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Oltre l’Occidente: note su Francesco e Tommaso
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La difficile congiuntura storica dei secoli XI-XIII

Tra gli eventi storici dei quali quest’anno cade l’anniversario ve ne è uno che sicuramente non sarà affatto celebrato o se sarà ricordato lo sarà mantenendo un profilo estremamente basso. Ottocento anni fa, nel 1209, un pellegrino penitente, vestito di stracci, proveniente da Assisi, di nome Francesco di Bernardone, ed i suoi pochi compagni, veniva portato al cospetto dell’uomo che, in quanto vicario di Cristo e successore di Pietro, era non solo il Papa della Chiesa romana, ossia universale, Innocenzo III, ma anche una delle due massime autorità della Cristianità occidentale, essendo l’altra l’imperatore. In realtà, però, il Sacro Romano Impero era già da tempo sulle difensive di fronte alle pretese teocratiche della curia romana che, sin dai tempi di Gregorio VII, rivendicava per il Pontefice un potere, più o meno indiretto, anche in temporalibus. L’impero di lì a poco, con Federico II ed i suoi ultimi e sfortunati successori, avrebbe posto termine alla sua parabola. L’ideale imperiale, perseguito senza successo dagli imperatori della casata sveva, era stato il ripristino, sul modello bizantino, del «cesaropapismo» ottoniano, con la subordinazione del Papa all’imperatore ed il controllo imperiale sull’elezione papale, cosa questa che, benché ai tempi di Ottone I avesse sottratto l’elezione del Pontefice agli intrighi delle famiglie patrizie dell’urbe, aveva però col tempo finito per fare della Cattedra di Pietro la cappellania di corte dell’imperatore.

La Chiesa romana, dal canto suo, in quei secoli si trovò costretta tra la necessità di difendere la propria «libertas» dalle ingerenze dei poteri mondani, contestualmente riaffermando il suo primato anche sulle altre chiese della Cristianità tentate da istanze francamente centrifughe, e il mantenersi fedele al messaggio evangelico di carità e povertà congiunte alla fede nella Verità definitivamente rivelata da Cristo, il Verbo Incarnato del Dio di Abramo. La difesa della «Libertas Ecclesiae» era stato l’iniziale e legittimo movente della riforma iniziata dai Papi che precedettero Gregorio VII e da quest’ultimo fatta poi trionfare. Ma, come forse era inevitabile nella logica teologico-politica medioevale, dalla difesa della libertà della Chiesa si scivolò, facilmente ed illegittimamente, verso la teocrazia, ossia verso la pretesa del diretto potere curiale anche nella gestione delle cose temporali. Se un tale potere diretto è, infatti, sempre estraneo alla missione affidata alla Chiesa dal Suo Fondatore, legittimo è invece il diritto della Cattedra di Pietro ad annunciare, urbis et orbis, la Verità rivelata da Cristo invitando la coscienza dei singoli e delle comunità, dunque anche quella dei sovrani e delle comunità politiche, a scoprire ed attuare, per quanto umanamente possibile nelle circostanze storiche di volta in volta date, la Sua Giustizia ed il Suo Amore: «Cosa sono senza la Giustizia gli Stati, se non torme di briganti?» diceva Sant’Agostino. La difficoltà nella quale si trovò costretta la Chiesa di quei secoli consisteva nel fatto che la difesa della «libertas ecclesiae», in termini umani, comportava necessariamente l’uso di mezzi politici ed economici. La qualcosa aveva enormemente aumentato il potere nonché la ricchezza della Chiesa con grande scandalo del popolo cristiano, sia degli uomini di lettere, si pensi ad un Dante Alighieri, sia dei semplici. Soprattutto questi ultimi, poi, per reazione spesso finivano per abbracciare le eresie pauperistiche e millenaristiche delle quali l’epoca pullulava. Eresie che in realtà in molti casi nascondevano dietro apparenza cristiane vere e proprie religioni di matrice gnostica. Come, ad esempio, nel caso del catarismo i cui esponenti apparivano agli occhi del popolo molto più evangelicamente «poveri» che non i ricchi e potenti prelati del tempo. Insomma, si aggiunga, a questo quadro storico, il problema, che assillava tutti i Papi dei quei secoli, del «passagium» generale o «peregrinatio» in Terra Santa, ossia di quella che noi, per terminologia inappropriata ereditata dall’illuminismo, chiamiamo erroneamente «crociata», problema che comportava anch’esso la necessità di accentrare potere politico ed economico nel Papato, e si può ben comprendere quale difficile se non impossibile, umanamente parlando, «quadratura del cerchio» avesse di fronte a sé la Chiesa di Innocenzo III per tentare di tenere insieme il Vangelo ed il suo messaggio di Amore con la visibile corporeità gerarchica e sociale della Chiesa.

 

Francesco lanti-occidentale

Quel giorno del 1209 Francesco offrì a Papa Innocenzo III quella «quadratura del cerchio» che la Chiesa del tempo cercava affannosamente per tenere insieme Profezia e Istituzione, Carisma e Gerarchia, Fede e Ragione: un’impresa che sembrava sempre più impossibile. Francesco, in un’età percorsa da evangeliche istanze di umiltà e povertà che però, come si è detto, spesso finivano nell’eresia, dimostrò al mondo come fosse possibile la vita in povertà nell’obbedienza a Santa Romana Chiesa. Che, detto altrimenti, significa mettere insieme Verità e Carità, nell’armonia dell’«et-et», verticale, tipicamente cattolico.

 

E’ esattamente per questo che Francesco è stato radicalmente «antimoderno» ed «antioccidentale».

 

Proprio lui, il ricco ed allegro «rex iuvenum», il «rex unius diei» del calendimaggio, che nacque agli albori di quel vorticoso affermarsi della civiltà del denaro e del credito alla quale, per casato natio, apparteneva a pieno titolo.

 

Francesco, che, pur di natali «borghesi» e non nobili, aveva tutte le carte in regola per un’ascesa fino al vertice della gerarchia sociale del tempo, ascesa dal padre auspicata e per la quale, e non si dica che non fu genitore premuroso ed attento, aveva preparato il figlio, rifiutò non solo la ricchezza ma ogni forma di avere e di potenza.

 

Egli rifiutò persino il potere che deriva dalla sapienza. Su questa, la conoscenza come forma di orgoglio, egli polemizzò con il suo contemporaneo, ed altro grande santo francescano, Antonio da Padova che proveniva da Lisbona ed era uomo coltissimo. Incontrando Antonio, forse Francesco per un momento ammise che la sapienza ben può convivere con sorella umiltà.

 

Francesco resta tuttavia l’anti-nicciano per eccellenza. Il suo rifiuto della Volontà di Potenza è stato totale.

 

Ma l’Occidente, dopo di lui, ha seguito altre strade, proprio quelle della Volontà di Potenza, di volta in volta ideologica, politica, scientifica, di mercato, magari continuando a dirsi cristiano mentre era solo «umanitario».

 

L’Occidente ha così preferito la ratio attiva alla ratio contemplativa, fino a fare della prima l’istanza prioritaria ed assoluta che lo avrebbe condotto, nell’apoteosi del pragmatismo, che non a caso ha trionfato nel mondo anglosassone, verso il dominio della tecnica sullo spirito e quindi verso il nichilismo anziché verso il fecondo «coltivare» il mondo.

 

«Coltivare» viene dal latino «colo» il cui participio sostantivato suona «cultum».

 

Il coltivare la terra è dunque, etimologicamente, in stretta connessione con l’atto del «culto» e con quel che ne deriva ossia la «coltura/cultura». Il coltivare, ossia il prendersi cura del creato, in quanto opera strettamente connessa con il «culto», significa, secondo il comando biblico, anzitutto contemplare la creazione in atto di adorazione del suo Creatore. «Fatti non foste per vivere come bruti, ma per seguire virtute e conoscenza», cantava Dante (1).

 

Ora, è esattamente qui che sorgono i problemi dell’Occidente post-cristiano.

 

Il Dio biblico ordina all’uomo di essere fecondo e di dominare la terra. In apparenza sembra che l’Occidente post-cristiano abbia seguito il comando di Dio mentre Francesco, per seguire alla lettera il Vangelo, abbia invece rinunciato alla fecondità ed al «dominio» del creato.

 

Solo in apparenza, però. Perché Francesco non era un cataro. Egli non ha predicato la religio mortis dell’endura ma la Religio Vitae di Cristo, Incarnazione del Dio che ha ordinato all’umanità di essere feconda e dominatrice.

 

Il problema non è meramente «ecologico» e invece squisitamente «teologico»: come può ottenersi la quadratura del cerchio tra l’ordine divino di fecondare e dominare la terra e la rinuncia evangelica seguita da Francesco?

