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Più tagli alla «cultura», per favore
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Un lettore scrive:

«Leggo con stupore che al test promosso dallOCSE a Pisa, che ai primi posti nei test di lettura, scienze, matematica, ci sono solo gli studenti quindicenni di Shanghai. I ragazzi italiani compaiono tra i primi trenta solo nella classifica sulla abilità di lettura, ventinovesima per la precisione. Il motivo di tale supremazia va ricercato nella volontà del Partito Comunista di creare il laboratorio dove sperimentare le riforme cinesi, cioè Shanghai appunto, creando un sistema educativo dove gli studenti abbiano performance ad alto livello, chiudendo le scuole che non sono efficienti per garantire il target prestabilito, forse per la futura sfida che gli aspetta di una superpotenza economico-finanziaria dopo la caduta dellimpero anglo- americano-sionista. Difatti vediamo che laristocrazia ebraica si sta spostando verso il dragone man mano che si allontana dal vecchio ed obsoleto servitore. A parte la divagazione fuori dal vero problema che ci riguarda, vorrei mettere in evidenza un fatto che riguarda il nostro governo e precisamente i fondo per listruzione, che reduce dalla prova dellOCSE, mostra chiaramente il bassissimo livello della qualità del nostro sistema scolastico. A rigor di logica è uno di quei rami che automaticamente viene colpito in seguito ad una crisi economica dove lo Stato per far fronte alle mancate entrate deve rispondere con tagli alla spesa. Ma il sistema adottato è fuorviante come il cane che si morde la coda, perché si crea un circolo vizioso che si avvita su se stesso e non ci si esce più fino a toccare il baratro. Come dice lei benissimo, è necessario riappropriarsi della nostra sovranità, del nostro Stato come nazione, ritornare alla lira, o a unaltra moneta ma non certo alleuro, alzare le barriere del protezionismo, con dazi doganali per le merci importate onde evitare loutsourcing in atto, e lo smembramento del tessuto manifatturiero, fiore allocchiello del nostro Paese, senza tralasciare forse la più importante in quanto ci continua a fornire nutrimento da millenni, e cioè lagricoltura e lallevamento, oggi sottovalutati volutamente per favorire le multinazionali dei sementi e dei concimi chimici. Indirizzare gli investimenti nelle infrastrutture, e nelleconomia reale, invece che, come funziona oggi, a quello finanziario che non ha niente di sottostante al contrario delleconomia produttiva. Inoltre, quello che mi preme di più, sempre per ricollegarmi al test dellOCSE, investimenti per la ricerca e listruzione seguendo il metodo cinese, senza però arrivare allestremismo assoluto imposto dal regime, che si comporta come se le persone fossero una sua proprietà. La contraddizione che stiamo vivendo sta appunto negli investimenti allinsegnamento scolastico, che vede da una parte tagli sostenuti, e dallaltra, invece, lo scorso tre dicembre, il governo Berlusconi ha mandato in Senato a firma del ministro dellIstruzione, dellUniversità e della Ricerca, Mariastella Gelmini (fedelissima berlusconiana) le scelte del ministero e dellintero esecutivo per finanziare in ogni settore la ricerca: dalla scienza alle lettere, dalle arti alla tecnologia. La somma trovata, pur fra le pieghe dei tagli imposti da Giulio Tremonti, è rilevante: un miliardo e 754 milioni di euro. Ed è anche più alta di quella proposta lanno precedente (era un miliardo e 628 milioni di euro), contrariamente a quel che si dice in convegni non solo delle forze di opposizione. È in quel fiume di fondi pubblici che spunta una decisione piccola ma importantissima per la comunità ebraica: il fondo governativo per la ricerca ha deciso di finanziare un progetto che il CNR ha siglato con lUnione delle comunità ebraiche italiane - Collegio rabbinico nazionale (1). Si mette a disposizione un milione di euro per il 2011 e se ne garantiscono già altri quattro milioni fino al 2015 (qualsiasi governo sarà tenuto a rispettare la decisione) per la traduzione integrale in lingua italiana, con commento e testo originale a fronte, del Talmud, opera fondamentale e testo esclusivo della cultura ebraica. Grazie per la disponibilità,
Andrea
».



L’ultimo caso citato dal lettore dimostra che i tagli alla cultura, contro cui manifestano orde di studenti, direttori d’orchestra ed orchestrali, ballerine, attori e la sinistra in blocco, non sono stati abbastanza. Bisognava tagliare di più, molto di più. Ma del disastro irrecuperabile della scuola italiana, che sforna diplomati incapaci di leggere un testo di due cartelle e laureati con saperi che una volta si raggiungevano al ginnasio, non diamo colpa alla lobby. Il disastro ce lo siamo procurati tutto da soli: dal famoso ‘68. Fu allora che s’impose con travolgente successo l’idea che uguaglianza significava che tutti avevano il diritto di frequentare la stessa scuola, con lo stesso programma, per diventare poi tutti laureati. L’università di massa fu salutata come una grande vittoria sociale, contro la precedente e reazionaria università per pochi.

