Maurizio Blondet 30 Novembre 2007
Claudio Celani, amico da decenni e membro del Movimento Solidarietà, mi ha mandato una lunga obiezione sulle mie posizioni espresse in «Destra sociale».
Ho messo le mie risposte tra le sue frasi.
Ne è nato un dialogo, diciamo così, che forse può interessare i lettori.
Caro Maurizio,
ti scrivo a proposito del tuo articolo sulla «Destra sociale».
Ci conosciamo da tanti anni e ci legano un’amicizia e una stima reciproca.
Condividiamo molte idee, ma una delle cose su cui non siamo mai andati d'accordo è l’impero romano.
Ora vedo che tu lo rilanci addirittura identificandolo come levatrice dell’idea di Stato nazionale. Poiché io ritengo questa tesi sbagliata, e penso che sia una questione di fondamentale importanza, permettimi di esporre le ragioni del mio dissenso.
Aggiungo che volevo già scriverti a proposito di Roosevelt, e ne approfitto per collegare le due cose.
Blondet. No, non credo di aver detto che l’impero romano è la levatrice dello Stato nazionale.
Mi sarò spiegato male.
Sostengo che l’impero romano è stato il più grande sistema d’integrazione di «nazioni» diverse (gentes) su base giuridica.
Ha dato al mondo il diritto (in via di principio universale, anche gli stranieri avevano diritti: «jus gentium») e in più, una grande architettura e ingegneria civile, mai viste prima - dalle fogne agli acquedotti - che hanno elevato il livello di vita delle popolazioni.
Nel complesso, un sistema civilizzatore.
A te la parola.
Premesso che lo Stato nazionale sovrano rappresenta tutt’oggi la forma più perfetta (o meno imperfetta) di organizzazione della società, e che il governo degli affari del mondo è impossibile a meno che non si basi sulla cooperazione tra Stati sovrani sulla base di una comunità (o comunione) di principii, l’impero romano non solo non c’entra niente con ciò, ma è addirittura antitetico.
Esistevano città Stato, regni di tipo alessandrino pluri-nazionali, e tribù etniche.
L’idea dello Stato nazionale nasce formalmente nel Rinascimento (Machiavelli, ma soprattutto Nicola Cusano con l’idea del sovrano che riceve un mandato per amministrare il Bene Comune) e vede la prima applicazione pratica nella Francia di Luigi XI.
In nuce, era nato prima, e si basava su una cultura, espressa da una lingua comune, che riflettesse l’idea dell’uomo dotato di ragione, e su istituzioni (monarchiche o repubblicane) che favorissero l’organizzazione sociale di quella cultura.
Si tratta del mito di Prometeo, che ruba il fuoco agli dei oligarchici dell’Olimpo per donarlo
all’uomo.
Con l’avvento del cristianesimo quest’idea si perfezionò e divenne Imago Viva Dei.
E gli stranieri non erano obbligati ad apprenderla: la imparavano spontaneamente, per accedere ai giudici romani, alle cariche romane e per profittare del sistema economico romano.
L’impero è l’esatta negazione di ciò.
Ogni forma di impero, da quello persiano a quello romano, a quello britannico che tanto cercò di apprendere le lezioni di quello romano, è basata su una concezione dell’uomo che considera gli uomini al pari delle bestie, tant’è vero che oltre il 90% delle popolazioni degli imperi nella storia vissero in schiavitù o in condizioni simili alla schiavitù.
L’impero romano non fa eccezione: ciò che tu chiami integrazione dei popoli è solo una cooptazione delle elite - oligarchie - dominanti nel sistema imperiale.
Roma aveva anche procedure giuridiche di liberazione e integrazione degli schiavi liberati, i liberti.
Agostino descrive bene il male rappresentato dall’impero romano, e così fanno tutti i grandi autori cristiani.
Machiavelli porta ad esempio la repubblica e non l’impero; Shakespeare descrive, in Giulio Cesare, il morbo oligarchico del sofismo che dominava il Senato romano, facendo riferimento all’unico elemento, il giustiziato Cicerone, che rappresentava l’alternativa.
a) Agostino era un platonico, esponente di un certo «fondamentalismo» anti-romano, anti-statale, che porterà infatti a Lutero (che era agostiniano).
b) Machiavelli e Shakespeare ripetono la vulgata che è corsa fino a tempi recenti, sulla base della letteratura latina egemone (Cicerone ne è il più luminoso esempio, Tacito l’altro), che era anti-imperiale, e «repubblicana».
