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Le ragioni di Hamas
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«Quando la misura dei danni a Gaza diverrà chiara, non farò più una vacanza ad Amsterdam, ma alla Corte Internazionale dell’Aia»: così, secondo Haaretz, ha scherzato un ministro israeliano di cui non fa il nome (1). Hanno anche voglia di scherzare.

I caporioni sanno di dover presto affrontare un’ondata di denunce per atrocità, sanno che avranno pressioni per consentire una inchiesta internazionale sui loro massacri di civili. E già hanno cominciato la seconda offensiva, quella mediatico-psicologica.

Sei ministri israeliani stanno già viaggiando in Europa per rimediare al disastro d’immagine; il ministro dell’Interno Sheetrit va i Belgio a riprendere il controllo dei giornali e degli eurocrati, Iuli Tamir, ministro dell’Istruzione, in Irlanda e in Islanda; si muovono anche Shaul Mofaz (oggi ai Trasporti, ma ex capo di Stato Maggiore già denunciato per crimini di guerra in passato), Isaac Herzog (Affari Sociali), Daniel Freidman (Giustizia), Avi Dichter (Sicurezza Interna, ex caporione dello Shin Beth, specializzato in tortura). Hanno già mobilitato i loro ipocriti scrittori «pacifisti», quelli che imperano sulle pagine culturali del Corriere o di Repubblica, col loro solito argomento: io sono contro ogni guerra, ma questa volta…

Verranno a farci la lezione, ad accusarci di antisemitismo e ad atteggiarsi a vittime universali.

Sarà dura in certe zone d’Europa, visto che persino l’Economist dei Rotschild, a firma del giornalista ebreo Gideon Lichfield, ha scritto: «Ciò che alla TV è apparso cattivo “è” cattivo. L’impressione che Israele ha dato constantemente è che ammazza persone perchè o non ha un’idea migliore, o al peggio perchè i dirigenti israeliani cercano di superarsi l’un l’altro come rivali politici».

Essi non temono i governi nè i giornali, che sono tutti al loro servizio; temono le querele di individui ed organizzazioni non governative alle autorità giudiziarie: è già accaduto che generali sanguinari siano dovuti restare sul volo El Al atterrato a Londra, per sfuggire all’arresto. Questo tipo di azioni, loro, non le controllano del tutto. Non tutti i procuratori d’Europa sono al loro soldo.

In questo senso, uno dei massimi sospetti delle atrocità commesse nei 21 giorni d massacri è il generale, 54 anni, capo di Stato Maggiore in carica, autore dell’attacco ultimo alla popolazione di Gaza.

ragioni_hamas.jpgGiudeo bielorusso, il generale Ashkenazi ha formato negli anni ’80 la cosiddetta Armata Sud-Libano, fatta di cristiani collaborazionisti, celebri per gli eccidi di Sabra e Shatila; per queste imprese, è diventato poi capo della «Golani», una unità di omicidi professionali, i cui soldati, Askhenazi ha difeso dalle ripetute accuse di atrocità e torture commesse nella prima intifada. Askhenazi ha anche presieduto alla costruzione del Muro.

Oggi, il generale ha attaccato verbalmente Ehud Barak, il suo ministro della Guerra, per aver deciso il ritiro unilaterale da Gaza, secondo lui, prima che il lavoro fosse finito.

Un pendaglio da forca norimberghese.

Ma attenzione anche al civile e moderato laborista ministro degli Affari Sociali, Isaac Herzog, che sarà accolto dagli eurosocialisti come un caro compagno: è lui che coordina la battaglia di relazioni pubbliche e che sta raccogliendo i materiali di «prova» a discolpa dei suoi criminali di guerra militari: ci spiegherà che le scuole dell’ONU dove la gente si rifugiava erano in realtà covi di «terroristi di Hamas», che il magazzino-viveri dell’UNRWA era in realtà un serbatoio di armi «di Hamas», così come gli ospedali e le moschee: e che dunque erano bersagli legittimi delle bombe al fosforo, dei missili e delle artiglierie.

Il lato agghiacciante è che Herzog, in quanto ministro degli Affari Sociali coordina «l’aiuto umanitario a Gaza»: ossia è lui che controlla gli aiuti che l’Europa manderà alla popolazione, è lui che deciderà di continuare la «cura dimagrante».

