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L’illusione e l’immobilismo
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Gli strascichi della ‘Obama-mania’ continuano a rifluire in Europa, alimentati da luoghi comuni, infondatezze storiche e colpevoli incoerenze. Con il rischio che la grande illusione faccia da madrina ad un catastrofico immobilismo

Il primo e forse l’unico elemento certo che emerge alla conclusione del primo anno del mandato presidenziale di Barack Obama è che otto anni di bushismo hanno lasciato un segno profondo non solo nel popolo americano, ma anche nell’immaginario collettivo di tutto il mondo. Solo così si spiega la grande ondata di entusiasmo generale (tra l’altro in netto calo negli USA) che ha accompagnato Barack Obama nella sua cavalcata trionfale verso la Casa Bianca e nei suoi primi mesi di governo.

Non tanto la politica unilaterale, aggressiva e miope di Bush hanno determinato la sconfitta repubblicana ed il disgusto per l’invadenza americana nel mondo, quanto la serie impressionante di fallimenti che questa stessa politica ha inanellato. In Europa il consenso di Obama toccò addirittura livelli da plebiscito, superiori all’ottanta per cento. Si trattò di una vera e propria mania, una febbre politica i cui strascichi continuano tutt’oggi a rifluire alimentati da luoghi comuni, infondatezze storiche e colpevoli incoerenze, oltre che da una totale assenza di pragmatismo politico.

Ad un anno di distanza dall’elezione di Obama, il cui trionfo è stato salutato aprioristicamente come un momento storico per l’umanità, è forse giunto il momento, per le coscienze politiche europee, di superare la sbronza sessantottinesca e tornare a ragionare nei termini della politica reale.

Il diffuso assunto di partenza era stato che l’avvento di Obama alla guida della superpotenza americana avrebbe segnato un nuovo corso non solo della politica statunitense ma anche di quella mondiale, perché si trattava di un uomo nuovo, perché era il primo afroamericano a raggiungere la carica presidenziale, perché l’approccio dei Democratici alla politica estera sarebbe stato più multilaterale di quello dei Repubblicani. E’ in primo luogo la storia a smentire questo quadro idilliaco circa un presidente americano dal quale in Europa, come ha sottolineato il filosofo francese Andrè Glucksmann, «ci si aspetta tutto senza nulla esigere prima».

In primis la teoria secondo la quale i Democratici avrebbero un approccio alla politica estera più multilaterale e meno aggressivo è una favoletta bella e buona: Democratico era Woodrow Wilson il quale gettò gli Stati Uniti nel primo conflitto mondiale. Democratico era Franklin Delano Roosevelt, il quale durante la Seconda Guerra Mondiale rase al suolo mezza Europa con le bombe sganciate dalle sue «fortezze volanti». Una morte prematura non gli permise di completare l’opera, ma per fortuna giunse appena in tempo un altro presidente democratico, Harry Truman, il quale in nome di un certo multilateralismo decise di porre fine al conflitto sganciando due bombe atomiche sul Giappone. Democratici erano Kennedy e Johnson i quali tramutarono il supporto americano al Vietnam del Sud in un conflitto sanguinoso. Democratico era anche Bill Clinton, il quale pensò bene di scatenare la potenza di fuoco della NATO per risolvere una questione interna alla repubblica serba, dandoci un esempio della coesione di quello che allora era chiamato «ulivo mondiale», asse fortemente multilateralista che lo vedeva schierato a fianco dei suoi degni compari D’Alema, Blair e Schroeder i quali scattarono sull’attenti dando il loro contributo ai bombardamenti.

Altro elemento storico che dovrebbe tramutare gli entusiastici bollori pro-Obama in una più oggettiva analisi politica è l’assenza di un qualche indizio che possa ad oggi farci guardare alla presidenza Obama come ad un reale momento di rottura nella politica americana: infatti, se la storia degli Stati Uniti ci ha insegnato qualche cosa è che nessun governo americano, di qualunque schieramento politico, ha mai messo in discussione i dogmi sui quali la stessa politica americana si basa: universalismo degli interessi statunitensi, perseguimento del «destino manifesto» del popolo americano, unilateralismo, politica aggressiva verso le nazioni bollate come «ostili».

Pensare che Barack Obama possa concretamente andare in controtendenza rispetto a tutti i suoi predecessori, magari in virtù del colore lievemente più scuro della sua pelle, è un insulto all’intelligenza oltre che un sintomo di cecità rispetto agli avvenimenti politici dell’ultimo anno.
Che questo presunto vento di cambiamento non soffi nel mondo reale con la veemenza che tutti si aspettavano  lo conferma paradossalmente lo stesso Obama, il quale ad oggi non ha portato a termine alcun cambio di rotta di una portata tale da lasciar supporre alcun importante stravolgimento delle politica estera degli Stati Uniti.

