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Giudici: il potere senza autorità
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Aveva già dato una risposta a questa lettera ma mi accordo che merita una riflessione più approfondita:

«La decisione di Lula a rifiutare lestradizione di Battisti non è del tutto incoerente, in quanto la sua preoccupazione non sta nel fatto che Battisti sia un criminale o meno, ma nel fatto che la giustizia italiana non sia totalmente affidabile sia per come lordinamento italiano sia compatibile con lidea che hanno di ordinamento democratico, se i processi avvengano in tempi ragionevoli, garantendo gli imputati fino a prova contraria della loro totale colpevolezza, certificata da prove inoppugnabili, e totale trasparenza nelle sentenze, ecc., ecc. Il dato di fatto è che non è solo il Brasile a rifiutare una richiesta di estradizione, ma per cognizione di causa anche la Gran Bretagna, la Francia, il Canada, la Svezia e molti altri, hanno rifiutato varie richieste di estradizione, nonostante siano Paesi ben lontani dal sistema dittatoriale, ma di consolidata democrazia; ai loro giudici, a quanto so, vengono i capelli bianchi ogni qualvolta hanno a che fare con la giustizia italiana. Forse in un certo senso ha ragione il Salame...».

Eh sì, caro lettore, il problema è proprio quello che il no di Lula ha messo in luce impietosa: anche all’estero la magistratura italiana è giudicata priva di credibilità, a dirla tutta, si dubita sia capace di fare giustizia. Se il sistema giudiziario fosse ancora un ordine e non quello che è diventato, una casta corporativa-sindacale; se vi esistesse ancora una qualche capacità intellettuale di riflessione su ciò che è il diritto, da questa lezione dovrebbe trarre amare conclusioni. Tema della riflessione: noi magistrati, che cosa abbiamo vinto, che cosa abbiamo conquistato dai tempi di Mani Pulite, e che cosa abbiamo perso per contro?

Perchè è dai tempi di Mani Pulite che risale la degenerazione del sistema giudiziario italiano. Carcerazioni preventive per estorcere confessioni, abolizione pratica del principio di innocenza fino a prova contraria, violazioni impunite del segreto istruttorio, con intercettazioni ed atti d’indagine spifferati a giornalisti amici, nascono di lì. Ma non è questo il peggio, è solo conseguenza di un fatto di cui mai si è preso atto nel nostro Paese: il fatto che con Mani Pulite, la casta giudiziaria tentò un colpo di Stato. La presa del potere politico.

Francesco  Saverio Borrelli
   Francesco Saverio Borrelli
Non sto esagerando. Mi riferisco ad un appello che il procuratore capo di Milano, Francesco Saverio Borrelli, che guidava il pool in cui brillava Antonio Di Pietro, fece al presidente della repubblica, il ben noto Scalfaro. La data: primo maggio 1994. Le inchieste del pool avevano eliminato i partiti di governo, DC e PSI, dall’agone politico. Inaspettatamente, Berlusconi era sceso in campo ed aveva ottenuto una maggioranza trionfale dagli elettori; i procuratori di mezza Italia avevano risposto con una grandine di avvisi di garanzia contro il disturbatore. In particolare, il pool Mani Pulite spedisce un avviso a comparire a Berlusconi proprio mentre il neo-premier presiede la conferenza mondiale ONU a Napoli sulla criminalità organizzata; ma non lo spedisce all’imputato, bensì... al Corriere della Sera, con una delle solite violazioni del segreto istruttorio. Lo scandalo è enorme, ed anche l’intenzione dei procuratori: un invito a scomparire a Berlusconi. E’ in quel momento che Borrelli lancia un invito a Scalfaro, sempre tramite intervista al Corriere. Ecco le sue testuali parole:

«(Può) accadere un cataclisma per cui resta in piedi solo il presidente della repubblica che, come supremo tutore, chiama a raccolta gli uomini della legge (...). In questo caso noi potremmo rispondere. Non basterebbe certo una folla oceanica raccolta sotto i nostri balconi. Ma a un appello del capo dello Stato, si potrebbe rispondere con un servizio di complemento».