Perchè – come dicono già i complici governativi ed eurocratici, da Berlusconi alla kommissaria Ferrero-Waldner – «nessun aiuto» arriverà, finchè Hamas non si fa da parte.

Dunque campa cavallo. L’urgenza umanitaria può aspettare, prima è urgente compiacere Giuda e dare il potere alimentare in mano ad Herzog.

Sicchè nei prossimi giorni apprenderete che tutta la colpa è di Hamas. Anche alcuni lettori ci dicono che dimostriamo una certa parzialità per Hamas, che ha pure i suoi torti.

Io non ho nessuna speciale simpatia per questo movimento fondamentalista. Però, approfitto dell’occasione per rispondere alle accuse che le vengono fatte, perchè non le sentirete dalla TV, nè le leggerete sui giornali.

• «Hamas tira i razzi», ci diranno.

Durante tutta la tregua di sei mesi, Hamas non ha tirato razzi, lo ammettono anche le fonti militari israeliane. Cioè ha tenuto fede alla sua parte del patto. A non aver tenuto fede, è Israele che nonostante la tregua non ha aperto i valichi alle merci, e ha continuato ad affamare – non Hamas, ma la popolazione civile palestinese, fatta (lo ricordo) per metà di ragazzi sotto i 16 anni, e per l’80% di profughi già cacciati da altre zone della Palestina che Israele si è preso nei decenni passati. Ha ricominciato a tirare i poveri razzi quando Israele (non Hamas) ha rotto quella tregua il 5 novembre 2008, penetrando con un gruppo di commando nel territorio di Gaza per uccidere sei militanti.

«Ma perchè tirare razzi, che non hanno altro esito se non giustificare laggressione dello Stato di Israele? E irrazionale».

Il perchè lo hanno spiegato i capi di Hamas all’ex-presidente Jimmy Carter, che si è adoperato come mediatore informale per ottenere la tregua violata da Giuda. Tiriamo razzi, hanno detto, perchè altrimenti il mondo ci dimentica, mentre la popolazione di Gaza da un anno e mezzo è sottoposta alla «cura dimagrante» dalla chiusura dei valichi. Era un modo per richiamare l’attenzione di un mondo che «non vuole vedere» il lento genocidio per fame perpetrato dal Quarto Reich.

«Hamas vuole eliminare Israele, è scritto nel suo statuto. Hamas non riconosce il diritto di Israele allesistenza».

Nel febbraio 2006, il Wasshington Post ha intervistato il capo di Hamas, Ismail Hanyeh. Confesso che l’intervista m’era sfuggita: la riprendo da un articolo di Mike Whitney (2).

Hanyeh disse allora:

«Non abbiamo alcun odio per gli ebrei. Non vogliamo rigettarli in mare. tutto quel che vogliamo è di riottenere la nostra terra, senza far danno ad alcuno... Non cerchiamo la guerra, nè siamo iniziatori di guerra; non amiamo il sangue. Siamo un popolo oppresso con dei diritti».

Washington Post: «Riconoscete il diritto di Israele ad esistere?».

Hanyeh: «Se Israele si ritira entro i confini del ’67, allora stabiliremo la pace per stadi... Instaureremo una situazione di calma e stabilità che porterà sicurezza al nostro popolo».

Washington Post insiste: «Ma riconoscete il diritto di Israele ad esistere?».

Hanyeh: «La risposta è che Israele riconosca uno Stato palestinese entro i confini del 1967, rilasci i prigionieri e riconosca il diritto dei profughi al ritorno in Israele. Hamas prenderà una posizione se questo avviene».

Washington Post incalza: «Riconoscerete Israele?».

Hanyeh: «Se Israele dichiara che darà al popolo palestinese uno Stato, e restituirà loro tutti i diritti, allora siamo pronti a riconoscerlo».

Con ciò, Hanyeh non chiedeva niente più che quanto richiesto dalle risoluzioni ONU, tutte una dopo l’altra violate da Sion. Hanyeh si dimostrava ragionevole e conscio della realtà, non favorevole a sogni di eliminazione di Israele.

Anche il Partito Comunista Italiano aveva la rivoluzione bolscevica nel suo programma; ma poi si è contentato di governare le regioni rosse, e non certo applicando il collettivismo. I partiti di un certo genere hanno un linguaggio utopico per la propaganda, e una lingua realistica nella pratica.

