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Ineguaglianza liberista, fino al Gulag
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Dal momento che l’ineguaglianza sociale estrema produce rivolte, instabilità politica e disordini, la CIA aggiorna regolarmente le statistiche sulla distribuzione della ricchezza in tutti gli Stati del mondo. (Distribution of family income - Gini index)

Come noto, il capitalismo terminale e finanziario globale agisce come una colossale idrovora che sifona la ricchezza dalla popolazione normale all’1% privilegiato, fino a minacciare, secondo l’economista sociologo Paul Jorion, la sopravvivenza stessa del genere umano. Ovviamente, il sifone è molto potente nella centrale ideologica del capitalismo terminale, Stati Uniti d’America (e Regno Unito): qui la massa dei lavoratori ha visto ridurre i salari e il potere d’acquisto, la classe media tende a sparire, mentre l’1 % superiore accaparra una quota sempre maggiore della ricchezza prodotta: se trent’anni fa ne incamerava il 30%, oggi supera il 40 %. L’Italia, nonostante la retorica egualitaria «di sinistra», i sindacati più grossi d’Europa e la sensibilità acuita alla disparità (invidia sociale), si trova in situazione simile a quella americana: con la differenza che da noi i super-ricchi sono del tipo parassitario, redditiero, ereditario o raccomandato più che avventurieri della finanza speculativa o grandi manager come in USA; differenza che, là, indica comunque una più viva dinamica sociale. (L’Italia ineguale)

L’Impero Romano disuguale? – Alcuni studiosi hanno attribuito la caduta dell’impero romano, tra le altre cause, alla crescente ed estrema disparità sociale: sopportabile durante le fasi di crescita, essa diventa intollerabile nella crisi, quando i redditi minimi non consentono più la sopravvivenza. Di qui collasso demografico (spopolamento), fuga dal servizio militare e dalla tassazione eccessiva, recessione economica permanente, barbarizzazione; e forse soprattutto, disaffezione dal sistema di governo imperiale da parte delle grandi masse alienate.

Ma quanto era diseguale l’Impero Romano? Se lo sono chiesti due storici di Stanford, Walter Schiedel e Steven Friesen, rielaborando tutti i dati disponibili dalla letteratura ed altri documenti romani. Hanno scelto il periodo della massima prosperità demografica, ossia il 150 d.C., cercando di valutare la ricchezza dei settori della popolazione. È noto dalla letteratura, ad esempio, che i senatori erano 600, e che per entrare in Senato si doveva avere una ricchezza di un milione di sesterzi; si valuta che la maggior parte dei senatori «valessero» ciascuno 5 milioni di sesterzi, e avesse un reddito annuo di 300 mila. Seguiva la classe dei cavalieri, per lo più grossi commercianti fornitori di commesse pubbliche (come il pane per l’esercito): ricchezza di 600 mila sesterzi, e reddito annuo di 40 mila. Sotto, i decurioni (cariche pubbliche comunali), sono valutati come ricchezza a 150 mila sesterzi, e un reddito annuo di 9 mila. Si tenga presente che un legionario romano semplice guadagnava sui 1300 sesterzi l’anno, ciò che era considerato un buon salario.

Queste classi, a cui si aggiungevano vari generi di ricchi e fortunati, costituivano l’1,5% della popolazione dell’impero (allora valutata in 70 milioni): insieme, controllavano il 20% della ricchezza totale. Al disotto dei fortunati e dei rispettabili, c’era la massa dei lavoratori a giornata, male e incertamente pagati, spesso indebitati (con gli usurai) e capaci a malapena di sopravvivere giorno per giorno, ed ovviamente subito sotto in tempi di recessione.

Per farla breve: Schiedel e Friesen ritengono che allora, l’1% dei super-ricchi romani si accaparrava il16% della ricchezza totale: meno della metà della ricchezza che oggi possiede l’1% superiore americano (il 40%, come abbiamo visto). Insomma: la società imperiale romana , tenuto conto della schiavitù e varie forme di sfruttamento, era meno ineguale di quella americana d’oggi.

E non solo: persino nel 1774, l’America coloniale e schiavista conosceva una ineguaglianza inferiore a quella odierna, come ha mostrato uno studio di Peter Lindert della University of California at Davis e Jeffrey Williamson di Harvard. (American Incomes 1774-1860)

L’America d’oggi è più ineguale della Russia Zarista; secondo il sopra citato CIA Factbook, c’è meno diseguaglianza oggi in Egitto e Yemen che in Usa...

