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La depressione a rovescio
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Anche un quarto di secolo fa, nel 1982, cominciò un periodo di crisi e recessione globale.
Allora, scoppiò per cause opposte a quelle d’oggi: per il «rialzo» del tasso d’interesse cominciato dagli USA, unito al «deprezzamento» delle materie prime, petrolio in testa.
I Paesi del terzo mondo furono schiacciati: il costo del loro debito aumentava, e il calo delle materie prime che vendevano rendeva impossibile rimborsarlo.

Non a caso una serie di crack riguardarono il sud del mondo: crisi messicana (1994-95), crisi del Sudest asiatico (‘98), poi Brasile (‘99), Turchia, (2000); la crisi argentina, con la relativa insolvenza e azzeramento dei tango bond, la ricordano ancora tanti risparmiatori italiani.
In Russia c’era stata la bancarotta del rublo.

Ognuna di queste crisi fu innescata dalla speculazione «alla Soros» contro le monete deboli di quei Paesi, e dai capitali di ventura che, affluiti i massa in quelle economie emergenti, le abbandonarono di colpo lasciandole in secca.
Per andare a «rifugiarsi» nelle aree ad alto tasso d’interesse e più affidabili: l’Occidente sviluppato.

La crisi attuale invece è esplosa proprio nell’Occidente sviluppato, a cominciare dagli USA nell’agosto 2007 (la più grande economia planetaria) e colpisce le entità finanziarie private, banche e speculatori del Nord del mondo: che per via dei bassi tassi d’interesse hanno espanso il credito fino ai demenziali «subprime».
E questa volta, i capitali in fuga partono dal Nord per rifugiarsi nei mercati azionari di Cina, India e Brasile, ritenuti più solidi.
Al punto che l’India minaccia misure per limitare l’accesso dei capitali esteri, che fanno apprezzare la rupia.
Il Sud del mondo comincia a guardare con occhio critico la dubbia benedizione della «libera circolazione di capitali» superflui, troppo mobili.

Si aggiunga che le materie prime e i beni agricoli di base, contrariamente agli anni ‘80, sono in forte rincaro dal 2004.
Ciò permette ai Paesi «emergenti» o in sviluppo di accumulare con le esportazioni forti riserve valutarie.
Ciò vale per i Paesi petroliferi, ma anche per certi Paesi agricoli, e per la Cina che esporta beni industriali.
I «ricchi» oggi sono i poveri: quei Paesi detengono a fine 2007 qualcosa come 4.600 miliardi di dollari (quasi la metà li detiene la Cina), mentre il Nord industrializzato dispone di meno di un terzo di tale cifra in riserve.

Come usano le loro riserve i nuovi ricchi?
In gran parte prestandogli agli USA.
Specie la Cina che, con l’acquisto di Buoni del Tesoro americano, presta al suo cliente maggiore e più indebitato i soldi per continuare a comprare le sue merci, con ciò mantenendo basso anche il cambio dello yuan sul dollaro.

Altri Paesi hanno rimborsato in anticipo i loro debiti col Fondo Monetario, la Banca Mondiale,
il Club di Parigi (il gruppo di nazioni occidentali che prestavano ai «poveri») e ai banchieri privati occidentali.
Il vecchio mezzo di ricatto della finanza occidentale al terzo mondo - accetta «ricette di risanamento», taglio di spese per usi interni e infrastrutture, esporta di più a prezzo competitivo (ossia basso) così potrai «servire» il debito (senza mai estinguerlo) - è venuta meno.
E’ venuto meno il principale mezzo di controllo del Nord sulle materie prime del Sud.

Anzi: diversi di questi governi, col loro surplus di dollari, hanno creato «Fondi Sovrani» (di Stato) con cui comprano imprese e banche nei Paesi del Nord, approfittando dei crolli azionari dovuti alla crisi.
Il più grosso fondo sovrano pare essere quello del piccolo Abu Dhabi, che alcuni stimano in oltre 800 miliardi di dollari; seguono Kuweit, Cina, Singapore e Russia.
Ma anche la Libia ha creato un fondo sovrano da 40 miliardi di dollari, e così il Venezuela. Nell’insieme, gli ex «poveri» dispongono di una cassa da 2 mila miliardi di dollari.
Per acquisti a prezzi di liquidazione delle perle del Nord, come il fondo Temasek di Singapore che ha acquistato una quota rilevante di Citigroup e MerrilLynch.