 

In realtà, non c’è affatto contraddizione. Nel suo ammirevole «Cantico delle creature», Francesco si mostra davvero fecondo e «dominatore» nel senso più autenticamente biblico. Egli «domina» la creazione contemplandone le perfezioni a lode del Creatore. Risalendo dalle perfezioni creaturali al Creatore, Francesco coglie l’Infinita Perfezione dell’«Altissimu, onnipotente, bon Signore». Nel film, per certi versi ancor oggi insuperabile, di Franco Zeffirelli, «Fratello sole e sorella luna», il Cantico è messo in musica con parole tali da esprimere la centralità dell’uomo, quale vicario di Dio, in un cosmo concepito come gratuità, come Caritas: «Dolce sentire come nel mio cuore sta nascendo Amore; dolce scoprire che non son più solo ma che son parte di una immensa vita che generosa si stende intorno a me, dono di Lui e del suo immenso Amore».

 

Qui, proprio qui, nella prima poesia scritta in lingua volgare della nostra letteratura, Francesco si fa vero esegeta del Genesi, e di tutta la Scrittura, ed indica in che cosa consista veramente l’obbedienza dell’uomo all’originario comando biblico.

 

Dominare, dunque, non è esercizio di «appropriazione», non è lo «ius utendi et abutendi». La vocazione biblica dell’uomo al comando è soltanto il difficile governo della cosa altrui, è il difficile ruolo dell’amministratore che sa di essere sempre sub judicio perché sarà chiamato a rendere conto all’unico vero Padrone. Dominare è, secondo la parabola evangelica dei talenti, far fruttare quanto all’uomo affidato dal Padrone. Appunto: coltivare la terra nel culto al Dio Altissimo.

 

Non si può «dominare» in senso biblico prescindendo dalla Sapienza, dalla contemplazione e dall’adorazione. E’ qui che fa capolino il problema della Verità. L’uomo che coltiva la terra è l’uomo che adora il Creatore. Se l’uomo smette di adorare per solo coltivare finisce preda dell’auto-idolatrica «libido dominandi», che è corruzione del suo ruolo di reggente vicario del creato.

 

Il testo del Genesi segue un ritmo sabbatico modulato sul numero 7. Dio stesso opera per sei giorni ma al settimo si riposa. L’uomo per sei giorni è chiamato a farsi fecondo verso se stesso ed il prossimo e ad abbellire il creato, ma il settimo deve riposarsi nell’adorazione del Signore. Se non segue questo ritmo, l’uomo diventa preda della Volontà di Potenza.

 

L’uomo occidentale, più di altri, forse proprio perché egli ha radici ebraico-cristiane, e dunque perché lui solo avrebbe potuto, come effettivamente ha poi fatto, pervertirle, ha commesso esattamente questo peccato: tentato dalla Volontà di Potenza, ha smesso di adorare il Suo Creatore.

E’ questo l’inganno del peccato originale: «Eritis sicut dei»! La pretesa auto-deificatoria di «essere come Dio» senza però la Grazia che viene dall’adorazione.

 

Responsabilità di Tommaso?

La svolta è avvenuta all’alba della modernità, a partire, con decisione, dal XVI secolo. Ma possono rinvenirsi responsabilità precedenti?

 

Si discute molto, in questi nostri anni, circa la morte delle ideologie, che furono il prodotto del pensiero forte di matrice razionalista, e l’avanzare inesorabile del pensiero debole, post-razionalista, post-moderno. C’è chi applaude e chi denuncia.

 

Anche in ambito cristiano. Ai neo-crociati, i «cristianisti» per dirla con Remì Bragué, quelli che identificano Occidente e Cristianità, Volontà di Potenza e Dio biblico, razionalità tecnologica e Sapienza metafisica, si oppongono i terzomondisti, i «cristiano-buonisti», quelli che rigettano lo sviluppo occidentale in nome del pauperismo.

 

Sia gli uni che gli altri si rivelano fondamentalisti. I primi nel voler imporre, a differenza di Francesco, il pauperismo a tutti mediante strumenti normativi. I secondi nel voler imporre a tutti, sempre per legge, l’etica naturale, da essi strumentalmente identificata con l’etica del mercato.

 

Entrambi confidano nelle potenzialità palingenetiche della politica e dell’economia. I primi dimenticando che la povertà evangelica è sempre scelta volontaria del cuore e che essa conosce tradizionalmente una grandissima graduazione di livelli sicché si può essere «poveri» anche vivendo modestamente o usando bene in favore del prossimo le proprie sostanze e non accettando per costrizione un sistema legale di indigenza collettiva pressoché totale. I secondi dimenticando che se è vero che il diritto di natura è coessenziale alla natura umana è però altrettanto vero, causa il peccato originario, che quella natura è ferita sicché, più che la legge esteriore, al suo risanamento necessità l’adesione del cuore alla fede che rende quell’etica pienamente visibile e per grazia anche praticabile.

 

Il modello dei «buonisti» è stato in passato il comunismo sovietico ed è oggi l’anarchismo orgiastico e necrofilo dei no-global. Il modello dei «cristianisti» è stato in passato il conservatorismo più o meno liberal-autoritario ed è oggi il liberismo decisionista neocons che cerca l’alleanza con un cristianesimo ridotto però a moralismo e quindi atto a garantire, come fu nell’Inghilterra vittoriana, un rigido controllo etico-sociale favorevole al totalitarismo di mercato.

 

Tra XIII e XIV secolo nelle Università europee, mediato dal mondo arabo ed islamico, tornò dirompente l’aristotelismo. Fu, quella, l’epoca della scolastica e delle grandi «Summae» teologiche.
La grande epoca delle cattedrali gotiche e dell’Aquinate.

 

Molti imputano a questa svolta l’inizio della deriva razionalista dell’Occidente cristiano. Da Tommaso a Kant, secondo costoro, il passo sarebbe stato fin troppo breve e consecutivo. Nel trionfo della logica sillogistica la fede sarebbe morta proprio in ciò che di più mistico ed autenticamente metafisico essa possiede.

 

Contestualmente, sempre secondo questa tesi, e con buona pace di Max Weber che ne attribuiva invece il merito all’etica protestante, proprio in quei secoli medioevali, quelli del pensiero scolastico, si registra la grande rinascita economica e commerciale, si scopre la partita doppia e si pongono le basi per lo sviluppo dell’economia capitalista che non disdegnò sin dall’origine di essere, nonostante i divieti della Chiesa, economia usuraia e di rapina, con tratti di anticipazione del successivo colonialismo.

 

Oggi molti cattolici, sulla scorta di Micheal Novak, il cattolico ex progressista ora neocons, propugnatore ecclesiale della suddetta tesi, fabbricata da alcuni storici e sociologi statunitensi ad usum delphini, inneggiano alla matrice cattolica del capitalismo e si ergono a difensori del Pensiero Forte, dell’Occidente Virile e «Crociato», contro il «catto-comunismo» ed il relativismo etico che essi impuntano solo ed esclusivamente al Pensiero Debole nichilista.

 

Ci permettiamo di dichiararci del tutto in disaccordo con questa esegesi storico-filosofica.

 

E’ possibile affermare che l’economia della rinascenza medioevale abbia gli stessi caratteri individualistici necessari all’affermarsi del capitalismo nella sua formulazione occidentale ossia liberista? Persino un ragazzo appena avvezzo di cose storiche risponderebbe di no o perlomeno che la tesi americana di Novak e soci è troppo semplicistica e fin troppo scopertamente «politica».

 

Anche il mondo islamico ha conosciuto sin da quei secoli medioevali una propria sviluppata finanza ma non ha poi conosciuto il capitalismo nella sua forma liberista. Immediata la replica dei catto-liberisti: il mondo islamico non ha conosciuto lo sviluppo capitalistico occidentale perché non ha o si è privato dell’apporto ellenistico. Una barzelletta, questa replica, se si pensa, per fare soltanto l’esempio più eclatante, che senza il mondo islamico Aristotele non sarebbe tornato in Europa. E’ perfettamente vero che l’islam a sua volta assunse il pensiero aristotelico dal mondo greco-bizantino, e dunque cristiano ortodosso, ma questo nulla toglie all’islamicità delle vie che la Provvidenza, sempre così misteriosa nei suoi disegni, ha fatto attraversare allo Stagirita per ritornare in Europa. Se Aristotele, anche a causa dello scisma d’Oriente, non è tornato direttamente nella Cristianità occidentale dalla Grecia e dai Balcani, questo avrà pure un significato nel Disegno imperscrutabile della Provvidenza o no? Tutto questo inter-comunicare tra le culture nate dalla Fede di Abramo non avrà, per l’appunto, un suo significato che sta a noi scoprire? E quale significato potrà avere in senso cristiano? Forse il convergere, ancora potenziale più che attuale, del mondo islamico in Cristo dopo che si è già realizzata la conversione di quello pagano ed in attesa che si realizzi, escatologicamente, la conversione dell’ebraismo?

 

Anche il mondo ebraico, pur in mezzo ai popoli gentili, ha conosciuto, anzi ne è stato in gran parte l’iniziatore, sistemi finanziari altamente vivaci ma non è mai venuto meno, nonostante molte assimilazioni, all’etica talmudica, reinterpretatrice di quella della Torah, che perlomeno, anzi esclusivamente, nei rapporti tra israeliti è un’etica di solidarietà e non di individualismo.

