan, mandato via ad aprile su richiesta americana dal capo dei servizi segreti, è tornato come «consigliere speciale e inviato» del Re, e c’è ovviamente la sua mano nella miracolosa nascita del «Califfato». Iran: tentativi goffi di Obama di «aprire» a Teheran sono finiti in nulla, la nota lobby l’ha avuta ancora una volta vinta. Egitto: il suo sostegno aperto ai Fratelli Musulmani (confusi con la «primavera araba») ha portato al rinnovato regime militare al Cairo, e il nuovo Mubarak, generale Al-Sisi, se ne infischia apertamente dei consigli americani di instaurare la «democrazia», compra armi da Mosca, riceve miliardi dai sauditi. Ucraina: Obama s’è ridotto a fare l’imitatore della Nuland, una delle sue sottosegretarie di Stato, minacciando Putin come gli è stato ordinato dai neocon. La Turchia, l’ha messa nei guai spingendola a sostenere i «ribelli» contro Assad. Berlino: espulsione del capostazione della CIA per spionaggio «idiota», secondo il Ministro degli Esteri Schauble. Sulle «iniziative di pace» in Medio Oriente del suo patetico ministro degli Esteri John Kerry, sputacchiato dagli israeliani, dai sauditi, preso in giro dai russi e da Hezbollah, sarà interessante leggere le «memorie» di Obama, se non deciderà di stendere il consigliabile velo pietoso. All’ultima sua profferta di «mediare» con Hamas per far cessare i bombardamenti su Gaza, Netanyahu non ha nemmeno risposto. Sui problemi interni, l’economia è gestita senza alcuna finzione dalla Federal Reserve al servizio di Wall Street, il vago e goffo tentativo di dare una copertura di sanità nazionale agli americani è fallito per la forza delle assicurazioni private, l’1% cento è sempre più ricco a spese del 99%, l’immigrazione dal Messico è diventata inarrestabile e di massa, «minaccia esistenziale (sic) per gli USA».



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