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L’Islam nacque da un collasso economico?
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All’inizio fu la diga di Ma’arib. La sua gigantesca struttura che raccoglieva le acque di uno wadi che s’ingrossava solo durante il monsone, rendeva l’arido steppa che oggi è lo Yemen meridionale un lussureggiante verziere; ad essa si deve la leggendaria prosperità di Saba come tappa di rifornimento delle carovaniere dell’incens, dell’avorio e delle spezie, e la fama della favolosa regina di Saba, citata dalla Bibbia come visitatrice di re Salomone. Ma la diga è molto più antica dello stesso regno di Saba. Iscrizioni di re locali trovate nelle sue rovine risalgono al 750 avanti Cristo (circa la data di fondazione di Roma), ma quei re si vantavano di aver riparato e mantenuto lo sbarramento, di aver dragato la diga dai sedimenti, non d’averla costruita. Recenti scavi archeologici attesterebbero che la diga originaria di terra, e del reticolo di canali che alimentava, possano risalire al 1750 a. C., ossia alla preistoria megalitica, opera di una civiltà di cui non sappiamo nulla, se non che possedeva conoscenze ingegneristiche ed idrauliche impressionanti.

Lunga quasi 600 metri, le sue imponenti rovine sono visibili dal satellite e segnalate su Google Maps.

La sua altezza, originariamente di quattro metri, fu verso il 500 a. C rialzata fino a 7, e nel 350 avanti cristo, a quindici metri. Lo sbarramento di terra fu migliorato e rinforzato via via con pietre squadrate e opere in mattoni. Un ingegnoso sistema di sversatoi e chiuse distribuiva l’acqua in una fitta rete di canali, che irrigavano, si crede, oltre un migliaio di ettari, facendo del deserto una zona agricola fiorentissima, capace di sostenere una fitta popolazione; di conseguenza, fu anche l’origine della potenza politica dei regni sabei, che per secoli controllarono con forti eserciti e insediamenti le vie carovaniere dell’incenso e delle spezie fra l’India e il Mediterraneo, fra l’Arabia e l’Abissinia. La capitale sabea, Marib (a 120 chilometri da Sanaa, l’attuale capitale yemenita) caravanserraglio e lussuosa sosta carovaniera, traboccava di monumenti e templi sfarzosi e d’ogni genere di piaceri. Favolosa la sua ricchezza: secondo la Bibbia, la regina di Saba avrebbe regalato a Salomone 4 tonnellate d’oro.

Per quasi un millennio la diga ha reso verde e splendida la vasta zona. Memorie storiche confuse ricordano che in essa si aprirono più volte nel corso dei secoli brecce e sfondamenti, provocando alluvioni e rovina; rotture però sempre riparate dai re o dominatori locali, che ben capivano la convenienza di non lasciar andare in rovina il loro tesoro. Coi secoli, vari popoli sono succeduti al dominio dei sabei.

Verso il 420 dopo Cristo si impadronì del centro di potere un «regno di Himyar», una etnia araba convertitasi in massa al giudaismo che si diede con impegno, insieme allo studio della Torah, a feroci persecuzioni di cristiani; il ricordo di cristiani martirizzati in modi fantasticamente atroci resta in testi siriaci, greci ed arabi ancora secoli dopo. Per mettere fine alle stragi – veri e propri pogrom che suscitarono orrore fino alle lontane capitali d’Oriente – una spedizione del re cristiano d’Abissinia avanzò contro Ma’arib; rafforzati da truppe spedite dall’imperatore di Costantinopoli, gli etiopici sconfissero l’esercito del reuccio giudaico, mettendo fine allo strano regno nel 523. (The Rise and Fall of a Jewish Kingdom in Arabia)

Ma ormai non c’era più alcun potere politico abbastanza ricco e potente da provvedere alla manutenzione. Già indebolita da tante brecce e riparazioni sempre più sommarie, la diga di Ma’arib crolla definitivamente fra il 570 e il 575. È un evento di risonanza storica. La evoca quasi un secolo dopo il Corano, che attribuisce la rovina ad una punizione per l’infedeltà della «gente di Saba»:

«Cera invero, per la gente di Sabâ, un segno nella loro terra: due giardini, uno a destra e uno a sinistra. Mangiate quel che il vostro Signore vi ha concesso e siateGli riconoscenti: [avete] una buona terra e un Signore che perdona!”».

