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A proposito di Plotino, Dio e Darwin
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La pubblicazione del notevole saggio di Emanuel Samek Lodovici «La gnosi e la genesi delle forme» (1) va a tutto merito della redazione di un sito come EFFEDIEFFE, forse unico oggi nel panorama dell’editoria cattolica.
Chi scrive conosceva già, per aver letto l’opera fondamentale di Samek Lodovici «Metamorfosi della gnosi».
Un libro, quello dal quale il saggio riproposto è stato tratto, che dovrebbero davvero leggere tutti.
Tuttavia proprio l’ottimo argomentare del compianto filosofo spinge ad alcune considerazioni integrative non tanto a quanto spiegato con sapienza ammirabile da Samek Lodovici, a proposito della «genesi delle forme», ma alla questione della filosofia plotiniana in luce cristiana.

E’ noto che Sant’Agostino utilizzò sia Plotino che Platone, come del resto fecero prima e dopo di lui altri Padri e Dottori della Chiesa.
Non bisogna, però, mai dimenticare che la ricezione cristiana del «platonismo» non è avvenuta in modo pedissequo ed automatico ma meditato e «purificato» alla luce della Fede.
Plotino, come si nota anche dal citato saggio di Samek Lodovici, non conosceva l’apporto fondamentale della Fede biblica nella «creatio ex nihilo» e, quindi, come tutti i pagani, non poteva che indulgere in una accezione del creato tendente alla sua eternità, benché poi platonicamente se ne sottolineava che la realtà ultima fosse spirituale (l’Uno, l’Anima Mundi, l’Idea), con conseguente tendenziale svalutazione della materialità del creato.
Non era conosciuta l’idea biblica della materia, del creato, di ogni cosa fatta da Dio, come opera d’Amore e di Bontà: ad iniziare dalla «carne», dal corpo, dell’uomo destinato alla Resurrezione finale.
In altri termini, il pensiero pagano, per quanto alto ed in tal senso propedeutico all’incontro con la Fede, restava imprigionato nel «cerchio» dell’Unità Cosmica senza poter attingere veramente alla Trascendenza del Dio personale, che non è, appunto, possibile attingere senza che Lui si riveli. Ecco perché è esistito un «Plato christianus» ma anche un «Plato antichristianus».

Quest’ultimo, oggi, sembra riapparire in certe formulazioni del cosiddetto «olismo», come ad esempio in quelle di certi fisici quantistici o di certi biologi come Lima De Faria, pur benemeriti nella loro opera di demolizione del meccanicismo e del darwinismo.
Certamente non tutto il cosiddetto «pensiero olistico» è chiuso alla trascendenza, ma è innegabile che se non lo si imposta bene esso conduce, con troppa superficialità, a concludere che l’Universo, pur sé incosciente, sia in grado di «auto-organizzarsi».
Un esempio di tale affrettata, ed irrazionale, conclusione è dato dalla versione cosiddetta «forte» del «principio antropico» che (a differenza di quella cosiddetta «debole» che si limita solo ad asserire la non casualità delle condizioni cosmiche necessarie per la comparsa della vita cosciente senza inferire però da ciò la necessarietà ontologica della sua comparsa), pretende che l’Universo, benché incosciente, sia «(auto)programmato», (auto)finalizzato, alla comparsa della vita cosciente ed intelligente, ossia dell’uomo, inteso come «osservatore» del cosmo.
Senza che diventi logicamente e razionalmente necessario far riferimento anzi negando a priori la stessa ipotesi di un Dio personale, e dunque di un’Intelligenza trascendente, che crei (anche se, come ricorda Samek Lodovici, e prima di lui Plotino, le modalità dell’atto creativo non sono dalla scienza decifrabili nella loro essenza) e finalizzi l’Universo al suo esito antropico.