Capito? Il pool voleva che Scalfaro (lui stesso sotto schiaffo per una faccenda di fondi neri) chiamasse i procuratori a formare il governo. Un governo dei giudici. Il modello che aveva in mente Borrelli era chiaramente quello della presa di potere fascista nel ‘22, quando sotto la minaccia della marcia su Roma, il re chiamò « sua eccellenza Benito Mussolini a formare il governo»; in questo senso va intesa l’evocazione borrelliana delle «folle oceaniche sotto i balconi». Ma con un’aggravante: che la minaccia e la pretesa di governare veniva non da un partito (come era quello mussoliniano), ma dalla casta dei magistrati, che non sono soggetti alla volontà popolare in nessun caso, in via di principio costituzionale. Dei tre ordini dello Stato, il giudiziario si arrogava la pretesa di conquistare l’esecutivo (il governo) e di assoggettare il legislativo (il parlamento, terrorizzato dagli arresti del pool). Se questo non è un golpe, che cos’é?

Scalfaro, tuttavia, si divincolò, ben vedendo il pericolo che correva lui stesso e la carica presidenziale. Non chiamò Borrelli, Di Pietro, D’ambrosio a fare il nuovo governo dei giudici. Il golpe della magistratura non riuscì – non pienamente almeno. Ma da allora, la magistratura come corpo unico, ha difeso le prerogative, l’ampliamento dei poteri arbitrari, che aveva conquistato con la sua guerra contro gli altri ordini. Il diritto di incarcerare gente della cui colpevolezza non ha prove perchè è incapace di raccoglierle (Amanda Knox, a Perugia, è stata messa in galera preventiva per 347 giorni, con grande scandalo della stampa americana), il diritto di intercettare, e di spifferare i risultati ai giornali amici, senza essere chiamata a rispondere; il diritto di fare inchieste di parte, secondo il principio che «le leggi per i nemici si applicano, per gli amici si interpretano». Il diritto di non essere chiamata mai a rispondere dei suoi errori giudiziari, anche di quelli commessi in palese malafede. Il diritto di opporsi con rivolte sediziose ad ogni proposta di separazione delle carriere (fra accusatori e giudicanti). Ma soprattutto, il diritto di abusare dei poteri di autogoverno, che la Costituzione assegna all’ordine giudiziario, non nell’interesse dei magistrati intesi come sindacato, ma nell’interesse della indipendenza della magistratura quando dice giustizia (jus dicere).

Dò un’informazione che stupirà i lettori più giovani: l’automatismo della carriera giudiziaria, prima, non esisteva affatto. Per passare ai gradi superiori, i magistrati dovevano sottoporsi a concorsi interni periodici, in cui erano giudicati dai giudici delle giurisdizioni superiori. Con questo sistema di ben inteso autogoverno dell’ordine giudiziario, i magistrati erano obbligati allo studio e all’approfondimento permanente, erano sottoposti al giudizio di loro pari che però ne sapevano più di loro, gli incapaci erano scartati e non giungevano far danni peggiori nei ranghi superiori; e fatto per nulla trascurabile, i ranghi superiori educavano gli inferiori ad una filosofia del diritto, ottenendo in qualche modo l’importantissima unità complessiva della giurisprudenza nel tempo, negli anni e decenni, elemento fondamentale della certezza del diritto.