«Si allontanarono (da Noi) e allora inviammo contro di loro lo straripamento delle dighe, e trasformammo i loro due giardini in giardini di frutti amari, tamarischi e qualche stento loto. Così li ricompensammo per la loro miscredenza», dichiara Allah (34, Sura Saba’, 15-17).


Certo è che seguirono immediatamente la desertificazione, miseria, carestie, spopolamento; sciagure forse aggravate – mancano precise testimonianze storiche – da guerre, epidemie e forse fenomeni vulcanici. Non esistono più gli Stati fortemente stabiliti che controllavano gran parte della penisola arabica, crollati o indeboliti l’uno dopo l’altro; Costantinopoli era troppo lontana ; persino il regno d’Abissinia soffre della crisi prodottasi nello Yemen; parte della sua economia dipendeva dall’esportazione di incenso ed altre essenza, ma ora il centro carovaniero che ha cessato di operare, né riceve né invia più le sue ricchezze. Mancando gli Stati regolatori, del territorio s’impadroniscono una quindicina di principi tribali. Sono capi beduini, nomadi arretrati e barbari, che tornano a vivere di saccheggio; si spartiscono il deserto, alcuni si alleano ai persiani, tutti a gara si gettano a depredare le carovane che hanno promesso, dietro pagamento, di proteggere. Il commercio collassa completamente; s’instaura l’anarchica ostilità di kabila contro kabila, faide senza fine; è una vera regressione mentale, morale e religiosa delle popolazioni arabiche.

Oggi è impossibile immaginare come si ripercosse nelle menti di genti minacciate dalla siccità la scomparsa della vasta oasi, con i suoi lussureggianti palmeti, i frutteti irrigui, i campi di grano , gli umidi appezzamenti di riso, i laghetti d’acqua limpida e le piantagioni di garofano, cosparsa di città popolose e prospere. I «due giardini» di Ma’arib avevano nutrito generazioni da almeno un millennio; per i suoi coltivatori erano una certezza su cui poggiavano le loro vite, quelle degli avi e dei discendenti; per i nomadi ai suoi confini, il concupito giardino dell’Eden, la sosta dove riposare cammelli, asini ed uomini assetati, il centro che le carovane attraversavano in sicurezza (1): e ciò, da tempo immemoriale.

La devastazione, lo spopolamento delle fiorenti città, la mancanza improvvisa di quella sosta di rifornimento con le sue risorse millenarie, fu vissuta come un evento apocalittico; la fine del mondo. Qualcosa di simile all’epocale mutamento climatico temuto oggi da molti, e che secondo molti mette in pericolo la vita dell’umanità sul pianeta; ma con l’aggravante che la catastrofe avvenne nel giro di una stagione, improvvisa e inarrestabile. Certo, ai meglio versati in tendenze mistiche, vennero alla mente la distruzione di Sodoma per i suoi peccati, o l’eliminazione di quella antica umanità narrata dai testi semitici: il diluvio universale, da cui fu risparmiato Noé.

Abbiamo visto il forte insediamento ebraico nella zona, che certo diffondeva la conoscenza della sua religione e dei suoi miti; forte era anche la presenza di comunità cristiane nelle sue varianti cattoliche greche e siriache, nestoriane, copte, in monasteri o monaci anacoreti; non mancavano precisi influssi dello zoroastrismo e del manicheismo proveniente dalla Persia; tutte queste suggestioni e fedi favorivano la credenza in una vita futura, offrivano risposte alle angosce escatologiche di quelle popolazioni tornate al deserto e alla barbarie. Tutte però, ai loro occhi, sono associate a potenze straniere, Bisanzio e la Persia, l’Abissinia, la cui sola eco basta a suscitare la radicata xenofobia beduina.

I tempi sono propizi all’apparizione di una nuova fede, che colmi il desiderio di una più alta spiritualità (più alta del politeismo praticato dalle generazioni del benessere: gli innumerevoli dei avevano fallito), e appaghi l’effervescenza religiosa che si manifestò allora nella penisola arabica, a seguito della grande crisi economica e sociale.

