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L’Europa? L’idea di uno che ha lasciato la scuola a 15 anni
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Dunque sarà Juncker il presidente della Commissione Europea per cinque anni. Salvo i due valorosi che si sono battiti contro la sua nomina, David Cameron e l’ungherese Victor Orban – onore a loro – tutti i governanti europoidi, hanno votato come volevano i padroni, quelli visibili e quelli occulti sancendo il loro servilismo storico a Berlino e all’ideologia. Dell’europeismo ideologico, Juncker è l’esponente più ottuso e, per questo, il più duraturo: dopo essere stato Primo Ministro del Lussemburgo, il granducato-banca, paradiso fiscale, un Paese «della misura di una città» (come dice un diplomatico sotto anonimato), s’è piazzato da un trentennio nelle cariche eurocratiche non-elettive come un topo nel formaggio, sempre riconfermato e ri-cooptato, in quanto maneggione indispensabile del sistema di «governance» fatto nei corridoi e dietro porte chiuse, dunque il preferito delle tremila lobbies con uffici aperti a Bruxelles, da Monsanto a Big Bank, da Big Pharma al complesso militare industriale USA — ma anche, abbiamo visto, ad Angela Merkel. Anche adesso è stato cooptato di nuovo, nonostante le sue credenziali umane e formative miserande, nonostante che gli inglesi abbiano persino sollevato, per bloccarlo, il suo stato di alcolista inveterato: «Fa la prima colazione col cognac», maligna un diplomatico di Londra.

Il peggio non è che alzi il gomito. È che Juncker è l’altoparlante di quelle forze che, di fronte alla crisi gigantesca che la moneta unica ha creato, rispondono: «Ci vuole più Europa». Ossia: più burocrazia (oltre i 26 mila funzionari di Bruxelles), ancor più cessioni di sovranità da parte degli Stati, ancor più normative e direttive cervellotiche calate dall’alto, per lo più frutto di occulte manovre lobbistiche (la sola cosa di cui Juncker è maestro) per imporre qualche potente interesse particolare ai popoli. Egli è l’arci-federalista, «il burocrate-in-capo dell’eurocrazia», come l’ha definito il Telegraph.

La sua nomina è la disfatta delle speranze che la prigione dei popoli chiamata Europa venga riformata, rovesci la sua tendenza all’accentramento burocratico ormai asfissiante, corregga il deficit democratico — come aveva chiesto Cameron, come hanno voluto decine di milioni di elettori, come riconoscono ormai necessario perfino esponenti fieramente o comodamente europeisti. Come Prodi («Il patto di stabilità è stupido»), come persino Le Monde, che ha definito Juncker «un revenant» (uno zombie si dice ad Hollywood). Anzi peggio: come ha rivelato Cameron praticamente tutti i governanti europei con cui ha parlato gli hanno espresso – ma in privato – perplessità o non gradimento per Juncker, la sua persona, il suo passato e le sue (chiamiamole) idee. Ma pubblicamente, tutti costoro lo hanno scelto: 26 sì contro i 2 no. Cameron ha fatto due nomi: Renzi gli ha detto che Juncker non gli piace, e anche la Merkel. Persino lei. Tutti, insomma si sono turati il naso. E hanno scelto il revenant alcoolico. (Cameron's Juncker concerns are shared by European leaders, says Osborne)

Come mai? A parte gli accordi occulti dietro le quinte che possiamo solo indovinare (per esempio Schulz a capo dei socialisti ha ottenuto compensi per scegliere Juncker a quattrocchi con la Merkel, in buon tedesco), il fatto fondamentale, credo, è questo: la mancanza di idee, la pochezza mentale e l’assenza di coraggio politico per «pensare» in altro modo. Dopo settant’anni, il Progetto Eurocratico ha scavato profondi binari nelle menti delle burocrazie, dei politicanti e dei gruppi d’interesse di riferimento: stare su quei binari rassicura tutti, consente ai politicanti di occuparsi degli affari interni nazionali mentre la UE procede col pilota automatico — o con l’alcolizzato mentalmente dimidiato Juncker. Del resto, non è che Barroso o Van Rompuy abbiano mai tradito alcuna dose di intelligenza. Non gli è chiesto, per salire e restare ai vertici. Gli è chiesto di continuare il Progetto. Pedissequamente.

Così continua il Progetto. Quello stesso che fu elaborato da Jean Monnet negli anni ’40 insieme ai banchieri americani di cui era il fiduciario: far sparire gli Stati nazionali che in Europa (così credevano gli americani) significava guerra continua, e tenerli legati per sempre agli interessi statunitensi. «Creare un mercato monetario e finanziario europeo, con una Banca Centrale europea ed una Federal Reserve europea, e l’uso in pool delle riserve nazionali il libero flusso dei capitali tra i Paesi membri e infine, una politica finanziaria centralizzata»: così ha scritto Monnet nelle sue Memorie, spiegando che era l’idea dei suoi fiduciari (banchieri USA), i quali l’avevano formulata così nel 1957.