Si poteva essere relativamente certi che la Cassazione non avrebbe rovesciato le sentenza della Cassazione di vent’anni o dieci anni prima. Ciò oggi avviene spesso, ridicolmente i cassazionisti modificano l’orientamento della Cassazione precedente, perchè i magistrati si sono conquistati la progressione automatica: un incapace, un giovincello con un’idea neandertahliana (1) o rivoluzionaria del diritto (in senso marxista o da Centri Sociali), vinto il primo concorso, sa che arriverà al grado di giudice di Cassazione per pura anzianità, qualunque cosa faccia, a meno che non ammazzi qualcuno in piena aula giudiziaria. E con la certezza che nessuna sanzione gli verrà dall’estremo organo di autogoverno, il Consiglio Superiore della Magistratura: perchè il CSM è diventato un sindacato, ben diviso in correnti politiche che dichiarano apertamente di essere di parte anche perchè i membri del CSM vengono eletti per i due terzi dai magistrati, divisi essi stessi in correnti partitiche – ciò che prima era formalmente vietato: i giudici non potevano avere tessere di partiti, nè simpatizzare apertamente per uno o l’altro: non era ipocrisia, ma era la preoccupazione di salvaguardare il prestigio della magistratura: non solo bisognava essere oggettivi e neutri, ma bisognava apparirlo, proprio per non prestare il fianco alla troppo facile accusa – che Berlusconi lancia di continuo – della parzialità dei suoi accusatori togati.

Erano anni, prima, in cui i magistrati, specie in provincia, rifiutavano inviti a cene o a feste in cui potevano incontrare personalità che avrebbero potuto inquisire, o comunque sentire in giudizio, come gli avvocati. Oggi, mi dicono, giudici e avvocati in certe città di provincia si dividono l’affitto di certe garçonnières...

Altri tempi. Oggi il CSM è impegnato a difendere i magistrati qualunque cosa facciano, anche e specialmente nelle loro malefatte; lì, ogni corrente difende i suoi, ed ottiene il consenso delle altre ed opposte correnti, perchè in cambio chiuderà un occhio sui loro incapaci o mascalzoni. Tanto, si sa, la magistratura giudica tutti, ma non può essere giudicata da nessuno... L’interesse di categoria – intesa come categoria sindacale – ha annullato l’interesse della magistratura come Ordine.

Ecco il punto: la magistratura s’è conquistata una totale impunità e irresponsabilità, la sicurezza di stipendi sempre crescenti automaticamente, persino il diritto di presentarsi ad elezioni subito dopo aver gettato la toga (una violazione gravissima, sconosciuta negli altri Paesi civili: un ex-magistrato resta ineleggibile per almeno 3 anni) – a prezzo, però di qualcosa di impalbabile: il prestigio. Ha oggi enormi poteri, quello di giocare con le vite umane incarcerando alla leggera, di violare il segreto istruttorio, di intercettare non-inquisiti a loro insaputa, di perseguitare le parti politicamente avverse – ma li ha guadagnati in ragione inversa di ciò che ha perduto: la credibilità morale, ossia l’autorità.

Forse proprio perchè prestigio ed autorità non sono entità quantificabili, per esempio in termini economici o di stipendio, la casta giudiziaria vi ha rinunciato pensando di fare un buon affare. Invece ha fatto un affare pessimo. Una magistratura senza prestigio non riesce, ad esempio, ad incastrare Berlusconi, nonostante i suoi scheletri nell’armadio e la sua palese patologia psichica e indegnità morale; Berlusconi resta, perchè la maggior parte della popolazione (e la totalità del suo elettorato) pensa – a ragione – che la magistratura si accanisca su di lui (fra l’altro con 650 inchieste, quasi tutte finite nel nulla) per puro odio di parte. In altre parole, l’indegnità morale berlusconiana non può essere opposta efficamente da una magistratura che mostra di essere parimenti moralmente indegna.

L’eccesso di potere, l’abuso di potere si trasforma – paradossalmente – in impotenza. Ecco che cosa hanno guadagnato i giudici e procuratori. Certo, possono tacitare con minacce e querele i critici del loro operato, e così censurare chi pone il problema della sua perdita di autorità e prestigio.

