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Bernanke ha un vero amico: Pechino
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Cè ancora un grosso compratore convinto di fare buoni affari accumulando dollari.

Uno che continua a comprare a man bassa Buoni del Tesoro in dollari e persino i più loschi «prodotti strutturati» con mutui in dollari.

Questo compratore, che sostiene gli USA dalla bancarotta (o almeno ci prova), è la Cina.

Secondo i dati del Tesoro USA, la Cina (esclusa Hong Kong) deteneva, a luglio 2006, 700 miliardi di dollari in titoli del debito americano a lungo termine.

Di questi, 107 miliardi erano «agency bonds», ossia pacchetti formati da mutui «garantiti» (più o meno) da qualche entità pubblica statunitense.

La Cina ha comprato titoli a lungo termine per 2,5 miliardi di dollari a luglio 2007, ne ha comprati ancora 2,7 miliardi ad agosto quando è scoppiata la bolla dei sub-prime, e addirittura 8 miliardi a settembre, quando le colossali dimensioni del crack subprime erano ormai note a tutti.

Il comportamento appare anche più strano se si tiene conto che nel 2002 la Cina acquistò non più di 100 milioni di questi titoli fatti di mutui.

Nel 2006, ne aveva 107 miliardi: un aumento del mille per cento.

Più la crisi subprime avanzava, più rapidamente Pechino comprava.

A questo accumulo di debito USA va aggiunto quello di Hong Kong: la città aveva, a giugno 2006, 13,4 miliardi di titoli USA, di cui oltre 5 miliardi in mutui confezionati.

L’esposizione della Cina al rischio dei mutui americani è a questo punto enorme.

Perché Pechino ha continuato ad accrescere questa esposizione in modo così continuo e accelerato?

La Cina tace su questa questione, e ciò aggiunge mistero a mistero: come un giocatore d’azzardo intrepido, il colosso asiatico punta sempre più alto su una roulette che tutti stanno abbandonando. Lasciando gli astanti a chiedersi: quanto ha già perso il giocatore, e quanto è disposto a perdere e a rischiare ancora?

Forse, Pechino non ha altra scelta che questo gioco forte: è necessario per mantenere bassa la sua valuta rispetto al dollaro, mentre sta accumulando troppi dollari con le sue esportazioni.

Un diluvio di dollari, per investire i quali non ci sono mercati abbastanza grossi tranne quello immenso del debito USA.

Pare che dall’Europa siano venuti inviti a Pechino a non provocare una ulteriore pressione al rialzo sull’euro, acquistando euro contro dollari: il gigante è troppo grosso, appena si muova crea tempeste, appena investe in un mercato lo fa apprezzare in modo insostenibile.

D’altra parte, l’America continua ad importare dalla Cina ad un ritmo elevato, per cui la Cina continua ad accumulare dollari su dollari; se diversificasse parte di quella montagna  in euro o altra valuta, l’effetto sarebbe di provocare un ribasso del dollaro e dei titoli in dollari di cui ha piena la cassaforte di Stato.

 

Nella politica americana, le voci che chiedono misure protezionistiche contro lalluvione di merci cinesi diverrebbero più forti e ascoltate.

Mantenere il tasso di cambio attuale fra dollaro e Renminbi - tutto a favore della Cina, che tiene la sua divisa svalutata per accrescere la sua competitività - diverrebbe politicamente difficile.

Più accumula dollari, più per la Cina cresce l’incentivo a sostenere il dollaro, anche  comprando titoli dubbi.

Dopotutto, quelli danno pur sempre un interesse piuttosto alto.

Se se ne liberasse troppo visibilmente, la Cina ne farebbe cadere i corsi, svalutando ancor più le sue riserve.

Pechino non può permettersi di perdere il suo più grosso cliente, anche se è il più indebitato:

i contraccolpi sull’occupazione sarebbero drammatici, tanto più che già adesso il costo del lavoro sta rapidamente crescendo.

Per garantire la pace sociale, il governo cinese ha varato una legge sui contratti di lavoro che entrerà in vigore da gennaio: essa, per la prima volta, definisce i diritti dei lavoratori riguardo a straordinari, pensioni, licenziamenti, e persino a rappresentanze sindacali.

Se non resta lettera morta, questo insieme di regole rincarerà la manodopera cinese del 20-30%.

Già diversi investitori di Taiwan ritengono che il costo sia ormai troppo alto, e se ne stanno andando, specie quelli che avevano impiantato piccole imprese.

Insomma, secondo ogni evidenza Pechino sta accettando perdite crescenti per scongiurare perdite ancora maggiori, al punto da gettare i dollari guadagnati con l’export, in buona parte, per sostenere il mercato immobiliare USA.

E tace, perché non sa cos’altro fare, non avendo per ora altre opzioni più desiderabili.

Spera di guadagnare tempo.

Pechino è condannata ad aiutare Washington, il venditore planetario a finanziare il cliente globale. USA e Cina sono legate, improbabili amanti, dallo stesso nodo: ma non è un nodo d’amore, bensì  scorsoio.



(Fonte:
Max Fraad Wolff, «Sino silence in subprime swamp», Asia Times, 14 dicembre 2007)


 
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