Questo Progetto andrebbe urgentemente riesaminato, la natura stessa degli USA essendo cambiata da agente superpotente di destabilizzazione; occorrerebbe pensare se gli interessi europei non siano meglio garantiti da una prospettiva di avvicinamento alla Russia non più comunista da un ventennio; farsi domande sulla Nato diventata da alleanza difensiva, un corpo di spedizione neocoloniale americanista, complice di devastazioni e rovine in Paesi lontanissimi dalla sfera di sicurezza europea, dall’Afghanistan all’Iraq.

Persino Dominique Strauss-Kahn, in un rapporto consegnato a Romano Prodi (allora presidente della Commissione) nel 2004, ha riconosciuto: «Oggi il metodo Monnet è arrivato al suo esaurimento. Lo squilibrio che ha generato – competenze politiche sempre più importanti affidate ad una istituzione di natura tecnica – provoca una crisi istituzionale profondissima. L’Unione Europea è malata del suo deficit democratico».

Ma il Progetto invecchiato e dannoso, resta quello. Perché mancano le idee (e ovviamente, il coraggio). Vi sembra una ingenuità? Guardate, fu lo stesso Monnet ad esaltare il potere che – per i suoi scopi – aveva non già la «forza delle idee», ma la sua mancanza. «È il mio ruolo da molto tempo di influire su coloro che esercitano il potere politico. Al momento critico, quando mancano le idee, i politici accetteranno le vostre con gratitudine, purché rinunciate a reclamarne la paternità... io scelgo l’ombra».

Monnet, il demiurgo ignorante

Ma come aveva formato le sue «ideee», Jean Monnet? Vale la pena di ricordarlo: il personaggio abbandonò gli studi a 15 anni. Senza superare l’esame di maturità (il baccalaureato, in Francia). Per sua orgogliosa ammissione, studiare sui libri non gli è mai piaciuto. Figlio di una ricca famiglia di commercianti di cognac (è nato a Cognac nel 1888), fa lui stesso risalire la sua «formazione» ai colloqui ascoltati a tavola fra suo padre e i suoi clienti esteri (il commercio del cognac era una delle poche attività francesi con un mercato mondiale). A diciott’anni, abbandonata per sempre la scuola, il giovanotto si stabilisce in America per curare gli affari dell’azienda paterna. Ne ricava «una perfetta padronanza dell’inglese – cosa rara allora per un francese – e una conoscenza della mentalità anglosassone che gli permette di avere immediatamente la loro fiducia».

Jean Monnet
  Jean Monnet
Imparate le lingue, ragazzi. Nel 1914, quando la Francia entra nella prima guerra mondiale, milioni di suoi coetanei sono gettati nelle trincee a morire; lui, opportunamente riformato, si presenta al presidente del consiglio René Viviani, che prudentemente ha insediato il Governo a Bordeaux (i tedeschi sono a due passi da Parigi), e gli presenta un progetto di fusione tra le flotte mercantili francese e britannica per ottimizzare i rifornimenti bellici ed alimentari dagli USA. Sa quel che dice, s’è fatto la mano nei noli marittimi. Viene nominato alto funzionario inter-alleato responsabile di questo coordinamento fino alla fine della guerra. Nel 1919, trentenne, i potenti amici che s’è fatto in America e a Londra lo mettono a gestire il progetto di Società delle Nazioni, il sogno utopico-moralistico del presidente Woodrow Wilson, la prima versione di corta durata della futura Onu . Nella carica di segretario generale aggiunto della Società organizza una importante conferenza a Bruxelles sull’economia monetaria post-bellica.

Nel 1926 torna agli affari privati di famiglia: in USA, con l’alcol di papà, non manca di cogliere l’occasione offerta dal Proibizionismo. Nel 1929 lo troviamo a San Francisco, dove fonda, ormai miliardario, una grossa banca di sua proprietà – la Bancamerica. È evidentemente entrato nella manica dei grandi banchieri d’affari, Schiff, Morgan Guaranty, Lehman Brothers, Kuhn & Loeb, Lazard. Sono loro che lo inviano in Cina nei primi anni trenta, con un incarico fiduciario delicato: fare il consigliere di Chang Kai-tchek, il signore della guerra scelto dagli USA perché porti una Cina modernizzata nella zona d’influenza del dollaro. Vincerà invece il comunista Mao, sicché quella parte del progetto mondialista subirà una battuta d’arresto (1).