Non avviene dunque più come dopo il 1973, quando i Paesi petroliferi con troppi dollari li riciclavano prestandoli alle banche del Nord, dalle quali poi si lasciavano indebitare, nell’illusione che la finanza occidentale fosse più competente a far fruttare i capitali.
Ora hanno imparato in proprio.
La politica del capitale non è più abbandonata alla «mano invisibile», ma è un’impresa di Stato.

Se la crisi diverrà depressione, è possibile che gli Stati con fondi sovrani - finalmente - decidano di investire nelle strutture sociali interne, aumentando il potere d’acquisto dei loro lavoratori malpagati, ridistribuendo al lavoro un po’ della ricchezza che il capitale ha rubato in questi anni. Keynesismo giallo o bruno.
Lo vedremo?

Già in Sudamerica è nata la Banca del Sud, con cui Argentina, Venezuela, Brasile, Bolivia, Ecuador, Paraguay e Uruguay progettano di finanziare la loro integrazione regionale (sul modello europeo) e progetti sociali.
Una tensione s’è già creata all’interno: Argentina e Brasile pensano ad imprese capitaliste private regionali, Venezuela ed Ecuador e Bolivia si lanciano a immaginare uno «strumento di finanziamento di politiche sociali, economiche e culturali che rompano con la logica del profitto per applicare i diversi patti che garantiscano i diritti civili, politici, economici, sociali e culturali». Sulla carta è bellissimo.

Resta da vedere se il pressapochismo sudamericano non tradurrà questa utopia in un «socialismo di consumo», con paghe «eque» finanziato dal petrolio, che spariranno quando il petrolio mancherà.
Suggerisce questo esodo infausto non solo il chavismo (da Chavez), miscuglio di Bertinotti e Zapatismo, ma un fatto preciso: il debito pubblico interno di questi Paesi è aumentato enormemente, più del debito esterno.
Nel 1998, le due voci si pareggiavano; oggi il debito pubblico interno è il «triplo» del debito pubblico estero.
Segno di spese pubbliche a scialo, demagogiche e insostenibili.

Inoltre, secondo la Banca Mondiale, il «servizio» del debito estero di questi Paesi ex poveri sta tornando a rincarare.
Per l’insieme dei Paesi emergenti o in sviluppo, la rata annuale (rateo di restituzione più interessi) ha toccato nel 2006 e 540 miliardi di dollari.
Anche se la percentuale del debito pubblico estero rispetto al PIL migliora, il volume dei rimborsi aumenta.
Si aggiunga il debito pubblico interno, anche quello a carico del bilancio dello Stato: insieme, le due voci pesano sulle economie del Terzo Mondo per 100 miliardi di dollari annui.

Siccome i poveri sono diventati «ricchi» col rincaro delle materie prime, le grandi banche private dell’Occidente sono corse a prestare a man bassa alle imprese private del Terzo Mondo.
Risultato: in due anni, dal 2004 al 2006, il debito estero delle imprese e delle banche private in quei paesi è aumentato del 37%, da 664 a 911 miliardi.
Ovviamente, ciò è stato possibile dai bassi tassi nel Nord, che hanno innescato la bolla del subprime oggi scoppiata: le banche occidentali prendono a prestito al Nord a basso tasso e a breve, e investono nel Sud del mondo ad alto tasso e a lungo termine.

Ora che la recessione bussa agli USA e in Europa, e la voglia di prestare a vanvera viene meno, si rischiano collassi a catena delle banche private dei Paesi in via di sviluppo: anche questi debitori sono, in fondo, dei sub-prime che rischiano l’insolvenza.
Sono possibili crisi come l’Argentina 2001.
E quindi, il debito privato diventerà il debito pubblico di domani, esattamente come in Gran Bretagna il collasso della Northern Rock lo pagano i contribuenti tutti, tramite nazionalizzazione della banca fallita.