Più recenti scoperte e valutazioni storiche hanno appurato che questo si basa su un equivoco: la parola «repubblica», che viene intesa in Europa come sinonimo di «libertà, democrazia e pluralismo», era allora tutt’altra cosa.
A dirsi repubblicana era la classe senatoria, ossia l’oligarchia che aveva incamerato (senza pagarli) i terreni di Stato da distribuire al popolo e ai veterani (ager publicum).
Il Senato era la Casta dell’epoca.
Si diceva repubblicano per difendere i suoi privilegi in nome della tradizione.
Contro il Senato si mosse una forza politica «di sinistra», che non a caso era chiamata
«i populares»: i Gracchi, che reclamarono invano una riforma della proprietà terriera e furono uccisi; Catilina uomo di sinistra, che tentò di concorrere al potere legalmente presentandosi ad elezioni (che venivano rimandate con un trucco in modo che i suoi elettori, provinciali, non potessero presentarsi a Roma dove si votava) e fu accusato - falsamente - di colpo di Stato da Cicerone (il fiduciario della classe senatoria, che fece strangolare presunti congiurati senza processo), e Cesare, amico di Catilina.
La difesa dei privilegi oligarchici e la irrisolta questione sociale comportò oltre un secolo di guerre civili, con restaurazioni dittatoriali atroci (Silla, e i suoi massacri di avversari politico-sociali con le liste di proscrizione), e attentati (morte di Cesare).
Cesare era amico di Catilina e prestigioso esponente dei «populares».
Coraggiosamente rifiutò un matrimonio che gli proponeva Silla il dittatore, e dovette allontanarsi da Roma.
Cesare capì che per la vittoria dei riformatori sociali bisognava a disporre di eserciti - così andavano le cose; le legioni erano la sola forza sociale organizzata e di principio più popolare che «repubblicana» - e divenne per questo condottiero e generale.
Non sappiamo a che tipo di governo pensasse, perché fu ucciso prima.
Sappiamo che Ottaviano si richiamò al suo programma (non si sa quanto fedelmente), e si trovò a governare come capo della fazione vittoriosa della spaventosa guerra civile: era durata tanto, che tutti erano esausti, e per questo Ottaviano potè «regnare» come Augusto.
Ma il suo governo era, nella mentalità romana, illegittimo.
Non si chiamava impero, ma principatus.
Non si sapeva come definirlo.
Tale illegittimità durò fino ai Flavii.
Cicerone fu l’espressione più alta della cultura romana perché, come riconobbe Agostino, aveva conosciuto i Greci (Platone) e ne aveva assimilato la cultura.
La sua morte segnò la vittoria dell’oligarchia.
Roma va compresa nei termini culturali e politici della sua epoca, non col senno di poi.
le integra nel Pantheon, in maniera sincretista, come fece Costantino con la religione cristiana, lui rimanendo il Pontifex Maximus (per non parlare della «dote» e «di quanto mal fu matre», come
scrisse Dante).
Che cosa c’entra coi mali dell’impero?
Insomma, sostenere che l’idea nazionale possa essere scaturita dall’impero romano, o da elementi di esso, è un falso storico.
Ad Alessandria abitavano più ebrei che greci (o orientali parlanti greco). Erano altri tempi, ingiudicabili coi nostri metri.
Come riconobbe Vincenzo Cuoco, uno dei veri padri del Risorgimento, la vera radice del popolo italiano non sta in Roma ma nella cultura della Magna Grecia, quella rappresentata dall’Archimede ucciso dagli invasori romani.
Cuoco scrisse a tal scopo un libro, «Platone in Italia», per educare i patrioti italiani ad un’identità nazionale basata sull’idea antioligarchica della ragione socratica.
Ai tempi di Roma non c’erano giacobini (per fortuna).
Il Rinascimento, la culla della cultura occidentale moderna, fu lo sbocciare dell’antica cultura greca in veste cristiana.