Seconda guerra mondiale. 1939, Monnet è messo alla guida – da Londra – dell’ufficio alleato di coordinamento logistico. De Gaulle, in quel momento in esilio e senza forze né mezzi, deve piegarsi di fronte a questo ometto a cui gli americani (già in guerra come fornitori degli Alleati, anche se gli americani lo sapranno solo nel ’42) hanno dato il potere di fornire o negare mezzi e materiali e soldi. I due, immediatamente, non si piacciono, e la disparità culturale c’entra molto: il generale laureato all’Accademia militare di Saint Cyr, prestigiosissima, è imbevuto della storia stessa della Francia e della cultura europea, quell’altro è un bottegaio che disprezza quei saperi e quel carattere. Sappiamo solo oggi, dopo l’apertura di certi archivi, che Monnet ha tramato contro De Gaulle, (dietro le quinte come al solito) perché gli americani lo sostituissero come capo del comando civile e militare francese, o gli facessero mancare i mezzi. Perché, come scrisse ad Harry Hopkins (l’eminenza grigia di Roosevelt, ascoltatissima e potentissima dietro le quinte), De Gaulle «è un nemico della costruzione europea e dunque dev’essere distrutto (sic) nell’interesse dei francesi»: questo, in una lettera segreta del 6 maggio 1943. Il Generale non saprà mai di questa lettera, che gli ha procurato l’ostilità primaria e il sabotaggio continuo degli anglo-americani; ma capisce abbastanza il personaggio, da definire Monnet come «quel piccolo finanziere al soldo degli USA». Ma Monnet ha i soldi americani, quelli del piano Marshall sono stati affidati a lui, ed altre aperture di credito, e li distribuisce in base al Progetto: finanziamenti contro cessioni della sovranità (2). Gli Stati europei, usciti devastati dalla guerra, accettano l’uno dopo l’altro. Non possono fare altro.

Il solo ostacolo al progetto è De Gaulle. La costruzione europea, dice, deve basarsi non su entità burocratiche create a tavolino, ma «su delle realtà», e queste realtà sono gli Stati sovrani, con la loro storia, le loro identità distinte e personalità formate nei secoli. Monnet prova a unificare gli eserciti europei – criticherà il generale – come si fa nel business con le operazioni di «fusione ed acquisizione» di aziende; De Gaulle si oppone violentemente e con successo. Monnet riesce quasi a mettere l’industria nucleare europea, sottraendola agli Stati, sotto un’entità sovrannazionale (l’Euratom) che – per coincidenza – privilegerebbe, per la fornitura del materiale fissile , la «filiera americana»; De Gaulle sferra la politica di indipendenza nucleare francese... Sarà solo De Gaulle a denunciare apertamente, gridando, che «sono al lavoro i sinarchisti sognanti un impero multinazionale... Essi hanno concepito nell’ombra, negoziato nell’oscurità, firmato in segreto un governo apatride, su misura della tecnocrazia. Un mostro artificiale, un robot».

Questo è il progetto ancora vigente, il mostro artificiale la cui costruzione passa sotto le cure di Juncker, il revenant, per i prossimi cinque anni. Non cambia nulla, e Manuel Barroso, l’uscente, se ne è rallegrato: «Nessun Governo ha chiesto di cambiare le regole, è importante sottolinearlo». Il progetto messo a punto da un bottegaio che non ha mai finito il liceo, pieno di quel che si considera «spirito pratico» negli affari e spregiatore della storia e della cultura che sono il tessuto stesso dell’Europa. Quando qualche tardivo scopre che l’Unione tradisce le «radici cristiane dell’Europa», guardi meglio: ha tradito tutte le radici.

Arriva il TISA, trattato privatizzatore dei servizi

Che cosa rimane da fare a Juncker, è completare il progetto: la fusione dell’Europa apatride nel mercato globale americano. Il Trattato Transatlantico che ci assoggetta alle normative USA nei più delicati settori (OGM, norme igieniche per l’allevamento) è già di fatto realtà. E se questo v’è piaciuto, adorerete il TISA (Trade In Services Agreement - Accordo di Commercio sui Servizi), che si sta negoziando freneticamente sotto dettatura della Camera di Commercio americana. È il trattato che liberalizzerà-privatizzerà tutti i servizi: sanitari, dell’energia, dei trasporti, delle acque, ovviamente finanziari; lo scopo generale è di completare la liberalizzazione totale dei servizi pubblici: limitare la capacità dei Governi di legiferare su temi come la sicurezza dei lavoratori, l’ambiente, la protezione dei consumatori e l’obbligo di rendere universali i servizi che hanno natura essenziale. Tutto assoggettato alla concorrenza globale. Ne avevamo già parlato qui.