 

Dunque è nel mondo cristiano che qualcosa si è rotto finendo per opporre il frutto alla radice. E’ nel mondo cristiano che è apparso ciò che, in parvenze cristomimetiche, si è posto contro Cristo. Non possiamo affatto meravigliarci di questo perché Giovanni ebbe a rivelarci che l’Impostore sarebbe apparso proprio laddove Cristo ha seminato.

 

Ma, per tornare direttamente a San Tommaso, è possibile affermare che l’Aquinate sia soltanto aristotelico e dunque responsabile del razionalismo che il pensiero dello Stagirita, allo stato puro, porta con sé? O forse abbiamo tutti dimenticato che i maestri più amati di San Tommaso, ai quali nella Summa egli fa constante riferimento, furono, insieme allo Stagirita, Sant’Agostino e Dionigi pseudo-Aeropagita? Non è che, persi nella mera emulazione «scolastica» e «neoscolastica» del pensiero tomista, abbiamo finito per dimenticare che un Tommaso meramente aristotelico non è mai esistito e che è stata, piuttosto, una certa «cattiva» scolastica a costringere la sua teologia, aperta al salto ontologico verso il Mistero, all’interno della sola filosofia sillogistica, che pur - sia chiaro - gli appartiene ma che - sia altrettanto chiaro - non gli è davvero, ed in ultimo, essenzialmente costitutiva, perché in caso contrario non sarebbe tomismo ma mero aristotelismo?

 

Osiamo dire, contro le interpretazioni razionaliste di Tommaso, che il suo «Esse subsistens» è esperienza mistica apo/catafatica del Mistero indicibile e, ad un tempo, tentativo, sempre imperfetto ed alla fine impossibile se preteso integralmente, di tradurre quell’esperienza sovra-razionale in linguaggio razionale, filosofico. Non c’è in Tommaso alcun elogio dell’orgoglio della ragione nell’assurda pretesa di reificare, entificare o cosificare Dio. Non vuole l’Aquinate ridurre Dio a ente della logica ma lodarlo nel suo Infinito Mistero che, pur non negandola, anzi invocandola come indispensabile e necessario punto naturale di appoggio dello stesso Mistero Divino, trascende la ragione. Il Dio di Tommaso non è innanzitutto il «dio dei filosofi», anche se ne parla il linguaggio, ma è il Dio biblico, il Dio vivente,  che si rivela sul Sinai dicendo di sé «Ego sum qui sum»: «Io sono Colui che sono», «Colui che è», ossia, tradotto nel linguaggio filosofico di matrice aristotelica, «Ego sum lEsse subsistens». Il Dio biblico di Tommaso, pur parlando il linguaggio della filosofia, è lo stesso Dio di Francesco. Quel Dio che, analogamente a quanto fece con Mosé sul Sinai, si è rivelato a Francesco sulla Verna, come Cristo/Serafino, stigmatizzandolo con i segni della Passione.

 

Auto-rivelazione del Mistero inattingibile con la sola ragione, ma non precluso in parte ad essa, che contiene implicita una istanza di apofaticità mai però disgiunta da una esplicita catafaticità, perché sul Sinai, e sulla Verna, non si rivela un Dio/Nulla ma un Dio Persona che è sì Essere e tuttavia è Essere Infinito, non imprigionabile nella nostra povera logica razionale, neanche in quella aristotelica.

 

Ed infatti Tommaso non tenta di catturare Dio ma di contemplarLo, benché filosoficamente, e così facendo evita l’equivoco di Heidegger che per timore di «cosificare» il divino si è avventurato sulle strade nichiliste di una «metafisica senza lessere» contribuendo in tal modo al sopraggiungere del Leviatano nazista, prodotto dalla proclamazione nicciana della «morte di Dio».

 

Da una metafisica debole nasce il nichilismo nella forma di irrazionalismo così come dal tentativo di costringere Dio nella sola ragione deriva il prometeismo nella forma di razionalismo.
Paradossalmente, pensiero debole e pensiero forte sono entrambi errori dell’immanentismo.

 

Tommaso affermando la natura come supporto necessario alla Grazia non ha inteso fare prigioniera la Trascendenza nell’immanenza ma solo ricordare che la prima è fondamento della seconda e che la natura umana viene elevata verso il divino, oltre se stessa ma senza perdere se stessa, mediante la deificazione che, questo Tommaso sottolinea fermamente, è sempre dono di Grazia, dono d’Amore gratuito, giammai auto-costruzione dello spirito umano.

 

Tommaso è perfettamente consapevole dell’«et-et» verticale come via maestra indicataci dal Dio biblico. Un «et-et» che fonda l’equilibrio cattolico anche nell’approccio teologico e filosofico al Mistero Infinito di Dio Infinito. Sicché nella sua teologia non c’è solo l’analogia entis ma anche l’equivocità tra Dio, in ultimo indicibile, e la creatura, la cui ragione alla fine deve disporsi a cogliere il Mistero anche, ma non solo, per via di negazione. Negazione del limite di ogni perfezione finita che è solo il riflesso della Perfezione Infinita di Dio.

 

In Tommaso se è vivissimo il senso della somiglianza, è ugualmente vivissimo il senso della dissomiglianza tra Creatore e creatura. Tra Dio e le creature non c’è identità assoluta, sarebbe a dire «identificazione panteistica», ma non c’è neppure assoluta equivocità, sarebbe a dire «alterità incolmabile». L’alterità tra Creatore e creatura è infatti, da ultimo, colmata da Dio che con l’Incarnazione riafferma l’originaria relazione di parentela, filiale, tra l’Altissimo e l’uomo riempiendo, per così dire, lo «spazio» dell’abissale differenza ontologica che sussiste tra l’Essere Infinito di Dio e l’essere finito dell’uomo. Le creature in parte somigliano a Dio e in parte no, perché esse partecipano soltanto, senza identificarsi con esso, all’Essere di Dio. Nel mondo è riflessa l’immagine di Dio ma questo comporta ad un tempo somiglianza e dissomiglianza tra Dio e mondo, ossia «analogia» nel senso che ciò che si predica delle creature si può predicare anche di Dio ma non allo stesso modo e con la stessa intensità.

 

Il mondo così può ben dirsi «sacro» perché la sua relazione di dipendenza da Dio è inscritta originariamente nel suo stesso essere. Si stabilisce qui il senso della Trascendenza di Dio e quindi, conseguentemente, il senso della «teologia negativa». Se è certo che conosciamo qualcosa di Dio, è anche certo che tale nostra conoscenza, come è da noi formulata secondo le limitate capacità della nostra ragione di fronte al Mistero, non riflette mai a pieno la natura di Dio, che resta sempre oltre il sensibile. «Deus non habet essentiam, quia essentia sua non est aliud quam suum esse». Se Dio non ha alcuna essenza perché questa si identifica con il suo Essere, ben si capisce perché la teologia negativa non ha meno dignità, e forse è anche superiore, alla teologia positiva. Noi sappiamo più quel che Dio non è, che quel che Dio è. Per questo l’analogia è più vicina all’equivocità che all’univocità. Ha scritto, in proposito, Cornelio Fabro: «Gli enti partecipano allessere e ciò significa che il loro essere non è lEssere: la differenza è la partecipazione stessa: i molti sono altri dallUno, non fuori dallUno. Grazie alla differenza lEssere e gli enti stanno a un tempo nella più stretta appartenenza e nella massima distanza; partecipare è avere insieme; ma è a un tempo non-essere latto e la perfezione cui si partecipa, appunto perché si partecipa soltanto» (2).

 

Si tramanda che Tommaso quando alla fine della sua vita ebbe, anticipatamente, il dono della visione beatifica non aveva più pace. Aveva finalmente sperimentato misticamente l’Esse subsistens di Dio, ne aveva perfino avuto la consolante approvazione («Bene Me dixit, Thomae», furono le parole che il Crocifisso gli rivolse), eppure da quell’esperienza indicibile ne era tornato convinto che nessuna parola, nessuna filosofia poteva dire Dio. Avrebbe voluto bruciare la Summa e, per nostra fortuna di creature che hanno bisogno anche della filosofia, gli fu impedito.

 

Il vero responsabile

Ma allora, se non è affatto vero che i germi del razionalismo si trovano nell’Aquinate, chi ha rotto l’equilibrio dell’«et-et» tra Fides et Ratio schiudendo all’Occidente la via della secolarizzazione nella duplice forma del prometeismo e del nichilismo, del pensiero forte e del pensiero debole?

 

Diamo subito la risposta e poi argomentiamo: fu Lutero.