Nel Rinascimento, quando nasce l’idea e la forma dello Stato nazionale moderno, questa poggia sulla legge naturale come fonte del diritto, una legge che, a differenza del diritto romano, poggiante sulla potestà proprietaria del pater familias su cose e individui, afferma l’inviolabilità della persona umana come qualcosa di distinto dagli animali e dotata di scintilla di ragione divina.
Dal Rinascimento in poi, la storia ci mostra lo scontro tra l’idea e le forme di Stato nazionale e l’idea e le forme di oligarchia, che assume le vesti dell’impero: impero veneziano prima, impero anglo-olandese poi, impero della globalizzazione oggi.
Inconfrontabili.
Contrariamente ad una certa storiografia promossa dagli inglesi, la Rivoluzione Americana e la nascita degli Stati Uniti sono un grande successo della corrente nazionale, sviluppatasi sulla base della filosofia platonica di Leibniz.
Benjamin Franklin influenzò anche le reti europee, che tentarono di ripetere l’esperimento americano in Francia con una monarchia costituzionale ma furono sabotate dalla sovversione inglese per mezzo dei Giacobini (logge martiniste guidate da Londra).
Questi rilanciarono l’idea imperiale sul continente con Napoleone, che non a caso faceva grande
riferimento all’idea della Roma imperiale.
Alla fine, l’impero britannico si impose con facilità, costituitosi in forma «privatistica» attorno al sistema della Compagnia delle Indie Orientali, e rappresentante l’Olimpo delle famiglie oligarchiche europee (comprese quelle che avevano parteggiato per i Giacobini, come Necker) per meglio combattere il nuovo nemico rappresentato dagli Stati Uniti.
Lasciò, e vero, un codice che, basato sul diritto romano, è stato il modello delle legislazioni successive dell’Europa continentale.
Il Romanticismo, lanciato dai britannici per distruggere il classicismo europeo, ripropose di nuovo l’idea imperiale romana.
Non c’è bisogno qui di ricordare come essa fosse centrale nelle dittature fasciste.
Blondet. Sul Romanticismo sono d’accordo con te.
Invece, lo Stato nazionale si salvò con Roosevelt (Franklin Delano, non Theodore), che si impose sia sul tentato impero nazifascista che su quello britannico.
Nel tuo libro sulle banche, ma anche in una discussione pubblica che avemmo alcuni anni fa, ho notato un errore di giudizio su Roosevelt.
Lasciamo perdere i «connectos» (come dicono gli americani) con la finanza ebraica e non ebraica, che di per sé non dimostrano niente (il principale avversario di Roosevelt fu J.P Morgan, che tentò anche di rovesciarlo con un golpe).
Mi limito a ricordare Bernard Baruch, suo finanziere e consigliere; Felix Frankfurter, suo giudice della Corte suprema; Henry Morgenthau, suo segretario al Tesoro nonché autore del «Piano Morgenthau», che prevedeva la castrazione di tutti i tedeschi maschi: non proprio un modello di democrazia, ma piuttosto di razzismo.
Limitiamoci alla politica economica di Franklin Delano Roosevelt.
Temo che tu abbia assimilato, senza rifletterci troppo, la critica dei liberisti secondo cui Roosevelt,
con tutto il suo «New Deal», non riuscì a innestare una ripresa «autosussistente» dell’economia.
E’ un’opinione molto diffusa anche tra coloro che simpatizzano con Roosevelt per motivi politici.
Ma chi ha detto che l’economia debba essere «autosussistente»?
I liberisti!
Mi spieghi come fa l’economia, «da sola», a investire il 50% del bilancio annuo nelle infrastrutture, come si dovrebbe fare in un’economia sana?
Mai e poi mai!
Ma i critici di Roosevelt che, per carità, fece sicuramente molti errori, lo sanno che ereditò un’economia distrutta per un terzo dal liberismo dei suoi predecessori?
Che dovette ricostruire tutto, dal sistema bancario all’agricoltura, all’industria, e questo mentre il resto del mondo remava contro e il commercio mondiale stagnava sotto il tallone del sistema
britannico?
Dovette affidarsi completamente al mercato interno, che era virtualmente zero quando entrò alla Casa Bianca.
Blondet. Qui puoi aver ragione.