Che anni formidabili, caro amico. Che entusiasmanti lotte studentesche, che epiche okkupazioni per il diritto allo studio; bandiere rosse, ritratti del Che e di Mao, e ci fu anche la conquista del voto politico: sufficienza garantita sulla pagella e sul libretto. Professori e politici, tremebondi o demagoghi, diedero quel che i rivoluzionari volevano. Pochi avevano il coraggio di eccepire che un’università di massa è una contraddizione in termini.

Fra i pochi ci fu lo scrittore Eugène Jonesco. Gridò agli studenti del Maggio Francese che, convinti di essere i protagonisti della rivoluzione culturale, sfilavano tra bandiere rosse sotto le sue finestre: «Finirete tutti ragionieri!».

Col senno di poi, dobbiamo concludere che era un profeta: quei rivoluzionari studenteschi volevano proprio questo, diventare tutti ragionieri. Ossia tutti impiegati, dietro una scrivania, lavoro pulito e stipendiato regolarmente. Tutti in ufficio. E’ quel che chiede, che esige, anche la generazione presente dei rivoluzionari studenteschi, figli dell’università di massa: titoli di studio che diano posti da impiegati. Ragionieri è perfino troppo; dal fatto che scelgono di preferenza Scienze politiche, Scienza delle comunicazioni,Lettere moderne, al massimo Giurisprudenza (dove il Diritto Romano è diventato un esamino complementare) e in genere materie umanistiche (ossia senza algebra, matematica superiore, fisica subatomica), e continuino a farlo nonostante il livello infimo che hanno raggiunto queste materie nei nostri atenei, si capisce che quel che la maggioranza vuoledall’università è un’infarinatura culturale, sufficiente per aspirare a un posto fisso come impiegato d’ordine. Nobilitato dal titolo di dottore.

Un sogno tutt’altro che rivoluzionario. Anzi, piccolo borghese, di una sinistra di borghesi piccoli piccoli.

Guardi che non sto esagerando. Tempo fa visitai un istituto tecnico-industriale tenuto dai Salesiani a Udine: istituto d’eccellenza, con officine ed attrezzature avanzatissime, i cui diplomati, appena usciti, le aziende se il contendevano. I bravi salesiani mi raccontarono che il Comune, ovviamente di sinistra, faceva una lotta accanita alla loro scuola: la bollava come scuola di classe, in quanto sfornava operai, ancorchè specializzati. Un piccolo esempio di come l’ideologia di sinistra coltivi un profondo disprezzo per loperaio in quanto figura sociale; non ne riconosce la dignità (se non propagandisticamente), anche quando è il lavoro di artigiani d’alta qualità e di tecnologi su macchinari computerizzati e modellisti CAD-Cam; tutti i lavori che operano sulla materia, anche ai livelli più raffinati, sono disprezzati come manuali. Fra l’altro, senza sapere che oggi queste classi di lavoratori sulla materia non hanno più le mani sporche di morchia, ma operano in camice bianco davanti a uno schermo. Il che la dice lunga sul grado di cultura generale di questa gente che non vuole i tagli alla cultura, ossia vuol mantenere l’università così com’è.

Il fatto è che non ci sono tutti quei posti da impiegati con titolo di dottore. Specie per dottori generici, che escono laureati senza sapere una lingua come oggi si esige (a livello madrelingua), e non sanno scrivere un rapporto senza errori di ortografia, e comunque di una piattezza mortale, senza un guizzo di idee e di analisi creativa. Resi così da cattedratici marpionissimi che (salvo eccezioni) da un trentennio intendono la autonomia universitaria come lo smettere di studiare appena raggiunta la cattedra, e come la falsificazione dei concorsi per mettere in cattedra figlie e amanti. E’ chiaro che simili marpioni impartiscono – o meglio fanno impartire da precari detti ricercatori, loro schiavi da vent’anni, che si lasciano sfruttare perchè si sanno inoccupabili altrove – insegnamenti generici e banali, libreschi, spesso invecchiati rispetto allo stato dell’arte o della scienza vigente altrove (USA, Germania, Finlandia) e dunque inutilizzabili nel mondo del lavoro, quello vero. Docenti e cattedratici sconosciuti all’estero, che da decenni non pubblicano niente che venga segnalato altrove: e questa è la cultura che le masse studentesche, i ricercatori vogliosi di sanatoria e posto fisso, e la sinistra mediatico-politica difendono a corpo morto. In perfetta malafede: come quando strillano che il ministro Bondi (Beni culturali) deve dimettersi perchè è crollato un muro del 1947 a Pompei, e quando strillano che Tremonti non ha cultura perchè ha detto che La cultura non si mangia – il che è vero: la cultura come la intendono costoro è un costo sociale, un peso morto per la comunità. Un ramo secco da tagliare.