Stando così le cose, si spiega forse meglio perché il controllo sulla società, sugli individui dissidenti, e su quello che chiameremmo l’ordine pubblico (o invece si può dire «repressione») diventa in Usa sempre più stretto e severo, e si preparano con discrezione massicce installazioni in vista di grandi rivolte, da campi di raccolta a migliaia di bare economiche e body bags. Nel 2010, l’agenzia di sondaggi Rasmussen ha scoperto che «solo il 21% degli americani credono che il governo abbia il consenso dei governati, e i più poveri sono i meno convinti della american liberty»; lo stato d’animo era qualificato di «pre-rivoluzionario».

Un recentissimo sondaggio (9-13 gennaio 2013, su 1502 adulti) ha mostrato che per la prima volta, una maggioranza di cittadini (53%) pensa che il governo federale minaccia i loro diritti personali e le loro libertà. Non era mai accaduto prima.

E in Italia? Angelino Alfano, divenuto l’improbabile ministro di polizia, ha convocato il Comitato della sicurezza pubblica per approntare le risposte d’ordine alla gravissima recessione: «La crisi economica e la povertà – ha rilevato – possono rappresentare il motore del disagio e possibile suscitatore di violenza, ma la situazione dell’ordine pubblico è serena, la cooperazione tra le forze di polizia efficace, i punti di crisi assolutamente presenti e mi sento quindi di rassicurare tutti». Dopo i colpi di pistola sparati davanti a Montecitorio dallo sparatore solitario, che ha colpito due carabinieri, la prima misura presa dal ministro è stata di rafforzare le scorte ai politici.

Le misure ovviamente non puntano ad alleviare la crisi (insolubile nei limiti del pensiero egemone, dettato dalla finanza), ma a proteggere le élites oligarchiche. Nell’economia globalizzata, un numero sempre maggiore di giovani non trovano occupazione. In base a questa tabella dell’Economist, sono 290 milioni, e la maggior parte in Asia. È l’efficienza capitalista che, giunta a sua perfezione, non ha più bisogno di lavoratori.


Il numero dei giovani che non sono al lavoro, né a scuola né in addestramento, è in crescita impressionante: nei Paesi OCSE, dal 2007 il numero dei giovani è cresciuto di un terzo. Quando la recessione diventa depressione, gli ultimi assunti sono i primi ad essere licenziati; è il motivo per cui la crisi attuale accresce in modo sproporzionato la disoccupazione giovanile.


La Generazione rovinata, il titolo della tabella qui sopra, ha un motivo preciso: giovani che iniziano la loro vita attiva senza trovare un lavoro, avranno salari più bassi in futuro e saranno più soggetti a periodi di disoccupazione nel corso della loro esistenza. Comunemente, si parla di paghe il 20% inferiori, per la durata di 20 anni. E il danno si aggrava quanto più si prolunga l’assenza di occupazione all’inizio, e spesso questi individui trasmettono la condizione di sfavoriti ai loro discendenti, ciò che induce un circolo vizioso di arretramento che rende sempre meno possibile, per la nazione, una crescita e ripresa futura. È la deriva verso un sistema sociale e produttivo del tipo America Latina. Naturalmente, anche l’ineguaglianza è aggravata dal circolo vizioso.

L’istruzione è essenziale: i Paesi con minori tassi di disoccupazione giovanile sono quelli dove il sistema scolastico è collegato in modo vivace e reale con il mondo del lavoro, aziende o artigianato. Tipicamente, la Germania ha un efficiente sistema di apprendistato e scuole tecniche professionali ben coordinate con i bisogni delle industrie, e infatti ha contenuto la sua disoccupazione giovanile, nonostante la crescita anche lì non sia di tipo cinese. Altrettanto tipicamente, l’Italia è il Paese dove la casta insegnante, per motivi ideologici, ha rigettato il collegamento con la realtà economica; e dove l’offerta di lavoro incontra più malamente la domanda. Le aziende solevano compensare questa discrepanza investendo in corsi di addestramento interni; oggi, con la crisi, questo canale è prosciugato.

