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Psicopatici sigillati nel loro ghetto
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Come sanno i nostri lettori (ma non quelli dei «grandi giornali», che non ne parlano mai) Israele ha costruito un Muro dell’apartheid per separarsi dai palestinesi. Lungo 700 chilometri, al costo di almeno 2,5 milioni di euro a chilometro, il Muro serpeggia qua e là erraticamente sul terreno, allo scopo principale di separare fisicamente gli ebrei dagli impuri palestinesi, e quello aggiuntivo di smangiare e rubare territorio ai medesimi: meno del 20% del Muro segue i tracciati della cosiddetta Linea Verde, la frontiera che Israele dovrebbe rispettare. Ma sotto il pretesto della sicurezza (degli insediamenti illegali di fanatici), il muro dell’apartheid di fatto completa l’annessione di territori altrui. Dividendo villaggi, separando famiglie palestinesi dai loro campi e dai loro vicini, rendendo loro impossibile la vita, che è in fondo loro scopo finale.
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Questo Muro è praticamente completato, anche se sono ancora in corso ritocchi qua e là, onde rubacchiare ancora qualcosina ai poveretti che gli ebrei hanno rinchiuso nei Territori Occupati (West Bank nella cartina del Guardian). Poi c’è il muro che chiude completamente la striscia di Gaza, 32 miglia di cemento armato affiancato da alti reticolati fra cui scorre un sentiero di sicurezza che solo le guardie israeliane possono percorrere. Finito anche quello.

Ma Israele non si sentiva ancora al sicuro. Così, ha cominciato a stendere un altro muro, questa volta lungo la frontiera con l’Egitto attraverso il deserto del Sinai: 230 chilometri di reticolati e abbondanti rotoli di filo spinato, punteggiati di dispositivi di allarme e di raccolta d’informazioni molto sofisticati su tutto quel che avviene lungo la linea.



Lo scopo evidente è di scoprire e rigettare le infiltrazioni delle tribù beduine, che spesso portano in Israele quei clandestini dall’Africa, somali, sudanesi, eritrei. Una volta penetrati in Israele per campare, trovano qualche miserabile lavoro e finiscono per restare; e fanno tanto orrore alla popolazione ebraica timorosa, giustamente secondo le arringhe dei loro rabbini, che un sangue così inferiore guasti «il carattere ebraico dello stato d’Israele», insomma la sua purezza razziale.

La nuova barriera nel deserto è alta cinque metri e costeggiata da un camminamento, per elevarla sono state usate 45000 tonnellate di acciaio, ed è costata 430 milioni di dollari (ma pagano i contribuenti USA). Di essa Sion ha completato già il primo tronco il 2 gennaio scorso. Entro tre mesi conta di completare la sezione finale, di 14 chilometri. A quel punto il recinto scorrerà ininterrottamente da Eilat (sul Mar Rosso) alla striscia di Gaza, dove si collegherà al Muro già esistente. Da quella parte, Israele è completamente sigillata nel suo ghetto.



Netanyahu è venuto ad inaugurare il tratto del ghetto in pompa magna: in campagna elettorale, il tema della «sicurezza contro i goym infiltrati» porta un sacco di voti. «Questo successo ci incoraggia a cominciare i lavori sulle altre frontiere. In avvenire chiuderemo tutti i confini di Israele», ha proclamato lo psicopatico. I paranoici razziali hanno applaudito.



Detto fatto, per realizzare il sogno dei suoi ebrei, quello di circondarsi di filo spinato nel loro ghetto impenetrabile da «Amalek» da «Edom» e dai Filistei, Bibi ha annunciato il 6 gennaio la costruzione di una barriera fortificata sulle alture del Golan: altri 70 chilometri lungo la frontiera siriano-israeliana. Deve proteggere lo Stato ebraico da eventuali incursioni di gruppi terroristici jihadisti impegnati nella guerra al regime degli Assad. Più precisamente, deve calmare le ansie psicanalitiche dei «coloni» fanatici che sono andati ad occupare questo territorio (siriano) in una dozzina di colonia illegali, per giudaizzare il sacro suolo che loro giudicano di Israele, e non dormono tranquilli.