Il fatto che il prezzo delle materie prime resti alto consente alle imprese minerarie dei Paesi terzi, che si sono indebitate per aumentare la produzione di petrolio e metalli rincarati, di «servire» il debito.
Ma possono diventare insolventi se si instaura la depressione, e le materie prime calano.
Dato che il capitalismo globale è ormai una carcassa, non è strano che gli avvoltoi prendano il volo.

Nei Paesi ex-poveri, o ancora poveri (gli africani) sono all’opera i «fondi avvoltoio»: sono fondi d’investimento privati che comprano debiti di questi Paesi, sul mercato secondario e a prezzi da fallimento, e poi intentano azioni giudiziarie per reclamare il rimborso del debito integralmente, anzi aggravato dagli interessi di mora.
Per quanto incredibile, la suprema corte di Londra ha condannato lo Zambia a pagare 17 milioni di dollari ad un fondo, Donegal, che aveva raccattato il debito per 3 milioni di dollari nel ‘99.
Il fondo americano Kensington pretende dal Congo-Brazzaville 400 milioni di dollari per un debito comprato a 10 milioni.
E’ probabile che i tribunali americani daranno ragione al fondo.

E i Paesi devono pagare: altrimenti, il «diritto globale» commerciale vigente ha il potere di escluderli dal mercato-mondo per ritorsione, e di imporre sanzioni e multe.
Attualmente sono in corso non meno di 40 processi contro venti Paesi, per lo più in Africa ma anche in Sudamerica.

Dunque il boom globale innescato dal credito facile ha divaricato ancora di più il cosiddetto «Sud del mondo».
Ci sono ex-poveri, ed ancora poveri, specie in Africa.
E i Paesi come la Cina, che dal boom hanno avuto il successo, hanno cominciato a prestare sempre più agli «ancora poveri».
Tra il 2004-2006, le banche cinesi (pubbliche o pseudo-private) hanno prestato 2 miliardi di dollari a Paesi sottosviluppati ma con riserve di gas e petrolio.
India, Brasile e Sudafrica hanno cominciato a fare lo stesso: ovviamente per garantirsi le materie prime di quei Paesi, e per vendere loro le loro merci e servizi a credito.
Dai governi «ancora poveri», questi prestiti (dati senza condizioni moralistiche ai dittatori locali) sono un temporaneo sollievo.
Questi Paesi sono già indebitatissimi con le banche occidentali a tasso variabile.

Il tasso di riferimento è infatti il Libor, l’interesse a cui le banche di Londra si prestano l’un l’altra il denaro a brevissimo.
Ora, tutti i prestiti al terzo mondo sono al tasso «Libor più x».
Per esempio, «Libor più 3».
Quando il Libor è al 4,5%, i Paesi poveri pagano il 7,5%.

La crisi dei subprime ha innescato una spaventosa crisi di sfiducia reciproca tra le banche occidentali, con le loro voragini di crediti andati a male: non si prestano più il denaro fra loro, se non a tassi proibitivi.
I Paesi poverissimi si trovano schiacciati dall’aumento del loro rateo, vittime della situazione creata dalle stesse banche occidentali.
E non importa se Ben Bernanke abbassa i tassi per ridare fiato alla finanza speculativa: i tassi sono bassi in USA, ma per i poveri vale il Libor, che schizza in alto.
Stati interi, senza loro colpa, diventano debitori sub-prime, o devono dar fondo alle loro riserve accumulate col rincaro delle materie prime esportate.

I prestiti cinesi possono sembrare una panacea.
Ma nulla garantisce che Pechino sarà un creditore più benigno degli speculatori occidentali.
I Paesi più vulnerabili rischiano di entrare in una nuova dipendenza, non necessariamente migliore di quella di prima.
La solidarietà Sud-Sud suona bene nei discorsi di Chavez, nelle canzoni di Bono e negli slogan dei no-global; ma non si instaurerà senza istituzioni ad hoc, e senza una volontà politica generale di mettere il capitale al servizio degli esseri umani, e non il contrario.


(Fonte: Eric Toussaint, «Différences entre la crise de la dette 1982 et celle 2007-2008», Mondialisation, 4 febbraio 2008. Eric Toussaint è il presidente del CADTM, «Committee for the abolition of third world debt»).

 

 
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