 

Il povero e disperato monaco Martino prese, senza dubbio, le mosse da un desiderio «francescano» di humilitas ma incappò nella gnosi del «doppio contrario» che egli declinò in forma teologica cristiana mediante la sua teologia della «contraria specie» (Deus absconditus sub suo contrario). In tal modo la kénosi di Dio, lo spogliarsi umile di Dio, l’abbassarsi pieno di Amore di Dio sulle sofferenze della creatura, fu da Lutero intesa, contro la Tradizione Apostolica, non come, appunto, humilitas ma come annientamento, risoluzione, di Dio nella creatura. Nascondimento, rovesciamento, di Dio nella sua creatura intesa come di specie contraria a Dio medesimo: in tal modo l’analogia è rotta. Tra Creatore e creatura anziché porsi un rapporto di filiazione nell’Amore, per il quale l’uomo, creatura finita del Dio Infinito, è immagine analoga, dunque dissomigliante e tuttavia somigliante, di Dio, viene posta una radicale opposizione dialettica. La kénosi del Verbo per Lutero, che porta a radicale tensione il delicato rapporto tra Dio e uomo fino a lacerarlo irrimediabilmente, assume il significato non dell’umile grandezza della Maestà divina che si piega sull’umanità sofferente, fino ad acquisirne su di Sé natura e dolore, ma dell’annientamento della Divinità di Cristo nell’umanità di Cristo. La strada per l’umanizzazione ateistica del Dio cristiano era così aperta.

 

Per questa via, il luterano «servo arbitrio», fondato sulla convinzione dell’invincibilità del peccato causata della natura umana ritenuta totalmente corrotta, apre la via al rigorismo, alla mortificazione/annientamento dell’uomo peccatore rifiutato da un Dio terribile al quale solo Cristo, frapponendosi tra Lui e l’uomo, impedirebbe di annientare nella condanna eterna la sventurata, e nient’affatto amata, creatura. Nessun vero Amore, nessuna autentica Misericordia, traspare dal «dio» luterano per l’uomo peccatore. Anche l’esperienza della torre, l’auto-esperienza luterana della salvezza, è stata nient’altro che l’esperienza dell’auto-convincimento psicologico, intimistico, di salvezza. Un’ambigua esperienza introspettiva, ossia del tutto rivolta verso di sé, verso il proprio ego in tal modo prometeicamente e soggettivisticamente esaltato anziché con amore oggettivamente aperto all’Amore di Dio, che ha portato Lutero a negare ogni visibilità comunitaria, ecclesiale, della salvezza. Anzi, questa visibilità corporea della Chiesa diventa per Lutero il segno più evidente dell’anticristicità del tirannico ed illiberale Papato. La Chiesa cattolica diventa, in Lutero, la Babilonia apocalittica. L’auto-convincimento introspettivo circa la propria salvezza, che egli sentiva sicura benché, come ogni altro uomo, fosse anche lui di natura totalmente corrotta, fu, per Lutero, l’esito tranquillizzante, ma nient’affatto terapeutico e tanto meno «mistico», di ataviche turbe psichiche, sulle quali molto si potrebbe indagare con le tecniche della moderna psicologia. Turbe che lo accompagnavano sin dalla sua infelice infanzia e che, non a caso, ritroviamo, con le stesse modalità psicogenetiche legate ad un ambiente familiare dissoluto (padre violento e madre semi-impazzita), nella biografia di Adolf Hitler. Sia Lutero che Hitler soffrivano di forti, e similari, scompensi psichici, dalla depressione all’eccitamento collerico. Il luciferinismo spesso si insinua proprio nelle ferite della psiche provocate da mancanza d’amore genitoriale, riflesso dell’Amore di Dio, nei primi anni di vita.

 

Riteniamo in errore coloro che, partendo dall’esistenza di un giovanile Lutero «cattolico», che muoveva da istanze paoline perfettamente ortodosse, credono che nel monaco Martino fosse viva l’invocazione della Grazia trasfigurante e risanante. In Lutero, la convinzione sulla totale corruzione dell’uomo è esattamente quel che impedisce di accettare l’idea della Grazia che trasforma, risanandolo, il cuore dell’uomo, ferito ma non corrotto, come afferma la fede cattolica, dal peccato. La salvezza resta così, per Lutero, sempre un imperscrutabile, ed in fondo irrazionale, decreto di Dio che «copre» il peccato senza cancellarlo, che salva la «cloaca umana» senza elevarla, senza purificarla. E questo comporta la necessità della sottomissione della bête humaine al rigore di una legge implacabile che tuttavia non la può cambiare interiormente.

 

Questo è il senso del «pecca fortiter, sed fortius creda» e del «solus iustus, solus peccator»: la salvezza dell’uomo è solo esteriore, insindacabilmente decisa da un Dio irrazionale, al di là di ogni merito della creatura. Pertanto, l’uomo può anche peccare fortemente, perché a questo è determinato inesorabilmente dalla sua corrotta natura, tanto nulla può davvero salvarlo, ossia cambiarlo interiormente. Per la corruzione insita in lui, l’uomo resterà sempre puro peccato, però esteriormente giustificato ossia coperto, anche in Paradiso, agli occhi di Dio dalla Croce di Cristo.

E’, questo, l’aspetto predestinazionista della luterana «Theologia Crucis». Altro, dunque, che deificazione per Grazia in Lutero, come sostengono alcuni esegeti filo-luterani, dando troppo credito ai cosiddetti «initia Lutheri»! L’uomo luterano è destinato a restare sempre «carne corrotta» che può solo sperare nella «copertura» del Cristo per sfuggire all’implacabile Giustizia di un Dio che è essenzialmente ira senza misericordia. L’uomo luterano non ha alcuna speranza nella trasformazione del proprio cuore per opera della Grazia di Cristo.

 

Se, da un lato, questa teologia comporta un cupo rigorismo ed un’angosciante disperazione, dall’altro lato, paradossalmente (il paradosso è lo strumento tipico di Lutero che lo mutua dall’influsso che su di lui ha esercitato, come ha dimostrato Theobald Beer, la gnosi del «doppio contrario»), il luteranesimo apre la strada, nel momento stesso in cui si svela come terrorismo moralistico, al permissivismo ed al libertinismo. Perché se siamo solo corruzione invincibile e nulla, neanche la Grazia, può cambiarci nel cuore, diventa ipocrita, in ultima istanza, tentare di ergere norme morali a contenimento del peccato. Norme morali che però pur devono essere imposte in esteriore hominis, e devono perciò essere fatte proprie dallo Stato, per contenere gli effetti sociali del peccato. Per Lutero, il peccato che la volontà umana, che si crede libera, pretende di cacciare dalla sua porta, si ripresenterà, immancabilmente, dalla subdola finestra della non volontarietà, a causa del fatto che in realtà l’uomo non avrebbe affatto libero, benché debilitato, arbitrio e non sarebbe pertanto capace della Grazia, che la fede cattolica ritiene trasformante, dell’Amore di Cristo: grazia che così non può che operare esteriormente alla natura corrotta semplicemente «coprendola» anziché risanandone la ferita (3). Lutero riafferma l’antico concetto gnostico, rintracciabile anche nelle correnti eterodosse dell’ebraismo come quelle di Sabattai Zevi e di Jacob Frank, del «peccato salutare», della salvezza che si ottiene attraverso il peccato. Un concetto che Adam Smith e Mandeville hanno tradotto nell’«etica» liberista per la quale dai vizi privati scaturiscono le pubbliche virtù. Un concetto, quello del peccato salvifico, che è alla base di ogni antinomismo; che è alla base dell’anarchismo e del nichilismo. E’ il «cupio dissolvi».   

 

Similmente, il «sola Scriptura» di Lutero, che impone, contro la Tradizione apostolica, il letteralismo esegetico, ha posto le basi del fondamentalismo conservatore proprio nello stesso istante, altro gioco del paradosso luterano, nel quale il «sola fides» ha aperto al soggettivismo esegetico e dunque al liberalismo teologico, fondamento a sua volta di quello politico. Anzi i due, letteralismo e soggettivismo esegetico, si sorreggono a vicenda, perché proprio il letteralismo rigoroso permette, rifiutata la Tradizione ed il magistero, di trarre dalla nuda lettera quel che ciascuno vuole leggervi e, viceversa, di giustificare come prescritto dalla lettera ciò che è solo invenzione teologica o filosofica del «libero esaminatore».

 

La polarizzazione dialettica degli opposti contrari in Lutero distrugge l’equilibrio dell’«et-et», verticale e propriamente cattolico, e chiude la teologia in un fideismo antropocentrico per il quale dalla fede soggettiva, opposta alla ragione, nascono, come proiezioni dell’io soggettivo, sia Dio che l’idolo. Qui già ci sono tutto Cartesio, l’idealismo tedesco ed il suo rovesciamento ateo feuerbachiano/marxiano. Ma anche, a ben vedere, il prometeismo nicciano dell’«oltre-uomo» che subentra al defunto Dio ebraico-cristiano.