Concetti come «auto-morfogenesi» o «auto-normogenesi» indicano proprio questa incapacità della scienza post-moderna, che pur si sta riscoprendo - e di questo bisogna essere contenti - «neoplatonica», a gettare uno sguardo verso la Realtà ultima che è sempre trascendente.
Uno sguardo, in altri termini, oltre la mera immanenza, «spirituale» quanto si vuole ma pur sempre chiusa su se stessa.
Certo: si dirà che questo non è compito della scienza, che deve rimanere nell’ambito dell’immanenza.
Eppure, dal momento che essa, la scienza post-moderna, si è ripetutamente imbattuta in un «quid», un «mistero», che è alla radice del cosmo, e che non riesce a spiegare (e mai vi riuscirà, come giustamente rileva Samek Lodovici sulla scorta di Plotino), è necessario che, senza pretese «totalizzanti», lasci la parola all’epistemologia, alla filosofia, alla teologia, alla mistica.
Ed è qui che, cattolicamente, bisogna fare le debite osservazioni per distinguere il grano dalla crusca.

Quando si «naviga» nell’ambito della mistica è necessario stare attenti a chiarire bene cosa si intende per «mistica apofatica», perché se è vero che un tale tipo di mistica è certamente presente in ambito abramitico, ed anche cristiano (si pensi a Giovanni della Croce), è pur vero che sempre in tale ambito, ed in particolare in quello cristiano, essa si atteggia in modo completamente diverso rispetto ad altri contesti, sia extra-abramitici, come quelli asiatici, sia di tipo gnostico, e per ciò stesso spuri, penetrati all’interno della Rivelazione abramitica medesima.
In altre parole, in un contesto abramitico una mistica «nichilista» o «olista», ossia che pretende di sperimentare la Divinità come «Nulla» o «Vuoto» o «Uno» o «Tutto», indulgendo sull’impersonalità divina e, quindi, aprendo a possibili esiti panteistici oppure «non ontici» (il «Ni-Ente» di cui ciancia Massimo Cacciari), non può essere ritenuta autentica esperienza del Dio di Abramo, anche quando, è appunto il caso di certe correnti cabaliste in ambito ebraico o di certe correnti sufiche in ambito islamico o di certi mistici, non a caso in parte non accreditati dalla Chiesa, come Meister Eckhart, in ambito cristiano, essa affiora all’interno del contesto abramitico.

Il punto sta nel fatto che il Dio che si è rivelato ad Abramo, e definitivamente in Gesù Cristo, è sempre e comunque un Dio personale, sicché la mistica apofatica, come la cosiddetta «teologia negativa», è compatibile con tale Rivelazione soltanto nella misura in cui essa mistica, nell’opporsi ad ogni infantile «antropomorfismo», riaffermando piuttosto il «teomorfismo» (è l’uomo ad essere immagine, finita, di Dio Infinito e non Dio immagine dell’uomo), si limita però a negare il solo limite delle Perfezioni Divine, proiettandole all’infinito, e non anche l’essenza personale di Dio.
In tal senso Dio è Infinito Amore, Infinita Sapienza, Infinita Intelligenza, Infinita Trascendenza ma Egli resta essenzialmente personale benché, per la sua infinità, assolutamente non riducibile ad alcun antropomorfismo: nel Cristianesimo, poi, nell’Infinita ed Unica Natura Divina si rivela
co-essenziale la relazione trinitaria d’Amore tra le Tre Persone Divine, rendendo, così, possibile anche comprendere il «miracolo» della creazione come Atto di Amore perché solo un Dio che sia già in Sé stesso relazione d’amore può riversarsi «ad extra» nell’atto creativo (un Dio chiuso, come una monade, in Sé stesso non solo non potrebbe comunicarsi ma non potrebbe, appunto, neanche creare).
La vera esperienza mistica è «abramiticamente» solo quella nella quale si sperimenta il Dio Personale, benché Infinito nella Sua Essenza.
Pertanto, solo in tal senso, nel senso dell’Infinità dell’Essere di Dio, ossia della Sua non limitatezza, può correttamente parlarsi di mistica apofatica o di teologia negativa.

Dio è certamente Infinito, e quindi in termini discorsivi può meglio essere colto per via negativa (Egli non è nulla di quanto pur bello, buono, sapiente vi è, come Suo riflesso finito, nel creato).
Ma Dio, per quanto infinito e non rinchiudibile nella ragione umana, è pur sempre l’Essere e non il «Non-Essere».
E’ la creatura, piuttosto, a «non-essere» rispetto a Lui o, meglio, la creatura «ha» l’essere, ovvero essa «è» per partecipazione al Suo Essere auto-sussistente.
Nella relazione tra Dio e la creazione vi è contemporaneamente sia «equivocità» che «analogicità».
Questo fonda la possibilità stessa della relazione tra Dio e l’uomo e, cristianamente, la possibilità stessa dell’Incarnazione, Mistero supremo e ultimo al quale ebraismo ed islam devono ancora accedere.