Lo ha riconosciuto Ephraim Halevy, l’ex capo del Mossad: Hamas «sa che il suo programma ideologico non è ottenibile, nemmeno nel futuro che si possa prevedere; desiderano vedere uno Stato palestinese nei confini del ‘67», e sanno che «questo li porterà lontani dai loro programmi originari».

Tuttavia, ha concluso Halevy, «Israele, per le sue ragioni, non ha voluto trasformare la tregua in un inizio di apertura diplomatica ad Hamas».

Perchè Hamas con quella intervista ha di fatto teso una mano ad Israele; qualunque altro Paese avrebbe accolto questa apertura; invece, Israele ha risposto trasformando Gaza in un lager, da bombardare periodicamente a suo piacimento.
E’ questa una politica costante del sionismo, che persino i ciechi e i sordi dovrebbero – in 60 anni – aver imparato a riconoscere.

Quando Arafat (marx-leninista, non islamico) è diventato – da terrorista – via via più ragionevole e pronto a ridurre le sue richieste, gli israeliani hanno creato Hamas (prendendone i capi dai giovani traumatizzati, e curati in ospedali psichiatrici gestiti dall’esercito israeliano), che insidiava Arafat da posizioni massimaliste e, appena si profilava un possibile accordo, compiva attentati, che davano ad Israele la scusa per far saltare i tavoli.

Dopo l’11 settembre, Arafat – ormai disposto a cedere molto, per una Palestina indipendente di cui sarebbe stato il capo – è stato bollato come terrorista e, infine, avvelenato dai sicarii di Sion.

Poi, anche Hamas ha cominciato ad addolcire le sue posizioni. Il suo capo spirituale, lo sceicco Yassin, propose una tregua agli attentati suicidi, a tempo indefinito: Israele uccise questo vecchio sulla sedia a rotelle.

Haniyeh è l’uomo che – ironicamente – ha salvato più vite isareliane di ogni altro, decretando la fine degli attentati suicidi. Vinte le elezioni nel 2006, rilascia quella intervista al Washington Post che abbiamo citato.

La risposta di Israele è la solita: con l’appoggio di elementi neocon nell’amministrazione Bush, arma la fazione perdente, Fatah, erede dell’odiato Arafat, anche con mitragliatrici e autoblindo, incitandola a prendere il potere a Gaza contro il governo eletto. Hamas scopre la manovra e previene il golpe, neutralizzando Fatah in pochi giorni di guerra civile.

Da qui, la decisione del blocco economico totale, di affamare Gaza con una punizione collettiva per la colpa di aver votato la meno corrotta delle formazioni politiche palestinesi.

«Noi vogliamo ciò di cui godono gli americani: i diritti democratici, la sovranità economica e la giustizia», aveva detto Haniyeh al Washington Post:

«Noi eravamo orgogliosi nella speranza che le più corrette elezioni mai tenute nel mondo arabo potessero trovar favore presso gli Stati Uniti e i suoi cittadini. Invece, il nostro nuovo governo è stato trattato fin dall’inizio con atti di esplicito sabotaggio dalla Casa Bianca. Ora questa aggressione continua contro 3,9 milioni di civili che vivono nei più grandi campi di prigionia del mondo (parlava anche della Cisgiordania in mano a Fatah, e percorsa dalle incursioni delle SS e dei coloni). La complicità americana di fronte a questi crimini di guerra è, come sempre, avvolta nel semaforo verde retorico: Israele ha diritto a difendersi».

Tutti i tentativi di riconciliazione sono stati fatti dai capi palestinesi. E tutti invano. Israele ha risposto ad ogni avance con atti di guerra, di provocazione e di sedizione. Essa non vuole trattare in buona fede; la sua ideologia sionisto-talmudica prescrive l’inganno perpetuo e il disprezzo degli «animali parlanti», nonchè la pretesa di appropriarsi di ogni metro quadro della terra «santa», per attuare la promessa biblica.

Illan Pappe, docente di Storia alla Università di Exeter, ebreo, ha spiegato quella che chiama «la giusta furia di Israele» sulle vittime di Gaza:

«Non ci sono limiti alla ipocrisia che un ‘giusto furore’ produce. Il discorso dei generali israeliani oscilla, secondo le circostanze, fra l’auto-compiacimento per l’umanitarismo che l’esercito dimostra nelle sue operazioni ‘chirurgiche’, e la necessità di distruggere Gaza una volta per tutte, naturalmente in modo ‘umano’».