 

Dalla distruzione luterana dell’equilibrio tra fede e ragione, lo ha ricordato anche il regnante Pontefice nel suo discorso di Ratisbona del 12 settembre 2006, è nato l’Occidente dei razionalismi e dei fideismi irrazionalisti. Derivano, da qui, dalla rottura dell’armonia cattolica tra Fides et Ratio, sia il pensiero forte e totalizzante, con la sua pretesa prometeica, sia il pensiero debole e nichilista, con la sua libido relativista negatrice della Verità, anzi accusatrice della Verità come nemica della democrazia.          

 

Francesco non era uno gnostico, Lutero sì. E’ per questo che Francesco non negava la bellezza del creato e l’Amore di Dio per tutte le sue creature, mentre Lutero non riesce a vedere nella creazione che corruzione ed in Dio soltanto arbitraria irrazionalità e iracondo giudizio senza misericordia.

 

Manca in Lutero, a differenza di Francesco, l’elevazione della natura umana nella Luce dell’Amore di Dio. Francesco, che mortificava nella penitenza il suo corpo, al quale chiese scusa in punto di morte, amava quel corpo destinato alla resurrezione nella Gloria di Cristo Risorto. Francesco, pertanto, non disprezzava la ragione, che voleva, con l’anima, purificata ed accolta nella Luce divina, piena di Bontà. Lutero, che, invece, non resisteva al peccato, per lui sempre irresistibile, e che era solito gozzovigliare anche in modo orgiastico («pecca fortiter, sed fortius creda»), considerava il corpo non Tempio dello Spirito Santo ma immonda espressione di Satana. Lutero quindi disprezzava anche la ragione e da questo disprezzo derivava la sua avversione per la teologia tomista.

 

Fides et ratio. Il principio antropico

Qui, nel rapporto tra fede e ragione, si innesta la questione della compatibilità tra l’Amore di Dio e la Ragione che fonda il cosmo e che lo sottrae all’irrazionalità, al caso, alla quale vorrebbero, invece, riportarlo i «nuovi atei», Onfray, Odifreddi, Flores d’Arcais, Piero Angela, Dawkins, facendosi scudo di una teoria superata dalla stessa scienza (si pensi alla demolizione che ne hanno fatto scienziati come Gould, Behe, Thompson, Lima de Faria, ed altri) ossia del neo-darwinismo o perlomeno dell’interpretazione casualista di tale teoria.

 

Due Papi, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, post-conciliari nel senso che sono venuti dopo il Concilio ma non post-conciliari nel senso dell’ermeneutica della rottura propugnata dai Kung, dai Vito Mancuso, dagli Alberigo e dai Melloni, hanno, nell’esercizio del proprio magistero, evidenziato le mirabili trame della provvidenziale Misericordia di Dio. Quella stessa Misericordia Divina che costituisce anche la trama della razionalità dalla quale è permeata, e la scienza vera, non quella ideologica dei nuovi atei, lo conferma ampiamente, la creazione stessa.

 

La scienza ha scoperto nel cosiddetto «principio antropico» il perno sul quale sembra fondarsi l’universo intero. Infatti il cosmo appare, oggi, alla scienza come un insieme armonico di relazioni formulabili mediante equazioni matematiche e leggi della fisica, anche quantistica, tenute razionalmente insieme, il che presuppone intelligenza, da una finalità: ossia consentire la comparsa, in un certo momento della storia dell’universo, prima della vita, che, dicono i biologi, è già di per sé un mistero irriducibile alle sue sole componenti biochimiche (due amminoacidi pur essendo alla base della proteina non «in-formano» la proteina che è qualcosa di più; due proteine non «in-formano» la cellula che è oltre le proteine; tante cellule non «in-formano» un organismo che è una complessità superiore alle sue cellule pur componendosi anche di esse), e poi, maxime, della vita intelligente ossia dell’uomo.

 

Ecco il principio antropico secondo la spiegazione di uno scienziato: «Inaspettatamente per (la) … mentalità (scientista), la finalità è stata riabilitata dalla stessa fisica negli ultimi decenni del secolo scorso. Infatti, ci si è resi conto che le costanti fondamentali della fisica (come la costante di gravitazione universale, la costante di struttura fine elettromagnetica, ecc.) sono così finemente regolate fra di loro, che una piccola variazione di una di esse renderebbe il mondo inospitale ad ogni forma di vita. Infatti, se la variazione fosse in un dato senso, le stelle esploderebbero poco dopo essersi formate. Se, invece, la variazione fosse in senso opposto le stelle non si accenderebbero mai. Pertanto, è stato formulato il principio antropico’, che asserisce che i valori delle costanti fondamentali sono stati progettati con la finalità che potesse mantenersi la vita e luomo (‘antropos’) potesse avere origine. In altri termini, lanalisi delluniverso mostra che esso richiede un Progettista intelligente che si sia proposto una finalità ben precisa. Il principio antropico dà una base solida all… armonia e… bellezza del mondo (…). Infatti, è possibile spiegare levoluzione delluniverso… solo se sono già presupposte le leggi di interazione dei quattro campi fondamentali di forze: gravitazionale, elettromagnetico, nucleare forte e nucleare debole. Insomma, lordine può (apparire)… solo se le forze tra le particelle elementari sono state progettate in modo intelligente» (4).

 

E’ tuttavia necessario distinguere tra la formulazione «forte» del principio antropico, che è incompatibile con la Trascendenza del Dio cristiano perché vorrebbe affermare una necessità finalistica insita dal di dentro, ossia immanentisticamente, in un universo olisticamente concepito, sicché in esso tutto, anche la comparsa della vita e dell’uomo sarebbe già programmato, e la formulazione «debole» di detto principio, del tutto compatibile con la fede in un Dio libero e trascendente che liberamente crea per puro amore «progettando» l’universo ossia ponendo quelle condizioni, ovvero quelle equazioni matematiche e quelle leggi fisiche, necessarie ma non sufficienti alla comparsa della vita e della vita intelligente, che abbisognano, per essere, di un di più, la scienza oggi dice di maggior informazione (e l’«informazione» è Parola, Verbo), che solo un atto creativo del tutto nuovo, e successivo a quello iniziale del big bang, può porre. L’universo, dunque, si presenta alla stessa scienza post-moderna come un insieme di condizioni necessarie ma non sufficienti per la vita intelligente che si sostanziano in formule e leggi matematiche definite dagli scienziati come formule e leggi di mirabile «eleganza» ed «intelligenza». Certo, a questo punto lo scienziato si ferma e se credente rivolge silenzioso in cuor suo un moto di grato stupore a quell’Intelligenza che formule e leggi così mirabili ha posto, permettendoci di esistere.

 

Ora, si rifletta: se l’intelligenza umana è in grado di scoprire, prima in sé e poi anche attorno a sé, formule e leggi, che, nell’adaequatio rei ad intellectum, infondono allo scienziato scopritore ed all’uomo contemplante gioia e meraviglia, questo è possibile proprio perché l’intelligenza umana è fatta ad immagine di quella misteriosa Intelligenza alla quale quelle formule e quelle leggi inevitabilmente rinviano.

 

Fides et ratio. Il culto della divina misericordia

Giovanni Paolo II ha esordito, all’inizio del suo Pontificato, con una enciclica sulla Misericordia Divina, la «Dives in Misericordia», nella quale ha lodato l’Amore di Dio per l’uomo e per il creato. Sullo stesso tema Papa Wojtila ha insistito anche nell’enciclica «Fides et Ratio», intravedendo l’Amore misericordioso di Dio proprio nella mirabile struttura di intelligenza che permea il creato e che nell’uomo si fa spirito, parola, preghiera, dialogo con il suo misterioso Creatore che gli ha rivelato le vie della Sapienza tutte convergenti in una sola somma via, quella appunto dell’Amore. Sapienza è Amore. Deus Caritas est: «Dio è amore; chi sta nellamore dimora in Dio e Dio dimora in lui» (1 Giovanni 4, 16).