Possono tacitare chi, come D’Alema in un momento di coraggio, ha confidato (come rivelato da WikiLeaks) che la casta giudiziaria «è un grave pericolo per lo Stato» – verità imperdonabile, e infatti D’Alema s’è affrettato a smentire con una scusa tipicamente berlusconiana («Sono stato frainteso»), per scongiurare inchieste e intercettazioni mirate (2).

Ma, come si è visto nel caso Battisti, il giudizio sulla nostra magistratura – censurato in Italia – viene dato all’estero. Dai suoi pari, dai giudici di altri Paesi. Da giudici inglesi, francesi, tedeschi. Dalle Corte di Giustizia europea, che riceve dall’Italia più appelli contro sentenze dei nostri magistrati, che da qualunque altro Stato-membro; e che è costretta a mettersi le mani nei capelli e a riformare molte sentenze. Il prestigio professionale non è acqua fresca. L’autorità morale nella giurisdizione (jusdicere) non è un fatterello. Far paura non è un sostituto della dignità abbandonata; alla fine, il giudizio di censura arriva da chi non ha motivo di aver paura dei nostri giudici; persino dalla Corte Suprema brasiliana essi ricevono una lezione. Bella conquista.

Ma si deve aggiungere – tristemente – che questo vuoto di prestigio e di autorità non è solo della magistratura. Se ne risente in ogni aspetto della vita pubblica: politico (governo e parlamento), intellettuale, giornalistico, persino sanitario. E vogliamo parlare dell’università? Quella per cui i nostri ricercatori, e tanto professori si sono battuti contro la riforma Gelmini, mandando gli studenti a mettere a ferro e fuoco la piazza?

Voglio ricordare qui il rettore di una delle più prestigiose della università nostrane, La Sapienza, dottor Luigi Frati. Che ha dato una cattedra alla facoltà di Medicina (di cui è stato preside, oltre che rettore) alla moglie (storia della Medicina), alla figlia Paola Frati (medicina legale) e da ultimo – prima che entrasse in vigore la legge Gelmini che proibisse ulteriori parentopoli – al figlio Giacomo Frati.

Luigi Frati
   Luigi Frati
I media ne hanno parlato più divertiti che scandalizzati. Il rettore Frati, di fronte alle obiezioni, ha avuto la faccia di bronzo di rispondere: «Ebbé? I miei figli sono stati più bravi, hanno vinto il concorso». Nessun magistrato ha aperto un dossier o ordinato intercettazioni occulte sul magnifico, magnificentissimo rettore furbastro (3).

Del resto, pare che la cosa non sia perseguibile penalmente.

Ma qualcosa si poteva fare. La potevano – dovevano – fare gli stessi colleghi del professore e rettore. Che cosa? Sono sicuro che in una università americana o inglese (e non parliamo di quelle tedesche), un docente che fosse arrivato sui giornali per gli stessi motivi per cui ci è arrivato Frati, sarebbe stato sanzionato dai suoi pari – per rispetto di se stessi. Nessuno si sarebbe seduto al suo tavolo alla mensa dei professori. Gli avrebbero tolto il saluto, fatto il vuoto attorno. L’avrebbero costretto alle dimissioni a forza di atti di biasimo silenzioso. L’avrebbero disonorato. Ciò, perchè i professori (all’estero) hanno da difendere quella cosa impalpabile che si chiama autorità e prestigio: la loro propria, quella della università in cui insegnano, quella del corpo insegnante in quanto tale.

Da noi, evidentemente, no. Perchè altrimenti gli scienziati serii, e i ricercatori veri che ancora esistono qua e là nei nostri atenei, non avrebbero mai dovuto chiamare collega un tizio che insegna Scienze del Fiore e del Verde, o tiene corsi di Toelettatura per cani, di Storia del Blues, Scienze del Turismo alpino, Storia delle Donne e di genere. Non si sarebbero mai seduti nel consiglio docente accanto a un sedicente scienziato di Scienze del Fitness (Università di Rimini), di Scienza del Teatro, di Verde ornamentale (Bologna) o di Enogastronomia Mediterranea.