Perchè non ci sono tutti questi posti da impiegati, nonostante in Italia si laureino meno giovani che in tutto il resto del mondo, a parte l’Africa. Questi laureati generici sono sempre troppi. Disoccupati in quanto non-impiegabili. Perchè la nostra università, benchè proclamata di massa, mantiene la schifiltosità pseudo-aristocratica (da Accademia secentesca) di impartire una cultura indifferente al fatto che, per tali acculturati, ci sia un mercato, ossia un bisogno nella società. Ci sono invece 400 mila posti per diplomati (tecnici, artigiani, infermieri, infinite mansioni della moda e del made in Italy, eccetera) che non vengono coperti perchè non si trovano giovani con tali competenze e capacità pratiche.

Fra l’altro, le scuole che insegnano questi mestieri e competenze richieste dal mercato e dalla società sono – in quanto disprezzate socialmente – ritenute scuole di ripiego, e frequentate da giovani che non ce la fanno ad andare al liceo; giovani quindi frustrati da insuccessi scolastici, con poca voglia di imparare qualunque cosa, e di qualità umane forse inferiori.

Il che è un danno nel danno sociale enorme prodotto dall’istruzione italiana. Perchè proprio lì dovrebbero andare i migliori, onde mantenere l’eccellenza tecnico-artistica di cui l’Italia è stato il faro per secoli.

L’Italia ignorante, ossia quella che strilla per i tagli alla cultura, non pensa mai che Leonardo e Michelangelo, prima di essere artisti supremi, sono stati artigiani, ed hanno imparato il mestiere in bottega da maestri esperti, cominciando col macinare i colori. Che Cellini era anzitutto un orefice. Che le corazze da parata ageminate comprate a peso d’oro dai re di Francia erano opera di battilama metallurgici milanesi, che avevano bottega in via Spadari e in via Speronari. Non sanno che i velluti di cui vediamo vestiti nei quadri i grandi rinascimentali di mezza Europa, furono un’invenzione italiana, di artigiani. Che i capitelli, i marmi e gli ornamenti delle nostre chiese storiche sono opera di centinaia di officine, che non si trovano più – ed è anche questa una delle ragioni per cui le chiese moderne sono fredde e morte. E chi credete che fosse il fondatore della Ferrari, se non un meccanico? Oggi, i grandi sarti sono disperati perchè le ultime vecchie ricamatrici vanno in pensione, e non ne trovano di giovani. Ma lo stesso vale per periti chimici, meccanici fini, modellisti...

E’ questa la tragedia nella tragedia, danno collaterale dell’università di massa e dall’aspirazione di massa ad una cultura da impiegati: che le competenze difficili del saper fare, che si trasmettono solo per affiancamento dell’apprendista al maestro, se ne vanno e non tornano più.

A queste mie notazioni, dei giovani mi hanno detto: Per forza non si trovano apprendisti, gli artigiani pagano poco. Pagano poco all’inizio. Ma se fate gli impiegati, ammesso che troviate uno dei rari posti (grazie a qualche parentopoli comunale), sapete già che non prenderete più di tanto, per la vita intera. Invece l’artigianato è l’ultimo campo – non mondo della concorrenza globale – dove non c’è un tetto della paga: si comincia dal basso, e si può diventare Michelangelo, che era miliardario.

Dipende da voi. Non sapete quanta cultura (vera) si apprende con le mani, abituando l’occhio alla precisione e all’osservazione, osservando come fanno gli altri, e curiosando su come fanno là all’estero, e recuperando come si faceva in passato... Qualcosa che l’università dei marpioni e delle loro dispense non vi darà mai.

La cultura come scoperta e ricerca, la nostra università la uccide. Uccide per sempre la voglia di imparare cose nuove, di affrontare problemi imprevisti. Al punto in cui è l’università e la cultura, due anni presso un maestro calzolaio, o un corso di badante con tirocinio ospedaliero, o un apprendistato da elettricista, valgono più di una laurea in scienze politiche. Nel senso che hanno più mercato nel mondo del lavoro, perchè soddisfano un bisogno sociale reale. Non sapete quanta soddisfazione c’è a svolgere un ruolo socialmente utile, anzichè fare il passacarte e fancazzista in qualche parentopoli comunale. Non sapete quanta dignità nel lavoro di chi si sforza di essere eccellente – eccellente muratore, eccellente idraulico, eccellente nelle mescole chimiche. E la cultura, quella vera, è anche dignità del lavorare bene, è quel che si apprende lavorando.