Ora Le multinazionali USA avranno l’accesso ai mercati dei Paesi firmatari a condizioni uguali a quelle dei fornitori nazionali locali, «ivi compresa l’accesso a sovvenzioni pubbliche». Ossia: se lo Stato paga alle imprese un sussidio per far avere ai cittadini l’acqua ad un prezzo sostenibile, anche la multinazionale USA otterrà il finanziamento pubblico. Di fatto, il processo punta all’evidente esito finale: l’accentramento dei servizi sotto grandi trust privati transnazionali, di cui gli americani hanno la parte del leone.

L’esistenza di questo accordo in gestazione fra UE e USA è stata rivelata da Wikileaks solo il 19 giugno scorso. È così occulto che, per sfuggire all’opinione pubblica, i suoi negoziati si tengono non nella sede dell’Organizzazione Mondiale del Commercio a Ginevra, ma – tenetevi forte – nell’Ambasciata d’Australia in Svizzera. Fatto che grida vendetta al Cielo, le parti si sono impegnate a mantenere il segreto su quel che negoziano «fino a cinque anni dopo la conclusione dell’accordo»: ossia saremmo assoggettati a regolamentazioni liberalizzatrici di cui nemmeno possiamo conoscere i contenuti. Questi trucchi sono stati escogitati per superare il blocco del ciclo di Doha e contrastata da molti Stati ancora sovrani. Un gruppetto di Paesi ha deciso di andare avanti dietro le quinte, da privati che si riuniscono come buoni amici: difatti il gruppuscolo informale si autonomina – ed è tutto uno stile – Really Good Friends.

I Buoni Amici hanno già raggiunto, il 14 aprile, l’accordo che mira a restringere la capacità d’intervento e di divieto, da parte dell’autorità pubblica, della messa sul mercato di «prodotti finanziari innovativi», tipo i sub-prime e derivati che hanno prodotto la crisi nel 2008, quella che continua e si aggrava da allora. Adesso, i giganti americani di Internet stanno trattando coi loro Buoni Amici europoidi la trasmissione senza limiti dei dati. Infine, l’Accordo prevede il divieto previo, fatto agli stati, di ri-nazionalizzare servizi pubblici la cui privatizzazione si sia rivelata disastrosa.

«Un accordo appassionante e capace di infiammare la crescita economica americana», esultava un comunicato della Camera di Commercio USA in Europa il febbraio scorso: «I servizi sono chiaramente una forza per gli Stati Uniti, il massimo esportatore mondiale di servizi. Il TISA allargherà l’accesso ai mercati stranieri da parte delle nostro industrie di servizi… la sua capacità di stimolare la crescita e i posti di lavoro in Usa è più che significativa». I posti di lavoro, s’intende, americani — a spese degli europei.





1) In questo torno di tempo s’inserisce la relazione amorosa di Monnet con la bella italiota Silvia Giannini, di 20 anni più giovane di lui (che ne ha a quel tempo 41).Silvia è appena sposata con un dipendente italiano di Monnet, il diplomatico Francesco Giannini, da cui ha avuto un figlio. Monnet la incontra in una cena a Parigi nel 1929, se ne invaghisce e la fa’ sua. Il povero Giannini si oppone alla separazione ( in Italia ai tempi non esiste il divorzio) e si oppone con successo a processi di divorzio che la nuova coppia – il potente e la mogliettina – tentato di imbastire a New York; anni di cause e lotte di avvocati anche per il possesso del figlio.... A questo punto, approfittando delle sue alte relazioni e della sua posizione di vertice alla Società delle Nazioni, Monnet escogita quanto segue: fa’ ottenere rapidamente alla sua amata Silvia la cittadinanza sovietica - è l’URSS di Stalin! – che consente alla neo-cittadina di godere della legge comunista, testé varata, che ammette il divorzio unilaterale, anche contro la volontà del coniuge (il povero marito italiano); Jean Monnet arriva dalla Cina (dove lavorava per gli americani) a Mosca con la Transiberiana, e sposa la bella Silvia, il 13 novembre 1934, nella capitale sovietica. La manovra riesce grazie ai buoni uffici dietro le quinte di un diplomatico ebreo sovietico, Ludwik Rajchman (era braccio destro dell’ambasciatore sovietico in Cina Bogomolov), e dell’ambasciatore francese a Mosca Charles Aiphand e a quello americano, William Bullit, che hanno tenuto bordone e facilitato le pratiche... La più bella operazione della mia carriera», dirà lui.
2) La politica francese Marie-France Garaud, antica deputata europea molto addentro alle segrete cose (è stata consigliera di Pompidou e Giscard d’Estaing), è stata più precisa di De Gaulle: Monnet, ha confermato in un’intervista televisiva del 2013, «era un agente americano. E si sa bene come è stato compensato perché ora sono informazioni declassificate».




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