Così adesso, almeno i nostri lettori lo sanno: tutte le volte che i propagandisti israeliani, ministeriali e volontari, ci tornano a presentare i loro massacri e atrocità come moralmente giusti, puri atti di auto-difesa a cui sono costretti dalla irrazionalità delle belve nemiche, non fanno che riecheggiare la ideologia del razzismo sionista.

Non c’entra Hamas. Se al suo posto ci fosse un altro partito, un partito di angeli, sarebbe lo stesso.

E in questo, non c’è nessuna differenza tra gente del Likud o socialisti sionisti, tra il Kadima e gli scrittori israeliani «pacifisti». Tutti espongono una faccia da vittime verso il mondo esterno, mentre all’interno si superano l’un l’altro in zelo fanatico e «giusta furia» – e sempre contro i palestinesi, per il solo fatto che i palestinesi sono deboli, e dunque possono essere pestati senza rischio quando un governo deve mostrare agli altri giudei di Sion che – per usare termini biblici – «lo zelo per la tua Casa mi consuma».

Per di più, il fanatismo e la doppiezza talmudica – una forma particolarmente chiusa di razzismo – li rende insensibili alle critiche e alle proteste che vengono dall’estero, da altri «animali parlanti» che vivono in Europa.

Privi così di ogni meccanismo di autocritica interna, come di ogni sensibilità o desiderio di comprendere le critiche esterne, gli israeliani non sono capaci di esercitare alcuna limitazione alla loro ferocia; il senso del limite – dono dei greci alla cultura cristiana, senso apollineo della misura – non è del resto una virtù ebraica. La virtù  più pregiata là è la smodatezza biblica, l’esercizio estremo dell’arbitrio verso l’interno («Lo zelo per la tua casa mi consuma»), e l’ipocrita doppiezza vittimistica verso il mondo.

Il sionismo è uno Stato di zeloti, sicarii e di farisei.

Lo stesso Illan Pappe («Israel’s righteous fury and its victims in Gaza») giunge alla conclusione che la società israeliana essendo impermeabile ad ogni consiglio di umanità e di dialogo, e persino agli argomenti logici contro la sua violenza ricorrente, è il sionismo stesso – il sionismo come ideologia – che va chiamato in questione.

«Un rifiuto internazionale del sionismo, non di questa o quella politica israeliana, sarebbe il solo modo per contrastare questa ipocrisia» (3).

Ora che comincia la nuova guerra – la propaganda, contro di noi, per farci accettare l’inaccettabile criminalità cui abbiamo assistito – è essenziale ricordare queste parole. Perchè nè i media, nè i politici ve le diranno.




1) Aluf Benn, «Israel fears wave of war crimes lawsuits over Gaza offensive». Haaretz, 19 gennaio 2008.
2) Mike Whitney, «Bloodbath in Gaza; separating the truth from the hype», GlobalResearch, 7 gennaio 2009.
3) Citato da Whitney, vedi sopra. Stessa analisi cui giunge il politologo franco-tedesco Immanuel Wallerstein: «Israel however was always one step behind. When it could have negotiated with Nasser, it wouldn't. When it could have negotiated with Arafat, it wouldn't. When Arafat died and was succeeded by the ineffectual Mahmoud Abbas, the more militant Hamas won the Palestinian parliamentary elections in 2006. Israel refused to talk to Hamas. Now, Israel has invaded Gaza, seeking to destroy Hamas. If it succeeds, what organization will come next? If, as is more probable, it fails to destroy Hamas, is a two-state solution now possible? Both Palestinian and world public opinion is moving towards the one-state solution. And this is of course the end of the Zionist project. The three-element strategy of Israel is decomposing. The iron fist no longer succeeds, much as it didn't for George Bush in Iraq. Will the United States link remain firm? I doubt it. And will world public opinion continue to look sympathetically on Israel? It seems not. Can Israel now switch to an alternative strategy, of negotiating with the militant representatives of the  Arab Palestinians, as an integral constituent of the Middle East, and not as an outpost of  Europe? It seems quite late for that, quite possibly too late. Hence, the chronicle of a suicide  foretold».


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