Chi, come Veltroni, salutò l’esito delle urne americane come il segno di un grande cambiamento, dovrebbe porsi delle semplici domande: ha forse Obama stabilito che le decisioni delle Nazioni Unite o le sentenze del Tribunale Internazionale per i crimini di guerra saranno d’ora in poi vincolanti per gli Stati Uniti? E’ evidente che non lo ha fatto. Ha forse posto fine all’occupazione dell’Afganistan e dell’Iraq delineando una chiara strategia di uscita dai due catastrofici scenari? No. Ha promesso passi decisivi per risolvere la questione mediorientale? No, ma in compenso dichiarò durante il suo viaggio pre-elettorale in Israele di volersi impegnare perché Gerusalemme diventi la capitale dello Stato ebraico. Chissà se i cittadini palestinesi lo avranno interpretato in quel momento come il presagio di un multilateralismo prossimo venturo. Se non bastasse Obama pensò bene di nominare a capo del suo staff Rahm Israel Emanuel, un ebreo americano nato da una famiglia israeliana di tradizione sionista, gesto questo non proprio indicativo di una volontà di distensione nei confronti dei Paesi arabi.

Insomma, i segnali evidenti di una qualche rottura col passato non sono a ben guardare così tanti e sarebbe stupido aspettarsi che possa essere così, dato che il presidente degli Stati Uniti, chiunque esso sia, non può operare come un monarca assoluto, ma deve anzi rendere conto del suo operato secondo le complesse logiche del suo governo e, ancor più importante, delle lobby che lo sostengono. Prova ne sia il fatto che, per celebrare il premio Nobel per la Pace assegnatogli sulla fiducia, il povero Obama non ha trovato di meglio da fare che rimpinguare con nuove truppe il contingente americano in Afganistan.

Eppure, per la debilitata sinistra europea, ed in particolare per quella italiana ormai moribonda, solo dodici mesi orsono sembrarono esserci tutti gli elementi per salutare l’elezione di Obama come l’avvento del nuovo messia. Una strumentale incoerenza di tale portata affonda le sue radici nel disperato disorientamento che la sinistra vive dal 1989, ovvero da quando è rimasta orfana di un chiaro e coerente riferimento internazionale.

Ma non solo. Proclamarsi amici ed ammiratori di Obama servì, e serve ancora oggi a Veltroni e compagni per rimarcare tanto implicitamente quanto maliziosamente la presunta identificazione del centrodestra con i tanto detestati repubblicani, i quali non godono certo di una buona nomea in giro per il mondo. Ma provare a sostituire il blocco socialista con il Partito Democratico americano nell’immaginario della sinistra europea è un operazione che probabilmente si rivelerà troppo sofisticata persino per i guru progressisti della nostra politica, seppur abituati, da bravi sessantottini doc, a repentini cambi d’abito.

In controtendenza, ma fraintendendo ugualmente il significato della presidenza di Barack Obama,  nel centro destra c’è chi, come Antonio Martino, si domandava: «se Obama tradisse davvero la storica missione degli USA di baluardo della libertà nel mondo?».

Eppure all’orizzonte ancora oggi, ad un anno di distanza, non si scorge nulla di nuovo, così come non sembrano in pericolo i capisaldi della democrazia americana né alcuna presunta libertà del mondo.

Quello che preoccupa piuttosto è che, tanto a destra come sinistra, l’illusione di un nuovo corso possa rendere la politica europea ancora più passiva verso le tematiche internazionali dei nostri giorni. Anche perché in effetti la grande illusione è fondamentalmente un problema della sponda più vecchia dell’Atlantico, dove da un anno a questa parte le grandi questioni della politica estera vengono approcciate dall’opinione pubblica con l’immobilismo di un bambino che attende l’arrivo della slitta di Babbo Natale, confidando di trovare sotto l’albero la pace per tutto il mondo e la fine di ogni ingiustizia.

Paradossalmente la politica estera insostenibilmente miope di Bush aveva avuto se non altro il merito di stimolare l’accenno di una presa di posizione europea in merito alle grandi tematiche internazionali, provocando, se non uno strappo vero e proprio, quantomeno un certa freddezza verso le decisioni prese a Washington e verso quegli interessi americani che l’Amministrazione neoconservatrice, per ben otto anni, non si era più presa la briga di dipingere come universali per tutto il mondo occidentale.

Oggi invece l’attrattiva esercitata dalla figura di Obama insieme al ferreo atlantismo dei governi inglese, francese, tedesco ed italiano, rischiano di gettare l’Europa in un immobilismo catastrofico con la conseguenza di far perdere al Vecchio Continente la propria bussola politica e la necessaria autonomia che da essa dipende.

Attendere alla finestra l’arrivo del cavaliere bianco che sconfigga il male è un lusso che l’Europa di oggi non può permettersi in alcun modo. Così come non può permetterselo un mondo che di un’Europa protagonista ha disperatamente bisogno.

Ferdinando Kustermann Kindelan




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