 

Pochi sanno che quella prima enciclica sulla Divina Misericordia era il frutto della devozione che Giovanni Paolo II nutriva per una santa mistica, sua connazionale, suor Faustina Kowalska. Questa mistica fu, negli anni precedenti la seconda guerra mondiale, l’apostola della Divina Misericordia. Apparendole, Gesù misericordioso, poi su indicazioni della stessa veggente raffigurato tradizionalmente in tunica bianca, con braccio destro levato benedicente, e due raggi, uno rosso ed uno bianco, che gli partono dal Cuore, le chiese di propagare nella Chiesa e nel mondo la devozione, che è salvezza estrema dell’umanità incamminatasi sulla via dell’abisso, alla Sua Misericordia Divina. Secondo la Volontà di Nostro Signore rivelata a suor Faustina, il Culto alla Divina Misericordia doveva essere praticato mediante la recita quotidiana di una coroncina, da Cristo stesso dettata, e l’istituzione, nella Domenica in albis, ossia la prima domenica dopo Pasqua, della festa della Divina Misericordia. Cristo profetizzò a suor Faustina che dalla Polonia sarebbe venuta la «scintilla», che molti hanno poi identificato con lo stesso Giovanni Paolo II, che avrebbe preparato la Chiesa ed il mondo ad importanti ed imminenti svolte storiche. Quando Giovanni Paolo II fu eletto, il culto propagandato da suor Faustina era stato bollato dall’ex Sant’Uffizio perché ritenuto sospetto di «nazionalismo». L’ex Sant’Uffizio, infatti, aveva erroneamente dato credito a certe calunnie che, nei colori bianco e rosso dei raggi del Cuore di Cristo, simboleggianti l’Acqua ed il Sangue che fuoriuscirono dal Suo Costato, scorgevano i colori della bandiera polacca. Vecchia storia, questa della diffidenza «inquisitoriale», certamente necessitata dalla prudenza, che poi, però, si ravvede: ne furono vittime, praticamente, quasi tutti i Santi poi canonizzati (si pensi solo alle traversie di padre Pio da Pietrelcina). Fu Papa Wojtila a ridare impulso al processo di
canonizzazione di suor Faustina e, prima, a beatificarla e, poi, a santificarla, tra il 1993 ed il 2000.
Anno quest’ultimo nel quale Giovanni Paolo II istituì anche la festa della Divina Misericordia, dando così compimento alla volontà, ed alla profezia, di Nostro Signore Gesù Cristo.

 

Come accennavamo, Giovanni Paolo II completò in un’altra sua enciclica, la «Fides et Ratio», un percorso magisteriale inteso a ricomporre l’unità cattolica, l’«et-et» verticale, tra Fede e ragione come era stata conosciuta dalle migliori epoche della storia della Chiesa e del pensiero teologico. Per il Papa, fede e ragione lungi dall’opporsi si sostengono e si illuminano reciprocamente. Solo così, ossia se la ragione non rigetta la fede, e viceversa, l’operato dell’uomo sulla terra diventa fecondo e dunque né distruttivo né prometeico. Lo spirito umano, spiega il Papa, per essere fecondo ha bisogno di volare con entrambe queste due ali, la fede e la ragione. Quando, come nell’Occidente moderno, l’uomo ha preteso di fare a meno dell’una o dell’altra, o di opporle, anziché alzarsi in volo, verso le vette mistiche della Sapienza Divina, o si è perso in uno spiritualismo gnostico disincarnato o è rimasto appiattito in un orizzonte esclusivamente mondano.

 

Alla fine del processo di inveramento storico dell’Occidente moderno, ne è così risultato da un lato un irragionevole fideismo, una fede che si è fatta «pensiero debole» e che in ambito teologico ha reso dolciastra, «buonista», la Misericordia Divina, e dall’altro lato un totalizzante razionalismo, una ragione che, con la sua pretesa prometeica, si è fatta madre di nefaste ideologie e paladina del cosiddetto «pensiero forte». Quest’ultimo, poi, trasposto per osmosi anche in ambito teologico, ha generato un insopportabile razionalismo teologico, incapace di attingere veramente al Mistero e del tutto dimentico dell’Amore di Dio, anzi tutto proteso a reclamare, unilateralmente, ed a volte, in una sorta di inconsapevole contagio luterano, esclusivamente, la sola Sua Giustizia. In tal modo, al fideismo tutto «amore e bontà» senza «giustizia» si è contrapposto un fondamentalismo tutto «rigore e giustizia» senza «amore». Dalla radicalizzazione unilaterale degli attributi divini della Giustizia e dell’Amore, che in Dio stanno insieme e si danno congiuntamente senza opposizioni, sono derivati due erronee concezioni teologiche.

 

La teologia della creazione in Ratzinger/Benedetto XVI

Benedetto XVI ha dedicato le due prime encicliche del suo Pontificato proprio all’Amore di Dio, la «Deus caritas est», ed alla speranza che ne deriva, la «Spe salvi». Pare che il tema della sua prossima enciclica sarà «Veritas in Caritatem». Il Papa si fa così docente di un magistero teologico tutto inteso a tenere strettamente unite Verità e Carità, Amore e Giustizia, Fede e Ragione.

 

Il Papa, agostiniano per formazione, ha molto approfondito la teologia francescana di San Bonaventura. Nella teologia, assolutamente antignostica, di Ratzinger/Benedetto XVI il mondo è bello e buono perché è dono dell’Amore di Dio. Di un Dio che non solo ha creato il mondo per amore delle creature, e dell’uomo in particolare, ma che si rivela all’umanità, in Israele prima e nella Chiesa poi, per donarle salvezza, come aveva promesso, risanando la bellezza della creazione deturpata dal peccato dell’uomo. Il Dio biblico ha così mantenuto fede al Patto dell’Alleanza, che ha trovato definitivo compimento in Cristo, nonostante le ripetute infedeltà dell’Antico Israele,
il quale ha ora, per l’appunto in Cristo, trovato il proprio compimento nel Nuovo Israele, ossia nella Chiesa. Nuovo Israele dal quale per il momento, ci dice San Paolo, gli israeliti sono «recisi» in attesa di esservi reinnestati.

 

Ma se Dio è Amore, che crea e si rivela, questo Dio, afferma Ratzinger/Benedetto XVI, è, proprio per questo, anche Ragione. Solo l’Amore fecondo dell’atto creativo è infatti capace di chiamare ed ordinare l’esistente all’essere. Di questo atto di Amore è immagine la fecondità della vita, unica «materia» capace, in un mistero inaccessibile alla stessa scienza che oggi infatti se ne proclama stupita, di auto-riprodursi. Fecondità della vita che poi diviene fecondità consapevole nella vita intelligente dell’uomo. Solo Dio, nel Suo Infinito Amore, ha potuto porre quelle formule e leggi fisiche, persino eleganti nella loro formulazione matematica, che rendono razionale il mondo e dunque lo rendono possibile e comprensibile. Ecco perché l’Amore di Dio è, dice l’attuale Pontefice, anche Ragione.

 

Per Ratzinger nel testo biblico è insita una irriducibile polemica contro le mitologie cosmogoniche pagane: «Il racconto della Sacra Scrittura - egli scrive - dice: …Dio soltanto, la ragione eterna che è lamore eterno, ha creato il mondo e lo tiene nelle sue mani. (…). La fede nella creazione non è neppure oggi irreale. Essa è tuttoggi ragionevole e, anche alla luce dei risultati delle scienze naturali, è l’‘ipotesi migliore’, quella che spiega di più e meglio di tutte le altre teorie. La fede è ragionevole. La ragione della creazione deriva dalla ragione di Dio. Non esiste altra risposta realmente convincente. Ancora oggi rimane valido quel che il pagano Aristotele disse quattrocento anni prima di Cristo contro coloro che affermavano che tutto è nato dal caso, ek tautomatou; egli, fece questa affermazione, anche se personalmente non conosceva la fede nella creazione. La ragione del mondo ci permette di riconoscere la ragione di Dio, e la Bibbia è e rimane il vero illuminismo che ha affidato il mondo alla ragione e non allo sfruttamento delluomo perché essa ha dischiuso la ragione alla verità e allamore di Dio. Per questo non abbiamo bisogno di nascondere la fede nella creazione neppure oggi. Non ci è lecito nasconderla, perché solo se il mondo deriva dalla libertà, dallamore e dalla ragione, solo se queste sono le potenze propriamente portanti, possiamo aver fiducia gli uni negli altri, possiamo andare incontro al futuro, possiamo vivere come uomini. Solo perché Dio è il Creatore di tutte le cose ne è anche il Signore e noi possiamo pregarlo. Questo infatti significa che la libertà e lamore non sono idee impotenti, bensì le potenze fondamentali della realtà» (5).

 

Naturalmente bisogna, nel testo biblico dei racconti della creazione, distinguere la forma dal contenuto (6): la prima appare simile ai miti sumerici e babilonesi, mentre il secondo è del tutto diverso portando con sé il messaggio teologico, rivelato, del Dio personale che crea per amore. In altri termini, il testo del Genesi benché di forma in apparenza mitica ha un contenuto rivelato a carattere contemporaneamente anagogico e storico. Esso, in realtà, nasconde un simbolismo anagogico che non rinuncia affatto alla storicità, benché trattasi di una storicità archetipica e non meramente narrativa ossia non riduttivamente storiografica. Per meglio comprendere: Adamo, prima del peccato, è figura tipologica dell’Umanità dell’Origine come voluta da Dio («Adam» infatti significa «uomo»), e per questo è anche figura del Cristo Venturo, ed è al tempo stesso persona storica, benché nulla in senso storiografico, nel senso cioè dei dettagli biografici che la scienza storica moderna è in grado di ricostruire, almeno in parte, circa ogni personaggio del passato, possa di lui dirsi.