Questa gente, che è insorta contro i tagli alla cultura e alla ricerca della Gelmini, avrebbe capito in anticipo che erano i titolari dei duemila corsi di laurea triennali con questi ed altri titoli balzani e furbeschi a sottrarre a loro, i veri scienziati, gli scarsi fondi per la ricerca, accaparrandoseli per le loro scienze inventate e inesistenti.

Se non l’hanno fatto, c’è un perchè. Hanno creduto di fare un buon affare. Che il gonfiamento degli pseudo-studi universitari e delle scienze mai esistite dava più potere, nel senso di più spesa, di più posti da distribuire, di più favori da scambiare, alla casta universitaria. Anche loro hanno barattato il potere con l’abbandono dell’onore, con la rinuncia al prestigio e all’autorità che viene dalla credibilità. E poi ci chiediamo perchè le riviste internazionali pubblichino pochi studi dei nostri luminari universitari; quel meccanismo che si chiama giudizio dei pari (peer evaluation), là funziona ancora.

Ma come ho detto, e come ciascuno può constatare, lo stesso baratto fra potere e dignità avviene in quasi tutti i campi della vita pubblica: tra giornalisti che hanno riempito l’ordine professionale di figli di colleghi ed hanno prodotto un giornalismo di incredibile mediocrità e disonestà; tra gli intellettuali (e qui basta vedere che da noi un Saviano è salutato dai mediocrissimi media come un maitre à penser), nello spettacolo, nell’arte e nell’architettura (vedi Fuksas), e ovviamente nella politica (qui gli esempi di disonore sono troppi per elencarli). In realtà, è un intero popolo senza onore (4), che avanza nel mondo credendo che il prestigio, la dignità morale e l’autorità siano superflui, quando si ha il potere e se ne accaparra sempre di più.

Il risultato sono: Berlusconi che non si dimette, Fini che non si dimette anzi si arrocca nella sua carica istituzionale come una fortezza per la sua lotta di parte, Bossi che si accompagna con il figlio Trota facendone un politico; ministre che sono o sono state escort; parlamentari camorristi, o che cambiano casacca per non perdere lo stipendione; intellettuali che non sono capaci di praticare il mondo del pensiero, medici e giudici sotto i ferri dei quali si ha paura di finire.

Ma senza prestigio, un popolo non si regge nella storia, nè davanti agli stranieri. Non produce più nulla. Vivacchia e rubacchia, fino al consumo completo delle virtù passate, di cui restano residui. Poi, il nulla.