USA: crisi e detenzione – Un corrispondente a Washington di un giornale europeo, un giorno, mi spiegò che la prigione è «la cassa integrazione dell’America», Paese dove la cassa integrazione è sconosciuta. Il numero dei carcerati aumenta quando sono in corso le recessioni e depressioni. Ebbene: attualmente, la percentuale dei cittadini negri in galera, o sotto il controllo del sistema penitenziario Usa, supera quella che vigeva nel 1850, quando i negri non erano cittadini ma schiavi. Più della metà dei negri senza diploma di scuola media superiore, in qualche fase della loro vita, approdano al carcere.

Bianchi, neri o chicanos, più di 6 milioni di americani sono sotto «sorveglianza correzionale» (detenzione o libertà vigilata, o con diritti sminuiti per un reato). Nel 1980, si trattava di 220 detenuti ogni 100 mila americani; nel 2010, sono 731 (un record mondiale). Negli ultimi 20 anni, i fondi pubblici per il sistema carcerario sono cresciuti sei volte più della spesa per istruzione.



Carceri a scopo di lucro – La situazione di questi perdenti nella lotta sociale, che sono spesso i detenuti in Usa, è resa più tragica dalla privatizzazione del sistema carcerario. Nell’ultimo ventennio, gli Stati hanno sempre più spesso appaltato il «servizio carcerario» a ditte private , in nome di efficienza e risparmio. Il numero di carceri private è cresciuto di 17 volte, mentre la popolazione carceraria è salita del 772% dal 1970 al 2009. Come in Usa è potente il «complesso militare industriale», sta crescendo il potere, sulle pubbliche autorità, del «complesso carcerario-industriale».

Il giornalista Nile Bowie, in un’inchiesta per Russia Today, ha mostrato le aberranti conseguenze del potere di questa nuova lobby: per esempio essa combatte accanitamente, e con successo, i tentativi di depenalizzazione del consumo di marijuana – perché questo reato fornisce un numero apprezzabile e costante di prigionieri, che poi le ditte carcerarie usano come lavoratori a basso costo. Stesso discorso vale per le leggi anti-immigrazione: l’immigrazione clandestina come reato penale è fortemente promosso da questi interessi: 400 mila stranieri (per lo più messicani) sono attualmente sotto chiave nel sistema carcerario privato Usa, una forza enorme di lavoro forzato. Dall’uso di questi lavoratori con salari simbolici viene il profitto delle aziende: il che induce Bowie a parlare di «American for-profit Gulag». Le più importanti società che forniscono questo tipo di servizi sono tre: CCA, GEO Group e Cornell (dei veri conglomerati) fanno lobby presso il Congresso o i parlamenti locali per una maggiore severità delle leggi penali; cosa che avviene con gli applausi dell’opinione pubblica (almeno quella che conta).

In Usa è stata introdotta da Clinton la legge che commina la pena massima dopo tre recidive: così accade che una serie di piccoli reati di sopravvivenza possa far finire i più sciagurati a diventare abitanti permanenti (ergastolani, forzati) del Gulag americano, e a fornire gratis o quasi il loro lavoro. Cosa tanto più facile in quanto, tornati in libertà, i detenuti sono privati dei loro diritti civici, non hanno accesso ai servizi sociali e certo non facilmente al mercato del lavoro; commettono dunque facilmente altri reati.

Le aziende carcerarie «hanno contribuito con almeno 3,3 milioni di dollari a partiti, candidati e loro comitati elettorali per influenzare la politica penale a livello federale», dice Bowie. «Più di 7,3 milioni sono stati distribuiti a candidati degli Stati dal 2001 (...). Senatori come Lindsay Graham e John McCain hanno ricevuto somme significative dai gruppi privati di prigionia; Chuck Schumer, presidente della Commissione polizia di frontiera e immigrazione, ha ricevuto 64 mila dollari dai lobbisti». In cambio, i politici si sdebitano alla grande: il governo Obama ha stanziato 18 miliardi di dollari per «la repressione dell’immigrazione clandestina», e di questi parecchi vanno alle ditte penitenziarie.