 

Ottimo epistemologo, Ratzinger/Benedetto XVI è perfettamente consapevole del fatto che la scienza post-moderna avendo superato il vecchio meccanicismo positivista, l’angosciante determinismo ottocentesco che conviveva, secondo le modalità del paradosso gnostico, in dialettica simbiosi con il casualismo irrazionale, ha riaperto, se ben intesa, le proprie strade alle verità della fede, alla Rivelazione divina: «Nel XIX secolo - annota ancora Ratzinger - poteva sembrare che le cose stessero diversamente. La scienza naturale era caratterizzata dalle due grandi leggi della conservazione della materia e dell’energia. Sembrava così che questo mondo fosse un cosmo eternamente sussistente e dominato dalle leggi perenni della natura, un cosmo esistente per sé e in sé, che non ha bisogno di nulla al di fuori di sé. Esso appariva come un tutto, di cui Laplace poteva dire: ‘Non ho più bisogno dellipotesi Dio. Ma poi sopraggiunsero nuove conoscenze. Si scoprì la legge dellentropia, la quale dice che lenergia viene consumata e trasformata in uno stato, da cui non può più essere fatta retrocedere. Questo però significa che il mondo vive un processo di divenire e di passaggio. Esso porta in sé inscritta la temporalità. Poi si scoprì che la materia si trasforma in energia, ciò che modificò automaticamente le due leggi della conservazione. Quindi sopraggiunsero la teoria della relatività e le altre conoscenze, le quali mostrano che il mondo porta in se stesso i propri orologi, che ci permettono di riconoscere un principio e una fine, un cammino che va dal principio alla fine. Anche se i tempi si allungarono immensamente, tuttavia  attraverso loscurità dei miliardi di anni la conoscenza della temporalità dellessere fece di nuovo intravvedere quellistante che la Bibbia chiama il principio, quel principio che rimanda a Colui che ebbe il potere di porre lessere, il potere di dire: sia fatto - e fu fatto. Una seconda riflessione non si riferisce più solamente al dato dellessere. Essa prende per così dire in considerazione il disegno del mondo, il modello secondo cui è costruito. Da quel sia fatto non derivò infatti un magma informe. Più conosciamo il mondo, più vediamo balenare in esso una ragione, di cui possiamo ripercorrere pieni di stupore le vie. Attraverso di esse riconosciamo in maniera completamente nuova quello Spirito creatore, cui anche la nostra ragione deve se stessa. Albert Einstein disse una volta che nelle leggi della natura si rivela una ragione così superiore che tutta la razionalità del pensiero e degli ordinamenti umani è al confronto un riflesso insignificante. Riconosciamo come nel macrocosmo, nel mondo delle stelle, si riveli una ragione potente, che tiene insieme luniverso. Sempre più però impariamo a guardare anche nel microcosmo, nelle cellule, nelle unità originarie della vita; pure qui scopriamo una razionalità stupefacente, che ci induce a dire con San Bonaventura: ‘Colui che qui non vede, è cieco. Colui che qui non ode, è sordo, e colui che qui non comincia ad adorare e a lodare il Creatore, è muto’ (…). Attraverso la ragione della creazione Dio stesso ci guarda. La fisica, la biologia, le scienze naturali in genere ci hanno fornito un racconto della creazione nuovo, inaudito, con immagini grandiose e nuove, che ci permettono di riconoscere il volto del Creatore e ci fanno di nuovo sapere:, allinizio e al fondo di tutto lessere cè lo Spirito creatore. Il mondo non è il prodotto delloscurità e dellassurdo. Esso deriva da un’intelligenza, deriva da una libertà, deriva da una bellezza che è amore » (7).

 

Il mondo, secondo l’immagine biblica, non è dunque un luogo ostile ed oscuro per l’uomo, mentre lo diventa, parzialmente, a seguito del tentativo umano di auto-deificarsi, tentativo nel quale sempre consiste il peccato originale. Come, purtroppo, la storia delle tragedie umane, in nome della ragione autosufficiente, ossia delle ideologie, anche di quelle che fanno di Dio un idolo teologico-politico, sta lì a dimostrare.

 

Quando la ragione dell’uomo non vuol più farsi riflesso e contemplazione della più alta Ragione che permea per Divino Amore il cosmo, essa, nel rifiuto della Sapienza, diventa ragione strumentale, ideologica, calcolo utilitario di mercato, ragion di Stato, machiavellismo, dominio della tecnica, contrattualismo sociale, etica della sopravvivenza del più forte, per sfociare infine nella proclamazione nichilista del suo «suicidio» ossia nell’irrompere del sub-razionale, dell’elementare jungheriano, dell’abisso tragico dell’inebriante follia superomista. Per sfociare nella spiritualità neognostica di un certo modo di intendere il postmoderno.

 

Sentiamo di nuovo Ratzinger: «I racconti biblici della creazione sono un modo di parlare della realtà diverso da quello che conosciamo dalla fisica e dalla biologia. Essi non descrivono il processo del divenire e la struttura matematica della materia, ma dicono in molteplici modi: esiste un unicoDio; il mondo non è larena di potenze oscure, ma la creazione della sua parola. Questo però non significa che le singole proposizioni del testo biblico perdano ora qualsiasi significato e che rimanga per così dire valido solo questo nudo estratto. Anchesse sono espressione della verità, anche se naturalmente in modo diverso dalla fisica e dalla biologia. Esse sono verità nella maniera del simbolo, nella maniera in cui, per esempio, una vetrata gotica ci permette di conoscere qualcosa di molto profondo mediante il gioco delle sue luci e dei suoi segni. (…) il racconto biblico della creazione è contraddistinto da numeri, che esprimono non la struttura matematica del mondo, bensì, per così dire, il modello intrinseco del suo tessuto, lidea secondo cui è costruito. I numeri dominanti sono il tre, il quattro, il sette e il dieci. Dieci volte leggiamo nel racconto della creazione: ‘Dio disse. In tal modo esso prelude già alle dieci parole, ai dieci comandamenti. Ci fa capire che i dieci comandamenti sono leco della creazione, non regole arbitrarie, con cui si limita la libertà delluomo; sono introduzione allo spirito, al linguaggio e al senso della creazione; sono linguaggio tradotto del mondo, logica tradotta di Dio, che ha costruito il mondo. Il numero dominante è il sette; con lo schema dei sette giorni dà una caratterizzazione tipica al tutto. Si tratta del numero di una fase lunare; questo racconto ci dice allora che il ritmo dellastro a noi vicino ci indica anche il ritmo della vita umana. Veniamo così a sapere che noi uomini non siamo prigionieri del nostro piccolo io, ma siamo immersi nel ritmo delluniverso; che possiamo apprendere dal cielo anche il ritmo, il movimento della nostra vita e possiamo così inserirci nel movimento razionale delluniversale. Nella Bibbia questo pensiero avrà un ulteriore sviluppo nellaffermazione che il ritmo degli astri è in senso più profondo espressione del ritmo del cuore, del ritmo dellamore di Dio che ivi si manifesta» (8).

 

«LAmor che move il sole e laltre stelle»: così canta Dante la visione beatifica di Dio in Paradiso (Paradiso XXXIII, v. 145). Il Poeta immagina un movimento di attrazione universale verso la sorgente del tutto ossia la Santissima Trinità che si svela all’anima beata nel Suo Mistero Infinito ora finalmente comprensibile da essa benché per via sovrazionale facendo giungere a perfezione quella, parziale, conoscenza razionale che la teologia e la filosofia consentono, in terra, del Mistero. Ma l’attrazione universale verso la Santissima Trinità è ordinamento, vocazione, dell’universo all’adorazione. E’ l’atto umano del «coltivare» la terra al quale il Dio biblico chiama l’unica creatura fatta a sua immagine e somiglianza. L’adorazione è atto del «culto» che, a sua volta, è generatore anche della «cultura». Ed infatti se c’è un carattere che distingue in assoluto l’uomo da ogni altra specie animale, un carattere che nessun sofisma scientista può negare, è la vocazione dell’uomo all’adorazione. L’uomo è l’unica creatura che, ad ogni latitudine spaziale e temporale, adora, prega, loda. L’uomo è «religiosus» per natura, benché la sua religiosità senza la Rivelazione del vero Dio, senza la Grazia infusagli dall’Altissimo, può facilmente essere deviata verso l’idolatria ossia l’errata adorazione delle creature o l’auto-idolatria ossia l’errata adorazione di sé, delle proprie umane costruzioni ideologiche.

 

Ma se l’universo, per la Bibbia, è fatto affinché l’uomo lo «coltivi», ossia affinché mediante il rito ed il culto adori il Suo Creatore, ritroviamo qui, nella stessa rivelazione biblica circa la creazione (che, ricordiamo, nella Scrittura non è data solo nella forma del racconto del Genesi ma attraversa tutto il testo sacro fino all’incipit del Vangelo giovanneo), quel medesimo «principio antropico» recentemente scoperto dalla scienza post-moderna, che ora però, nel testo sacro, è espresso mediante il linguaggio teologico della Sapienza che viene dall’Alto. Infatti, come si è visto, per il principio antropico il cosmo è stato progettato in modo tale che la vita intelligente non solo potesse fare la sua comparsa, al suo interno, ma anche potesse «osservarlo» ed, osservandolo, risalirne, adorante, perché anche lo stupore scientifico è una forma di adorazione, alla Sorgente.