La tradizione musulmana conserva il ricordo di indovini e profeti; alcuni proclamavano la credenza in un Dio unico, spesso chiato al-Rahman, lo stesso nome divino che usavano cristiani ed ebrei. Ma tutti erano «falsi» profeti secondo Maometto: che li combatté, non senza fatica nell’imporre sulle loro le sua visioni. Del resto «l’epoca dell’ignoranza» (la jahiliyya) e dell’oscurità che secondo i musulmani precedette l’arrivo del vero Profeta, era allora un’esperienza concretamente vissuta da tutti, un dato di fatto dovuto alla catastrofe della diga sbrecciata; un giudizio che poi l’Islam estenderà a tutto il passato storico pre-islamico, con le sue luminose civiltà: Atene, Roma, Alessandria e Bisanzio divennero il buio pagano, peccaminoso, da cui non c’era niente da imparare.

È stato più volte notato che la religione che Maometto riesce ad imporre, e con cui unifica le tribù in guerra perpetua le une contro le altre, è un calco dei grandi monoteismi giudaico e cristiano, con influssi zoroastriani; un miscuglio che fu accettato dalle kabile perché Maometto lo etnicizzò, rispettando ed adottando le manifestazioni ancestrali della religiosità beduina, i riti delle tribù del deserto, l’espressione poetica, i millenari luoghi di culto pan-arabi come il santuario (politeista) della Ka’aba.

È significativo il fatto che il Profeta appartenga alla kabila Quraysh, la dinamica tribù della Mecca a cui si deve la proposta alle altre kabile di una tregua annuale, della durata di quattro mesi, per consentire i pellegrinaggi (alla Ka’aba politeista, centro di culto per tutti) – e il commercio. Maometto stesso, dopo il matrimonio con la ricca vedova mercantessa, era un agiato ed esperto carovaniere: sicuramente ben conscio della necessità di reinstaurare la sicurezza delle carovane e degli scambi, spezzando dove occorra le dissidenze tradizionali e le ostilità pullulanti per garantire le vie di circolazione e la pace dei mercati di scambio. Lo fa con la sua predicazione, ispirata (dice) dall’arcangelo Gabriele, rivolta specificamente all’etnia beduina; in pochi decenni riesce nel miracolo di unificare questo pullulare di gruppi mentalmente separati ed ostili nella religione e nella spiritualità, ma – non meno cruciale – in unità linguistica e politica, restituendo alla divisa comunità araba, sopravvissuta ad una apocalisse, la fiducia in sé. In breve, risolve la crisi economico-morale provocata dal crollo dell’antichissima diga di Ma’arib; impone una autorità unica laddove non ve ne era più alcuna; ristabilisce l’ordine smarrito nell’anarchia; reprime le faide; ciò porta ad una vera rinascita economica, a cui anche le altre comunità religiose si accomodano, perché esse stesse ne traggono profitto.

Paradossalmente, il cristianesimo arabo rifiorisce, anzi conosce il suo apogeo proprio nel VII° secolo, sotto la benevola protezione di Maometto, come dimostrano le magnifiche chiese e i grandi monasteri, costruiti proprio allora sulle coste arabe e nelle isole del Golfo Persico. Il «Rescritto di Medina», che Maometto impose verso il 622 o 624 come formale atto di pacificazione dei clan di «Yathrib» (in seguito La Medina) include coi musulmani gli ebrei, i cristiani e i pagani . Ai non-musulmani, il Rescritto riconosceva il diritto alla protezione (dhimma) di Allah , uguale per tutti; ad essi riconosce pari diritti cultuali e «politici» pari ai musulmani. Stabilisce la libertà di culto, il ruolo di Medina come sacro e inviolabile (haram) da cui dunque erano bandite la violenza e le armi, un sistema giudiziario inteso a risolvere le faide tra le kabile, determinando forme di pagamento del «prezzo del sangue»: il che significa superare la legge del taglione d’origine biblica (occhio per occhio, dente per dente) stabilendo un sistema di indennizzi tra famiglie e tribù per compensare la parte offesa. In una parola, l’Islam fu civilizzatore.

La «parità» relativa riconosciuta ai non musulmani era probabilmente intesa come compromesso temporaneo dallo stesso Maometto. Fatto sta che, finché visse, il Profeta vi tenne fede. Fu sotto i primi califfi, carismatici ed autoritari successori, che l’Islam uscì in armi dalla penisola arabica, dandosi alle tremende conquiste e conversioni a fil di scimitarra. Secondo certi storici, l’espansionismo guerriero fu in qualche modo una conseguenza dell’enorme successo economico ne della eccezionale ricchezza rapidamente ritrovata, che comportò un aumento mai visto di potenza militare. E il jihad, la guerra santa, un sagace espediente politico per unificare le tribù, sempre minacciate dal loro particolarismo, lanciandole nella grande impresa della conquista del mondo, e distraendole dai loro antichi conflitti tribali (2).