1) Il neanderthalismo giuridico, i nostri giovani magistrati l’hanno appreso nelle mediocrissime facoltà di Legge, in cui – tra l’altro – si è smesso di insegnare il Diritto Romano. Chi ignora il diritto romano adotta un positivismo giuridico del più basso livello; non si pone più il problema di fare giustizia (di cui non ha mai ricevuto la minima idea) ma di applicare le leggi esistenti - anche le più inique. Ciò che può essere fatto, al limite, anche da un computer. Per secoli, a fare il diritto a Roma non furono le leggi promulgate del Senato (poco più di 300 in mezzo millennio), bensì la meditazione dei giureconsulti, veri e propri filosofi del diritto, su che cosa - in un dato fatto sotto esame, davanti ad una data accusa – era giusto e che cosa era torto.
2) Dai giornali: «... dai file segreti rivelati da Wikileaks, spunta anche un report che riguarda Massimo DAlema che critica la magistratura italiana. Nel dispaccio del 3 luglio 2008, pubblicato da El Pais e intitolato Berlusconi incontra forti turbolenze’, nel paragrafo La magistratura in Italia: per molti un sistema rotto’, lambasciatore americano Spogli argomenta che la pubblicazione delle intercettazioni telefoniche relative alle inchieste giudiziarie da parte della stampa creanoimbarazzo a coloro che si battono per una riforma del sistema giudiziario e per la fine della pratica delle intercettazioni’. I responsabili delle fughe di notizieraramente vengono individuati’. ‘Sebbene la magistratura italiana sia tradizionalmente considerata orientata a sinistra, lex premier ed ex ministro degli Esteri Massimo DAlema ha detto lo scorso anno allambasciatore (USA, ndr) che la magistratura è la più grande minaccia allo Stato italiano’, scrive ancora Spogli. ‘Nonostante 15 anni di dibattiti sulla necessità di una riforma del sistema, non sono stati fatti progressi significativi. Gli italiani considerato il loro sistema rotto e hanno veramente poca fiducia sul fatto che garantisca giustizia’, commenta ancora il diplomatico americano».
3) Il rettore Frati alla Sapienza è lo stesso che voleva licenziare il professor Antonio Caracciolo, ricercatore docente di Filosofia del Diritto, che in un suo blog aveva rivendicato (in termini giuridici) il diritto alla libertà di espressione anche dei negazionisti dell’olocausto. Tutto era cominciato dal giornale Repubblica, che aveva sparato in prima pagina un articolo (firmato da Marco Pasqua, epitome del livello mediocre e irresponsabile del giornalismo italiano) che recava il titolo: «Lo sterminio degli ebrei è una leggenda professore negazionista, shock alla Sapienza». L’articolo dava falsamente l’impressione che il professor Caracciolo insegnasse queste cose dalla cattedra universitaria; invece, le aveva scritte in un suo blog. Immediate richieste di licenziamento del Caracciolo da parte del sindaco Alemanno, del suo controllore Riccardo Pacifici, e dell’intera comunità ebraica; ma anche la sinistra, il coordinatore della FGCI: «Chiediamo, nei fatti e non a chiacchiere, lallontanamento immediato dallinsegnamento del professore negazionista della Sapienza Antonio Caracciolo» e del presidente del consiglio comunale di Roma, tal Marco Pomarici, berlusconiano: «Non è tollerabile che determinate affermazioni circolino liberamente nella più grande Università europea (...) è di tutta evidenza quindi che Caracciolo non è adatto allinsegnamento e va allontanato». Tutti, destra e sinistra, esigono seduta stante la testa di una persona che non conoscono, di cui non hanno letto nulla, senza aver controllato i fatti, riportati falsamente da Repubblica: bell’esempio di gente che ha potere, ma non autorità nè onore. Quanto al rettore Frati, non solo apre un provvedimento contro Caracciolo come gli viene richiesto; gli manda anche, perchè si ravveda e capisca qual’è la verità, una fotocopia delle pagine dell’Enciclopedia Britannica, voce Holocaust. Questo illumina il mediocrissimo livello culturale, di cultura generale, del rettore della più grande università d’Europa. Vero è che Frati non è uno storico ma un medico, attivo per lo più da molti anni come sindacalista della casta universitaria; non auguro ai lettori di finire sotto le sue mani, o dei medici che escono dalle sue lezioni, o da quelle di sua moglie. O dei suoi cari figli.
4) Magari qualcuno potrebbe insinuare che questa rinuncia all’onore, autorità e prestigio, è sorta in Italia molto prima di Mani Pulite; precisamente nell’8 settembre del ‘43, quando ai più alti livelli si tradì l’alleato bellico, per allearsi con gli ex-nemici; o poco dopo, quando coloro che avevano tradito si accaparrarono i posti di governo auto-celebrandosi come liberatori, patrioti e resistenti, mentre i pochi che non avevano voluto tradire furono consegnati alla damnatio memoriae; gli eventi insomma che un intellettuale antifascista come Galli della Loggia chiama «morte della patria».
Non occorre dire che mi dissocio con forza da questa mia opinione.


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