Resta il fatto che il New Deal non riuscì ad innescare una ripresa economica auto-alimentata dopo la crisi del ‘29 e la recessione seguente (fino al ‘39), e i disoccupati aumentarono enormemente proprio prima della guerra.
L’entrata in guerra fu per Roosevelt una salvezza, la guerra essendo una produttrice di «pieno impiego», a suo modo.
Questa argomentazione va rovesciata: proprio poiché Roosevelt ricostruì l’economia americana, fu possibile per gli Stati Uniti entrare in guerra e sconfiggere il nazismo.
Il successo del modello rooseveltiano si vide dopo, con il sistema di Bretton Woods voluto da Roosevelt, con il quale fu possibile ricostruire il mondo.
Bretton Wood, in sé cosa buona, consentì poi di evitare la crisi post-bellica da sovrapproduzione, facendo dell’America il grande fornitore del mondo «libero», e della ricostruzione in Germania e Italia (poi in Giappone, non prima della guerra di Corea).
Come tu sai, l’industrializzazione degli Stati Uniti avvenne grazie all’applicazione dei metodi anti-imperiali e anti-oligarchici di Hamilton, List e Carey.
Questi metodi includevano la sovranità dello Stato sul credito, affermata ad esempio con la Banca Nazionale di Hamilton.
Roosevelt, pur non ricorrendo all’emissione diretta, applicò gli stessi metodi creando credito dello stato per sviluppare le infrastrutture e l’economia al servizio del Bene Comune.
Quando gli USA furono pregati dalla Gran Bretagna di allearsi nella guerra contro il nazi-fascismo, Roosevelt gliela cantò chiara a Churchill: dopo la guerra, gli Stati Uniti non avrebbero più tollerato il sistema coloniale britannico nel mondo.
E così fu, purtroppo solo inizialmente, perché i successori di Roosevelt, aderenti essi stessi all’idea oligarchica, cominciarono a ribaltare le sue politiche.
Rimando al mio «Schiavi delle Banche».
Come tu sai, oggi l’idea rooseveltiana, l’idea del Sistema Americano anti-oligarchico e dello Stato nazionale sovrano, è rappresentata negli USA e nel mondo da Lyndon LaRouche.
Contrariamente a quanto raccontano certi nostri amici, il movimento di LaRouche non è finito ma è più forte di prima.
Un esempio è l’impatto che sta avendo la nostra proposta di legge per erigere una «muraglia» (firewall) tra le banche e gli hedge funds e congelare i mutui ipotecari, per riorganizzare l’intero sistema finanziario.
Bruto il pugnalatore di Cesare era un usuraio…
Oggi l’idea dell’impero è perseguita dall’oligarchia nella forma di un governo mondiale non più centrato su una nazione ma sulle banche, o meglio sui Fondi, versione moderna del sistema della Compagnia delle Indie Orientali.
Il loro obiettivo sono le istituzioni degli Stati nazionali, le costituzioni, i parlamenti, gli imperfetti sistemi rappresentativi che si vogliono «riformare» non per farli funzionare meglio ma per eliminarli.
Istituzioni pseudo-legali che funzionano a beneficio del profitto puramente finanziario.
Se vogliamo fermare questo disegno dobbiamo capire che esso affonda le sue radici anche nella storia di Roma e nel flagello che l’impero romano rappresentò per la stragrande maggioranza dell’antichità - ad eccezione di quella cerchia limitata di «economia dei servizi» che aveva abbandonato le campagne (la produzione) e viveva a Roma col frutto del saccheggio delle
colonie.
Inutile porre l’alternativa tra impero romano e barbari (tra Bush e bin Laden): era un sistema condannato al crollo così come sta crollando oggi, ora, sotto i nostri occhi, il moderno sistema della globalizzazione anglo-olandese.
Il richiamo a Roma è essenzialmente il richiamo al diritto «per le genti» (i diritti anche per gli arabi, per i palestinesi), violato dalle entità sovrannazionali e dai poteri forti neocon.
E soprattutto, era un sistema anti-italiano.
Dunque, rilanciamo l’idea del Rinascimento, rilanciamo Cusano e il Platone in Italia di Cuoco, rilanciamo la tradizione anti-oligarchica e non quella imperiale.
Con affetto,
Claudio Celani.