Nel 2007, uno scandalo in Texas ha coinvolto i controllori pubblici dei carceri minorili, inviati nelle installazioni a controllare la qualità del servizio: erano tutti sul libro paga della GEO Group. Per tacere sul fatto che i detenuti minorili dovevano defecare in secchi di plastica per mancanza di toilettes, che l’alimentazione era inqualificabile, che agli ospiti erano negate cure mediche e il contatto con avvocati. Inoltre, il 4-5% dei detenuti ha denunciato aggressioni sessuali. Secondo dati ufficialissimi, del Dipartimento della Giustizia Usa, sono quasi 210 mila i carcerati che subiscono violenza sessuale ogni anno, e nella metà dei casi per opera del personale carcerario. Le privazioni portano a un rapido degrado della salute dei detenuti (proprio come nel Gulag di sovietica memoria) al punto che il sistema si configura come un metodo di eliminazione soft di indesiderati sociali. (Moral monstrosity: America’s for-profit Gulag system)

Suicidi in massa – Per la prima volta, in Usa, il numero dei morti per suicidio ha superato il numero delle vittime per incidenti stradali: 38.364 contro 33. 687. I dati sono del Center for Disease Control e si riferiscono al 2010. Per qualche motivo, il sinistro primato spetta allo Stato dello Wyoming, con una crescita di suicidi del 78,8% (31 su centomila abitanti), ma colpisce anche Hawaii, il paradiso tropicale presunto, con una crescita del 61.2% (21,9 su centomila).

E la novità è l’età dei suicidi. Una volta erano soprattutto adolescenti in crisi e vecchi disperati, oggi a togliersi la vita di più è la classe d’età fra i 34 e i 65 anni: più 30%. La classe attiva e produttiva, lavoratrice per eccellenza: è soprattutto questa ad aver subito il crollo delle speranze e delle prospettive dovute alla crisi economica cominciata con il crack dei sub-prime nel 2008. Esattamente dal 2008, infatti, ha avuto inizio l’impennata di suicidi fra questi «attivi» : la classe nerbo della nazione, che ha visto crollare il valore della propria casa, sulla cui rivalutazione si basava la speranza di una vecchiaia serena; ha subito licenziamenti e stroncamenti di carriere professionali. Contemporaneamente, questa classe ha visto volatilizzarsi il valore accumulato del suo fondo pensionistico privato (investito in azioni crollate con il crack); ha sofferto la condizione d’essere schiacciata dal mutuo per la casa e dal prestito d’onore per l’università, ormai impagabile per un reddito in calo, o (il mutuo casa) assurdo per un valore dell’immobile calato del 30%. Ben 4 milioni di costoro hanno conosciuto l’umiliazione dei pignoramenti e sequestri per insolvenza. E il tutto sotto la pressione psicologica di essere «produttivi», concorrenziali; per poi scoprire, quando la crisi s’è allentata grazie al quantitative easing della Fed, che il 93% di tutto l’aumento del reddito ottenuto nel 2010, è stato sifonato dall’1% superiore (le famiglie che guadagnano più di 358 mila dollari l’anno, ma senza limiti in cielo).

Anche questa realtà è rivelata da Russia Today (vedi dov’è finita la libertà di stampa americana). L’autore dell’articolo, il saggista americano Robert Bridge, si chiede nel titolo: «Il potere delle grandi imprese sta spingendo gli americani nell’abisso?».

Bridge ha scritto un saggio, Midnight in the American Empire, sugli esiti devastatori del potere del «corporate power» sulla società, sui politici. L’espressione riguarda non solo le imprese, ma ovviamente le banche e le banche d’affari. Bridge ne denuncia l’abilità nell’estrarre profitti straordinari dalle crisi enormi che esse stesse hanno provocato, nel guidare i politici eletti a fare i suoi esclusivi interessi a danno della popolazione; in breve, denuncia la natura predatrice e sterminatrice che il capitalismo terminale, giunto a perfezione in un Paese che ha spogliato di ogni regola (in nome della efficienza e della concorrenza), ha raggiunto sulla vita degli esseri umani: lo stesso giudizio che ha dato il francese Paul Jorion. Questo è un inegualitarismo insieme totalitario e predatore. Un «Mostro S.p.A. che ha rubato il sogno americano».

E non è che l’inizio; il sistema «liberista» è pronto alle più estreme misure pur di mantenere lo status quo. Lo ha detto Ron Paul, in un discorso pubblico ai primi di maggio, parlando della situazione monetaria e del debito pubblico: «Faranno quello che crederanno necessario, useranno la forza, useranno l’intimidazione, useranno le armi. Non ne ho il minimo dubbio. Lo Stato non si lascia sfidare, non lascerà mettere in causa il cosiddetto diritto di controllare la moneta...». Fino alla riedizione del Comitato di Salute Pubblica inventato da Robespierre....

Ma che non si creda che abbiamo criticato l’America. Italiano, europeo, de te fabula narratur.



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