Tregua. Lavanda e magnolia
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Un po’ di tregua dagli eventi. Da settimane, persino nell’improbabile periferia ex-industriale dove vivo, Corsico, è fiorita la lavanda. Ce n’è una siepe intera, tutta scarruffata e ronzante di bomboli ed api, che spiega la sua grazia davanti alla orribile chiesa di cemento a vista dove sopporto il ricorrente vilipendio della Messa; e ogni volta non resisto alla tentazione di cogliere un paio di quelle spighe grigio-azzurre e strofinarle fra le palme, per spremerne il profumo. Ogni volta la sua intensità mi meraviglia: com’è possibile? Perchè tanta gloria e dolcezza?

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La spiegazione biologica funzionalista, corollario dell’evoluzionismo – ossia che il profumo «serva» ai fiori per attrarre gli insetti impollinatori – mi pare ridicolmente monca. Per attrarre le api, benedette, basta un qualunque aroma; anzi basta una bacinella d’acqua zuccherata, è proprio così che apicoltori di pochi scrupoli le mettono a produrre un miele senza qualità. Voglio dire: il profumo della lavanda è troppo per gli insetti impollinatori, troppo significativo. Del resto, perchè fermarsi nella teoria funzionalistica adattativa, agli insetti? Perchè non estenderla a gradini alquanto più alti della scala zoologica? Magari, la lavanda ha «evoluto» quella sua fragranza allo scopo di attrarre gli esseri umani, farsi prediligere da fanciulle e massaie come fragranza da mettere dietro l’orecchio o tra la biancheria negli armadi, e farsi da loro coltivare e diffondere così la sua discendenza genetica attraverso questa, diciamo, simbiosi con l’umanità.

Ciò può esser detto di molti altri vegetali, dai castagni ai broccoli, dagli ulivi al lino; ed anche di specie animali (mi è difficile pensare a come vivessero gli antenati delle pecore, così inermi, prima dei pastori e dei cani da pastore a difenderli; inermi certo sfavoriti nella lotta per esistenza; e forse il loro vantaggio competitivo consisté nel loro vello soffice e facile da strappare con le mani – caso unico fra gli animali – così straordinariamente utile per l’unico bipede senza pelo?).

È scientificamente pacifico il rapporto tra api e fiori, come necessari gli uni alle altre; si ammette senza scandalo che certi uccelli diffondano certe specie arboree mangiandone i frutti ed espellendone i semi con le loro deiezioni; e in generale, è ammissibile dire che il Systema Naturae intero è un armonico tutto di inconscie collaborazioni e simbiosi fra microgranismi e pluricellulari, fra vegetali e animali, una immensa nicchia ecologica olistica che diffonde energia attraverso i regni del vivente. Ma se si prova ad inserire la specie Homo in questo quadro, insinuando che certe piante o animali, per perpetuarsi, attraggono il suo senso del bello o la sua capacità di affetto – insomma la coscienza del solo essere auto-cosciente – allora c’è il rifiuto. E si può intuire il perchè; si teme che, concedendo questo, di insinuare una antropomorfizzazione della Natura, un finalismo e magari – Darwin non voglia – di qualcosa di provvidenziale. La Natura deve mantenersi cieca nei suoi automatismi: la lavanda emana il profumo per attrarre le api; ma l’uomo? Ohibò.

E invece provo a prendere questa via fino in fondo. Proprio i profumi dei fiori incitano a questo «oltre», perchè la loro natura non è confinata all’utilità, per esempio, del frumento, delle spinaci o delle ciliegie che si mangiano; il profumo non riempie lo stomaco, ma manda messaggi. Non sazia, ma parla. Risveglia memorie dal profondo (è inutile citare Proust e l’odore della madeleine, quel sentore di mandorla amara che scatena la Ricerca del Tempo Perduto). Insomma, da una parte il profumo è superfluo, come un dono gratuito e fastoso; dall’altra, sollecita facoltà che solo l’uomo possiede; si rivolge a lui e chiede di essere capito. Ed è, tuttavia, sfuggente e indecifrabile. Gli odori, non si possono descrivere a parole.

E non è generico «profumo»; sono intere tavolozze che modulano e comunicano, la distesa ginestra e il narciso; la rosa eccessiva, l’elitropio e il giglio, l’elicriso amaro e il mandorlo dicono qualcosa ciascuno a suo modo. Apri un cassetto, e lo stinto esalare di un rametto di mimose quasi in polvere sommuove amori dimenticati, apre ferite che credevamo rimarginate; una mammola fra le pagine di un libro può farci riapparire, come spettri familiari, irrimediabili assenze.

Faccio un altro esempio. Qui sono in fiore anche due grandi magnolie, che ricoprono con la loro chioma i cespi di lavanda. Quando nessuno mi vede, affondo il nasone in una di quelle corolle d’avorio per captarne l’aroma, un quasi impercettibile, lontano sentore di fiori di agrume, estremamente fine. Dovrà attrarre insetti impollinatori, la magnolia? Forse. Ma se faccio due passi indietro e guardo la pianta, quelle perfette foglie verde-scuro che sembrano lucidate ad una ad una, fra cui si aprono rari quei fiori meravigliosamente carnosi, mi domando: le api, sono in grado di vedere questa bellezza? Di farsene attrarre? Più che bellezza: il profumo del fiore è esattamente, perfettamente coerente con quella dura, lucida bellezza; è come una aristocratica Geisha, distante ed altera, chiusa nel suo kimono. Per fortuna, sotto, la lavanda spande senza risparmio, felice e solare, il suo odore pulito, forte e semplice, cordiale e popolare.

In breve, mi sono convinto – oso dirlo – che i fiori profumati sono fatti per noi. E non solo perchè li mettiamo nella biancheria o li regaliamo alle amate in boccette costose e preziose. L’uomo è il solo animale che abbia fame di un cibo che qui non esiste, il solo cui la morte non sembra naturale per sè. E se i fiori ci fossero dati per darci un anticipo – ahimè evanescente – della felicità indicibile cui siamo chiamati, dell’Amore da cui saremo circondati? Per dirci che quel cibo che la natura non produce, esiste in un’altra parte? Se fossero così per invitarci a coltivare in noi, in questo mondo sgangherato e malvagio, pieno di affanni e di miasmi, le speranze celesti? Se fossero il dono di una breve tregua dalle nostre angosce, un lenitivo del cuore in guerra?

Lo so, esagero. Ma ricordiamoci che molti (altri no) sentivano un odore di violette quando passava Padre Pio, e di violette sentivano le garze con cui copriva le stimmate: le vergini violette dell’immortalità.