Il panorama della storia delle religioni ci pone, infatti, di fronte ad una scelta di fondo tra due vie che l’attuale Pontefice, in una sua opera scritta quando era cardinale (2), definisce come «mistica dell’indistinzione», la prima, e «comprensione di Dio come persona», la seconda.
La prima è esattamente quel che noi abbiamo indicato con il termine di «olismo», o Ennio Innocenti indica con il termine di «gnosi spuria» (3); la seconda è, invece, ciò che abbiamo indicato come «Rivelazione abramitica».
«In ultima analisi - scrive Ratzinger - si tratta di vedere se il divino sia ‘Dio’, qualcuno che ci sta di fronte - così che il termine ultimo della religione, della natura umana, sia relazione, amore, che diventa unità (‘Dio tutto in tutti’, 1Cor 15,28) ma che non elimina lo stare di fronte dell’‘io’ e del ‘tu’ - o se il divino stia al di là della persona e il fine dell’uomo sia l’unirsi a - e il dissolversi nell’Uno-tutto» (4).
Laddove la mistica dell’indistinzione chiede all’uomo di dissolversi nell’Uni-totalità, perché egli altro non sarebbe che transeunte manifestazione dell’«Anima Mundi» o del «Pleroma» o del «Brahman», la Rivelazione abramitica gli chiede di aver fiducia, da qui «fede», in un «tu» infinito, in Dio persona.
Non dunque, la fusione per giungere all’unità indifferenziata, ma l’incontro è l’elemento fondamentale dell’umana esperienza dell’Essere.
Le due vie, la mistica dell’indistinzione e la «Rivelazione abramitica», che è essa, come ben sanno
i mistici cristiani, la vera mistica, dunque sono antitetiche.

Quando si parla di mistica, infatti, spesso si fa confusione tra l’unificarsi dell’anima che rende l’uomo idoneo all’opera dello Spirito, sicché tra Dio e uomo si pone una relazione «estatica» dalle imprecisate modalità che come dice San Paolo fa vivere Lui in me pur restando umanamente incolmabile l’abisso tra Lui e me, e l’idea, per l’appunto gnostica, di una identificazione non analogica, ossia che eliminerebbe la distinzione ontologica, tra Creatore e creatura.
Ora, il risolversi della molteplicità in una unità che tutto assorbe è, cristianamente, uno smarrimento del pensiero, una forma di esperienza che non va fino in fondo.
Bisogna opporsi ad una mistica dell’indistinzione per la quale, appunto, il «Volto dell’Altro», la cui libertà non può mai divenire un «possesso» dell’uomo, neanche del mistico, ed infatti per i mistici cristiani tale non è mai, si dissolva in una «totalità» senza nome, indifferenziata.
Soltanto se si ammette con fiducia che l’uomo rimane sempre, anche nell’estasi o nella visione beatifica, «altro» da Dio, benché a Lui misticamente unito, si può sperimentare Dio nella sua vera infinità d’amore.