Ma la gabbia non è ancora completa. Bisogna riconoscere che lungo la frontiera con la Giordania non c’è un Muro, e nemmeno nella porzione non contestata della frontiera con la Siria; l’ebreo si sente sgradevolmente esposto da quella parte, gli arrivano i fiati impuri di Amalek e di Edom. Ma tranquilli, pii eletti: è già totalmente progettato, e sarà costruito al più presto, un tronco di 240 chilometri lungo il confine Ovest con al Giordania, e il costo, 360 milioni di dollari, sarà pagato dai soliti servi goym.

Su questo, un ente finanziato dall’Unione Europea, il «Monitoring Israeli Colonizing activities in the Palestinian West Bank and Gaza» (incredibilmente esiste qualcosa del genere), ha espresso un parere sorprendentemente allarmato ed esplicito. Traduco:

«La decisione israeliana di installare una chiusura di sicurezza lungo la frontiera giordana ha una dimensione ancor più grave della degradazione delle condizioni di vita dei palestinesi. Il fiume Giordano è frontiera naturale riconosciuta sul piano internazionale. La diplomazia israeliana dei Muri punta in realtà ad allargare il territorio israeliano dal Mediterraneo ad Ovest fino alle rive del Giordano ad Est, dimenticando il popolo palestinese ed il suo diritto ad uno Stato, del quale la frontiera giordana sarà la principale porta d’entrata e d’uscita verso il mondo. Così, la barriera di sicurezza alla frontiera giordana promuove il peggiore scenario immaginabile: lo spostamento di tutti i palestinesi verso la Giordania, scenario favorito da certi gruppi israeliani e leader politici, i quali vedono nell’esistenza del popolo palestinese una minaccia continua all’esistenza dello Stato ebraico». (La technique d’Israël d’imposer des faits sur le terrain pour saboter la solution à deux Etats)

Manca ancora un buchetto? Eh sì, lungo la frontiera col Libano. Ma un muro di due chilometri ed alto almeno cinque metri è in via di realizzazione dal 30 aprile 2012. Il suo scopo: separare la «colonia» talmudica di Metula dal villaggio libanese di Kfar Kila: erano disturbati dagli sputi che gli abitanti libanesi gli salivavano contro quando li vedevano... a giusta distanza d tiro. (A la frontière avec le Liban, Israël érige un mur)

Qualcuno mostra disagio per questa corsa all’auto-ghettizzazione. «Siamo diventati una nazione che si imprigiona dietro dei recinti e si accuccia, terrorizzata, dietro scudi difensivi», ha scritto l’analista israeliano Alex Fishman: questa è «una malattia mentale nazionale». Finalmente qualcuno di loro ha avuto il dubbio.

Del resto è una malattia di vecchia data. Contrariamente alla leggenda vittimista, in Europa erano gli ebrei stessi che volevano costituirsi in ghetti nelle città europee fin dal Medio Evo; a Mantova e Ferrara chiesero loro, con petizione ai prìncipi locali, che i loro ghetti fossero circondati da mura, perché la troppo italianamente cordiale gente del posto non finisse per integrarli, «sposando le nostre figlie».

La peculiare psichiatria ebraica non sfuggiva nemmeno a personaggi insospettabili. Scopro per esempio una nota del presidente americano Harry Truman nel suo Diario personale, datata 21 luglio 1947: «Gli ebrei, trovo che siano molto egoisti. Quando hanno potere, politico o materiale, né Hitler né Stalin reggono il confronto quanto a crudeltà o abusi contro i deboli». (“The Jews, I find are very selfish... When they have power, physical or political, neither Hitler nor Stalin has anything on them for cruelty or mistreatment to the underdog”.)

Invece, sorprendentemente, a tentare gesti di amicizia e di simpatia col potente e pericoloso vicino è il nuovo regime egiziano. Il nuovo presidente Mohamed Morsi, che poco prima di prendere il potere definiva gli ebrei «succhiatori di sangue, discendenti di maiali e di scimmie», appena posto l’islamico didietro sulla massima poltrona ha intavolato un’affettuosa corrispondenza col presidente israeliano Shimon Peres.