Insomma, i lettori hanno capito, io sono contro la cultura. Quella difesa da Vendola e da Bersani, da quei colti che si davano di gomito quando Tremonti ha parlato di «mercatismo» perchè non sapevano cosa volesse dire, e lo deridevano quando diceva che l’Italia per fortuna «ha le manifatture» (gli sembrava una parola antiquata, ai Bersani, Vendola, studenti e giornalsti progressisti: adesso vedete dov’è arrivata la Germania, tenendosi le manifatture).

Sono contro la cultura di questa manica di furbastri ignoranti come scarpe. Perchè la cultura è, ed è sempre stata, funzionale: la cultura serve, in quanto serve, il resto è superfluo, ornamento, chiacchiera.

Sono per la cultura come la spiegava Rosmini: «Per cultura intendiamo quel corredo di cognizioni prontamente disponibili su diverse materie, che luomo si acquista con le sue facoltà e vivendo a fianco di chi sa. Questa molteplice cultura (...) abbrevia incredibilmente il tempo e la fatica di imparare».

La cultura è uno strumento per imparare più facilmente, non un arredamento delle anime belle, nè un museo. La cultura serve come attrezzo per imparare cose nuove, che non ci hanno mai fatto studiare a scuola e all’università; per gustare meglio la realtà; per avere idee utili, creative e dignitose su sè e sul mondo; per collegare fatti e cose apparentemente lontani. E la cultura si impara meglio a bottega (io, la mia, nelle redazioni) che nelle aule universitarie. Nelle nostre, almeno. Dove vige la seguente idea di cultura: «Ne ho già abbastanza, non mi serve altro. Non ho bisogno di apprendere oltre. Fra laltro, è una noia...».

Ho letto che anche Franco Cardini s’è schierato contro i tagli all’università. Cardini è un amico, e soprattutto uno dei pochi docenti universitari con un sapere alto e riconosciuto a livello non puramente nazionale. Proprio per questo, vorrei chiedergli: come avete usato i decenni di autonomia universitaria? Voi pochi all’altezza, come avete accettato di chiamare collega un docente di Toelettatura per piccoli animali da compagnia, o di Scienza del giardinaggio e dell’orto, o Gastronomia Comparata? I ricercatori così sindacalizzati e battaglieri, non hanno lottato contro queste centinaia di pseudo-corsi: non si sono accorti che se mancavano i fondi per la ricerca, era perchè bisognava pagare quelli?

Ma la convinzione che un’università difficile sarebbe contro luguaglianza è, temo, invincibile nelle masse – che appunto vogliono l’università di massa. Ossia che ha rinunciato all’eccellenza (tanto, le masse, per definizione, non sanno giudicare l’eccellenza) proprio perchè non deve essere selettiva. Naturalmente, l’uguaglianza che crea è illusoria: i figli dei ricchi vanno alle università d’eccellenza all’estero, e i migliori pure vanno all’estero, e non tornano più, perchè l’università e i suoi marpioni espelle, ormai da un ventennio, le teste migliori. Restano le masse di studenti appena infarinati, che avranno la laurea in disoccupazione.

Guai alla selezione, è reazionaria: grazie a questo tabù, non si discute veramente una riforma dell’università nè della scuola.

Una volta, vigeva un ben altro concetto di uguaglianza: che ciascuno avesse accesso, senza barriere, al livello di istruzione di cui ha bisogno, che gli è utile, che è capace di assorbire; con lo scopo finale di dare un addestramento per il quale esiste un bisogno sociale reale, ossia un mercato. Da questa concezione nacquero scuole diverse, con diversi programmi, che sfornava persone con diverse competenze certificate. Era l’idea che le persone sono diverse l’una dall’altra, e che questa diversità attitudinale, questa divergenza, deve essere messa a profitto (anzitutto, della persona stessa) anzichè ingabbiata nella totale media unica uguale per tutti.

Non tutti sono fatti per il latino? La soluzione non è abolire il latino, è fare scuole diverse, con un orientamento pratico, dove i più possano imparare vedendo fare. Qualcosa del genere esiste ancora in Svizzera, dove accanto agli studi classici ci sono corsi orientati al pratico, con due o tre giorni di insegnamenti in classe. Magari è per questo che in Svizzera la disoccupazione è bassa ed esistono ottimi artigiani di precisione.

Ma in Italia, c’è lo stigma che pesa su chi lavora con le mani, con gli strumenti tecnici, con la materia. E’ una ideuzza piccolo-borghese, ma si chiama progressismo.





1) Del CNR è vicepresidente Roberto De Mattei, già di Alleanza Cattolica, uscito da questa da destra, fondatore dell’Associazione Culturale «Lepanto» [virgolette e corsivo nostri; chissà la gioia di San Pio V; perché non ridenominarla Associazione Culturale Caifa?]; nota dell’editore.

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