«All’unità fusionale - scrive ancora Ratzinger -, con la sua tendenza al dissolvimento, dev’essere contrapposta l’esperienza personale: l’unità dell’amore è superiore all’ineffabile in-distinzione».
E, citando Horst Burkle, aggiunge: «…Nelle Upanishad, l’esperienza della in-distinzione, del ‘tat tvan asi’ (‘questo tu sei’) non è in grado di fondare il valore e la dignità permanenti d’ogni singolo uomo. Valore e dignità che non si possono conciliare con l’idea che la vita terrena sia solo una fase transeunte nel ritmo dei successivi gradi di rinascita. Il valore proprio della persona e la sua dignità non si possono mantenere saldi in quanto stadio transitorio e sotto la condizione della loro variabilità (…). Non sarebbe difficile mostrare che la concezione del singolo come persona e la tutela del valore e della dignità d’ogni persona non si possono sostenere senza che siano fondati nell’idea di Dio. (…). Il problema del male come un rivolgersi contro l’assoluta bontà di Dio rende più chiara la differenza tra gli schemi ontologici. In una filosofia dell’uni-totalità necessariamente la differenza tra bene e male viene relativizzata. (…) Il male non è affatto - come reputava Hegel, e Goethe vuole mostrarci nel ‘Faust’ - una parte del tutto di cui abbiamo bisogno, bensì la distruzione dell’Essere. Non lo si può rappresentare, come fa il Mefistofele del ‘Faust’, con le parole: ‘io sono una parte di quella forza che perennemente vuole il male e perennemente crea il bene’. Il bene avrebbe bisogno del male e il male non sarebbe affatto realmente male, bensì proprio una parte necessaria della dialettica del mondo. Con questa filosofia sono state giustificate le stragi del comunismo, che era edificato sulla dialettica di Hegel volta in prassi politica da Marx. No, il male non appartiene alla ‘dialettica’ dell’Essere, ma lo attacca alla radice. Il Dio, che in quanto uno e trino rappresenta appunto la somma unità nella diversità, è pura luce e pura bontà (confronta  Gc 1,17). Invece nella mistica dell’in-distinzione non esiste alcuna separazione ultima tra bene e male. Bene e male, secondo il buddhismo, sono in originaria dipendenza reciproca. Non si dà una priorità dell’uno sull’altro. L’« ‘illuminazione’ (in senso buddhista) è una realizzazione del mio essere ancora prima della dualità di bene e male’ », dice al riguardo Sudbrack. L’alternativa tra Dio personale e mistica dell’in-distinzione è davvero di natura non solo teoretica; essa, dalla profondità più recondita del problema dell’Essere, giunge a interessare la sfera pratica» (5).

In un suo articolo di qualche anno fa, il direttore Maurizio Blondet faceva notare la differenza di comportamento, in occasione del maremoto che colpì l’Asia sud-orientale nel 2004, tra i cristiani, tutti alle prese con il lenire la sofferenza delle vittime nelle quali vi era Cristo crocifisso, ed
i buddisti che, proprio in ottemperanza alla loro concezione della «compassione universale», restavano sostanzialmente, «nirvanicamente», indifferenti di fronte alle sofferenza dell’umanità.

Ecco: in questo si rivela praticamente la differenza tra la mistica dell’in-distinizione e la Rivelazione abramitica definitivamente compiutasi in Cristo Signore, che - ripetiamo - è la vera mistica capace anche di caricarsi addosso tutte le piaghe dell’umanità sofferente.
Come fece, giusto per citare un nome, Madre Teresa di Calcutta, proprio nell’India patria della mistica dell’indistinzione e dell’in-differenza.
Ed è forse anche per questo che, oggi, i fondamentalisti indù uccidono i cristiani, incendiano la chiese, massacrano i sacerdoti.
Ma, come la beata di Calcutta, noi cristiani continueremo ad amarli.

E’ la nostra consegna, è la Fede in Nostro Signore Gesù Cristo, è il Suo Amore, che è Via Unica di Verità, a chiedercelo.

Luigi Copertino



1) Confronta E. Samek Lodovici «La gnosi e la genesi delle forme » in Effedieffe 14 agosto 2008.
2) Confronta Joseph Ratzinger «Fede Verità Tolleranza - il Cristianesimo e le religioni del mondo», Cantagalli, Siena, 2005.
3) Confronta E. Innocenti «La gnosi spuria», volumi tre, Sacra Fraternitas Aurigarum in Urbe, Roma.
4) Confronta J. Ratzinger, opera citata, pagina 45.
5) Confronta J. Ratzinger, opera citata pagine 47-49. Due sole osservazioni. La prima: la frase del Mefistofele di Goethe fu rimproverata da alcuni a Giovanni Paolo II che la usò nella sua ultima opera proprio con riferimento al comunismo come male «apparentemente necessario» per la vittoria del bene. Qui si dice soltanto, per anticipare tutti i detrattori, che quando un Papa scrive un libro come teologo privato non fa uso della sua infallibilità. Seconda osservazione: non è un caso se
i neocon siano tutti intellettualmente di origini marxiane e/o marxiste. Infatti la loro politica decisionista, volontarista, bellicista, che impone il primato della prassi sull’Essere, sta lì a dimostrare quanto sia vero che la giustificazione marxista del male come momento dialettico del bene sia molto attuale proprio nell’Occidente liberale, americanocentrico e post-marxista.

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