Essam El-Erian
  Essam El-Erian
Tanto affetto può spiegarsi probabilmente con la necessità di non perdere i 4-5 miliardi di aiuti dagli Stati Uniti. Fatto sta che un’altra alta personalità dei Fratelli Musulmani, Essam El-Erian, consigliere stretto di Morsi e vicepresidente del partito Giustizia e Libertà (vetrina politica della Fratellanza) ha invitato gli ebrei ex egiziani che hanno fatto aliyah in Giudea, a ritornare in Egitto. La maggior parte degli ebrei egiziani pensò bene di emigrare in fretta nel 1954, quando si scoprì che una serie di attentati avvenuti ad Alessandria e al Cairo contro negozi, cinema e altri edifici di proprietà e interesse dei britannici o americani, attribuiti dalla propaganda occidentale a fanatici islamici anti-occidentali, erano in realtà operazioni false-flag commesse dal Mossad per screditare il governo di Nasser agli occhi degli Stati Uniti. Con l’aiuto attivo di ebrei abitanti in Egitto, volonterosi attentatori materiali, uno dei quali fu scoperto quando la bomba che portava gli esplose in tasca (questa vicenda è nota come «Lavon Affair», o scandalo Lavon, dal ministro israeliano che ordinò gli attentati).

Nasser instaurò un regime laico, e ciò ne ha fatto un nemico storico dei fratelli musulmani. Non è un caso quindi che il sullodato El-Erian nell’invitare gli ebrei a tornare, abbia ripetuto la tipica menzogna (ebraica) secondo cui Nasser avrebbe espulso gli ebrei. La politica di Nasser era considerare tutti, ebrei e copti compresi, cittadini alla pari del nuovo Egitto. Il procuratore che resse l’accusa contro gli ebrei autori degli attentati del ’54 ripeté la posizione ufficiale quando disse in aula: «Gli ebrei d’Egitto vivono tra noi e sono figli dell’Egitto. L’Egitto non fa differenza tra i suoi figli, siano musulmani, cristiani o giudei. Questi accusati sono ebrei che risiedono in Egitto, ma noi li processiamo per i crimini che hanno commesso contro l’Egitto per essendo figli dell’Egitto» (History of the Jews in Egypt)

L’infondata accusa di El-Erian ha suscitato grandi polemiche sui media, e i giornali egiziani hanno rievocato il gran numero di personalità e celebrità (fra cui l’attrice ebraico-egiziana Leila Murad) che il pubblico rispettava ed applaudiva, e che Nasser in persona aveva decorato di medaglie al merito. Nasser non ha mai cacciato nessuno per ragioni etniche o religiose. Alla fine persino Morsi ha preso le distanze da El-Erian: «Ha espresso un punto di vista personale, non del partito».

Più preoccupante un altro «nuovo amico» che Sion ha in Egitto: Maikel Nabil, un blogger ed attivista copto egiziano, filo-israeliano sfegatato, è stato invitato in Israele dove è stato salutato come un «eroe della rivoluzione egiziana». Il viaggio è stato finanziato da «UN Watch», un organismo emanazione del Congresso Ebraico Americano. Nella blogosfera di un certo tipo, Nabil è un eroe perché è stato messo in galera dai militari egiziani per vilipendio, ed è stato liberato anzitempo per una mobilitazione internazionale su internet. Ma soprattutto perché pochi giorni prima della caduta di Mubarak, il giovanotto aveva postato sul suo blog un video dove chiedeva ad Israele di «solidarizzare con la rivoluzione egiziana», dal momento che «la democrazia e i diritti umani sono valori israeliani».



Certo, come no.

Preoccupa l’accento sul fatto che Nabil sia della minoranza copta, benché lui in persona si proclami «ateo, laico e filo-israeliano». Viene il dubbio che questo eroe si presti ad infiammare la frattura già ben presente tra i mussulmani e i cristiani d’Egitto. Dando una mano al progetto ebraico, delineato a suo tempo dalla rivista Kivunim (Direttive) di smembrare gli Stati islamici per linee etniche e religiose.



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