La guerra viene tuttavia in qualche modo istituzionalizzata, un oggetto regolato dal diritto. Certo, un diritto islamico e beduino, che prevede norme per la spartizione del bottino, di cui un quinto va devoluto al Tesoro pubblico. Ma certo non è solo a forza di terrore e di oppressione se in pochi decenni l’impero islamico si estende dall’India alle coste atlantiche del Marocco e della Spagna, spazzando via la potenza di e la luminosa cultura dell’eredità ellenistico-romana, del regno sassanide e smangiando progressivamente l’impero cristiano di Costantinopoli: molte genti trovarono la loro convenienza in una conversione che li faceva partecipi della ricchezza economica e dei traffici. Solo Bisanzio oppose per secoli una dura e solitaria resistenza, ohimè tradita dal Cristianesimo d’Occidente, fino alla caduta nel 1453 sotto le cannonate ottomane e le stragi dei giannizzeri.

Costantino XI Paleologo
  Costantino XI Paleologo
La notte del 28 maggio 1453 fu celebrata l’ultima messa cristiana , nella basilica di Santa Sofia, stupefacente gioiello dell’architettura di Roma, cui parteciparono i greci coi latini rimasti assediati in città. Il giorno dopo l’ultimo imperatore, Costantino XI Paleologo, rifiutò i consigli dei ministri di esfiltrare dalla città e mettersi in salvo: «Non vi lascerò mai, ho deciso di morire con voi». Si armò di tutto punto, indossò la lorica musculata – la corazza romana antica, immortalata nelle statue degli imperatori passati, da Augusto a Costantino – indossò gli imperiali calzari di porpora, il mantello purpureo, e fece innalzare le insegne imperiali – le aquile di Roma – ed affrontò la battaglia, e la morte. La Chiesa ortodossa lo celebra come santo e martire.

Perché ho raccontato questa storia? Non so. Qualcosa che ha a che fare con l’evidenza che anche la nostra civiltà, con la sua inaudita prosperità materiale e i suoi fondamenti civilizzatori, stanno subendo un collasso epocale, escatologico. Dalla parte beduina, una simile apocalisse fece sorgere una fede nuova e una nuova nascita. Dalla parte di Bisanzio, una dignità esemplare, testimone di un’altezza spirituale con profonde radici.

Vediamo segni dell’una o almeno dell’altra, nella nostra regressione attuale? Davvero, «ormai solo un Dio può salvarci», secondo il detto di Heidegger? Il ritorno del Salvatore?




1) Un passo del Corano riflette l’ammirazione invidiosa del mercante arabo, che fu Maometto, per l’oasi di Marib e i suoi dominatori. «Situammo tra loro e le città che avevamo benedetto, altre città visibili [l’una dall’altra] e calcolammo la distanza tra loro. Viaggiate di notte e di giorno, in sicurezza. Dissero: “Signore, aumenta la distanza tra le nostre soste. Così danneggiarono loro stessi. Ne facemmo argomento di leggende e li disperdemmo in ogni luogo». Sura 34, 18-19). I commentatori islamici così spiegano il passo: «La regione che i Sabâ’ abitavano era talmente abitata e ricca di acque che le carovane non avevano nessun bisogno di caricarsi di provviste per attraversarla. Avidi di guadagno, i Sabâ’ pregarono Allah (gloria a Lui l’Altissimo) che modificasse quell’ habitat, lo rendesse più ostile in modo tale da riservare il commercio solo alle grandi e potenti carovane che essi stessi controllavano. Allah li punì per la loro ingratitudine e il loro egoismo».
2) Altra conferma, se ce ne fosse bisogno che «le grandi nazioni non si fanno dal di dentro, ma da fuori; solo una grande politica internazionale, politica di grandi imprese, rende possibile una feconda politica interna unitaria», e che «non è lo ieri, il passato comune, decisivo per l’esistenza di una nazione (...) le nazioni si formano e vivono da un programma per il domani» (Ortega y Gasset, Espana Invertebrada). Se l’Italia abbia un programma per il domani, e se questa assenza non sia la causa del nostro pullulare di gruppi minimi e particolarismi miopissimi che distruggono quel poco che resta di spirito nazionale, è cosa su cui è facile riflettere.


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