 

E proprio nella dimenticanza della vocazione dell’uomo all’adorazione, al «culto» di Dio attraverso la «coltivazione» della creazione, vocazione che la scienza post-moderna ha riscoperto con il «principio antropico», che risiede tutto il dramma epocale, «apocalittico», dell’Occidente a partire dal XVI secolo. Di quell’Occidente che non ha seguito Francesco. E, come abbiamo dimostrato, neanche Tommaso, anche a causa di certe malintese scolastiche che nella riduzione del suo pensiero al solo sillogismo aristotelico lo hanno tradito invece di comprenderlo, davvero, nello slancio mistico della ragione che dagli enti si volge all’adorazione dell’Essere Infinito.

 

Ce lo conferma ancora una volta il regnante Pontefice quando scrive: «La creazione è orientata al sabato, che è il segno dellAlleanza di Dio con luomo. (…) la creazione è edificata in modo da tendere allora delladorazione. Il creato venne fatto per essere un luogo di adorazione. Esso giunge al proprio compimento, diventa quello che deve essere, se viene continuamente vissuto in ordine alladorazione. Il creato esiste per adorare. Operi Dei nihil praeponatur’, scrisse San Benedetto nella sua regola: ‘Nulla si anteponga al culto di Dio. Queste parole non sono lindice di una pietà esaltata, ma la traduzione pura e oggettiva del racconto della creazione, del suo messaggio per la nostra vita. Il centro autentico, la forza che muove e ordina dallinterno il ritmo delle stelle e della nostra vita è ladorazione. Solo quando ne è permeato, il ritmo della nostra vita trova il suo giusto equilibrio» (9).

 

Ecco perché giustamente osserva, a completamento, lo stesso Ratzinger: «Luomo ha ricusato il riposo di Dio, lozio davanti a Lui, ladorazione e la sua conseguente pace e libertà, ed è così caduto nella schiavitù del fare. Ha trascinato il mondo nella schiavitù del proprio attivismo e si è reso così schiavo. Perciò Dio è stato costretto a imporgli il sabato, chegli non voleva più. Con il rifiuto del ritmo della libertà e dellozio davanti a Dio luomo si è allontanato dalla propria somiglianza con Lui e ha così calpestato il mondo. Per questo doveva essere staccato con la forza dallottuso attaccamento alla propria opera: per questo Dio doveva riportarlo al suo senso più autentico e liberarlo dal dominio dellazione.Operi Dei nihil praeponatur’: prima ladorazione, la libertà e la pace di Dio. Solo così luomo può veramente vivere» (10).

 

L’Occidente, con tutta evidenza, prima con la statolatria, ossia il totalitarismo della modernità con le sue frenetiche dinamiche di mobilitazione ideologica delle masse, e poi con la mercatolatria liberista, ossia il neo-totalitarismo post-moderno con le sue epilessie concorrenzialiste, individualiste ed edoniste, è esattamente quella «schiavitù dell’attivismo», che nasce dalla dimenticanza della struttura adorante del mondo e dell’uomo, alla quale si riferisce Ratzinger.

 

E’ questo il peccato nel senso più vero del termine. Per il mondo che una volta fu cristiano è poi, drammaticamente, peccato d’apostasia. Perché la vocazione all’adorazione, il «culto/coltivazione» come indispensabile presupposto dell’essere creaturale, è diventata con ed in Cristo vocazione ad amare il Verbo fattosi Uomo per salvare, mediante la Croce, l’uomo dall’auto-idolatrica dimenticanza di Dio. L’Occidente ha, appunto, tradito questa vocazione.

 

Un’antica tradizione cristiana afferma che il mondo è stato fatto affinché il Verbo potesse Incarnarsi. L’Incarnazione vi sarebbe stata anche senza il peccato originale. Nel Disegno originario di Dio non era contemplata la Passione cruenta del Verbo Incarnato, resasi necessaria solo a causa del peccato: «Secondo la tradizione teologica della Chiesa, - ricorda Julio Meinvielle - Adamo era … in diretta comunicazione con Dio; pertanto egli era a conoscenza del mistero della Grazia, per mezzo della quale luomo poteva entrare, per dono gratuito di Dio, nella vita divina. Secondo San Tommaso (S. Th., 2-2, 2,7) Adamo era anche partecipe del misterioso disegno dellIncarnazione divina, esclusi i misteri della Passione, Morte e Resurrezione del Dio fatto uomo, che sono connessi con la successivacadutadello stesso Adamo» (11).

 

San Paolo si richiama a questa tradizione nell’inno cristologico di Col 1,15-16 che proclama Cristo immagine del Dio invisibile, Verbo generato prima di ogni creatura, per mezzo del quale tutte le cose sono state create, sia le invisibili, chiara allusione alle potenze angeliche, che le visibili.

 

Questo però significa che il finalismo dell’adorazione ed il «principio antropico» hanno un evidente carattere cristologico e cristocentrico che sempre Ratzinger mette ben in evidenza: «Il mondo esiste per ladorazione… questa idea compare nellimmagine del sabato. La Bibbia dice: il creato ha la sua struttura nellordinamento del sabato. A sua volta il sabato è la sintesi della Thorà, della legge dIsraele. Ciò significa: ladorazione porta in sé dei tratti morali. In essa è contemporaneamente racchiuso tutto lordinamento morale di Dio. Solo così essa è veramente adorazione. (…) la Thorà, la legge, è espressione della storia che Israele vive con Dio, è espressione dellalleanza; ma questa è a sua volta espressione dellamore di Dio, del sì da Lui detto alluomo che ha creato, affinché questi ami e sia amato. (…) Dio ha creato il mondo per iniziare una storia di amore con luomo. Egli lo ha creato perché ci fosse lamore. Dietro questa concezione emergono parole dIsraele, che passano direttamente nel Nuovo Testamento. A proposito della Thorà, che incarna il mistero dellalleanza, della storia damore di Dio con gli uomini, leggiamo negli scritti giudaici: Essa era in principio; era presso Dio; per mezzo suo è stato fatto tutto ciò che fu fatto; essa era la luce, essa era la vita degli uomini. Giovanni ebbe soltanto bisogno di applicare queste formule a Colui che è la Parola viva di Dio, per dire: tutto è stato fatto per mezzo di Lui (Giovanni 1,3). E già Paolo aveva detto: ‘Tutte le cose sono state create per mezzo di Lui e in vista di Lui’ (Colonnesi 1,16; confronta Colonnesi 1, 15-23). Dio ha creato il mondo per poter diventare uomo ed effondere il suo amore, per poi riversarlo anche su di noi ed invitarci a corrispondere a tale amore» (12).

 

Gli israeliti post-biblici non hanno riconosciuto in Cristo l’Incarnazione stessa della Thorà, del Verbo/Legge di Dio. Con ciò essi sono rimasti recisi dall’Olivo Santo di Israele, dalla Fede di Abramo adempiuta perfettamente da ed in Cristo Gesù. In tal modo non è più l’Israele post-biblico  il vero detentore della Thorà salvifica ma la Chiesa, il Nuovo Israele che nei Dodici Apostoli è adempimento perfetto del Vecchio Israele delle Dodici Tribù. Il 12, come è noto, è numero che simbolicamente esprime l’Universalità. Dodici sono anche le stelle che circondano il capo di Maria, la Donna vestita di sole della Rivelazione giovannea, la cui stirpe, ossia Nostro Signore Gesù Cristo, ha schiacciato la testa della serpe antica.

 

Ma se la Ragione della quale è intessuto l’Ordine stesso del Cosmo è nient’altro che l’espressione, nella creazione, dell’atto creativo divino, dell’Amore di Dio, che è sempre oltre la stessa ragione umana che pur riflette in sé la Ragione Divina, non è legittimo separare Ragione ed Amore, Fides et Ratio, Verità e Carità, Giustizia e Misericordia.

 

L’unione di Ragione ed Amore è in verità possibile solo nel Verbo Incarnato. Infatti, in Cristo che, per l’autore paolino della «Lettera agli ebrei», è Sacerdote alla maniera di Melchisedeq, Iustitia et Pax, dunque anche Ragione ed Amore, osculabuntur, si baciano.

 

L’Occidente, dopo Francesco e Tommaso, ha perso di vista questa essenziale unità e si è votato alla propria perdizione. Questa ủbris dell’Occidente spiega molto bene perché esso mentre è accettato o subìto nella sua potenza materiale, per i vantaggi utilitaristici che ne derivano, è oggi però essenzialmente rifiutato, nello spirito, dal resto del mondo.

 

Ce lo ha ricordato anche Benedetto XVI quando nell’omelia della Santa Messa sulla spianata del Neue Messe di Monaco di Baviera, nel settembre 2006, ebbe a osservare:«Le popolazioni dellAfrica e dellAsia ammirano le nostre prestazioni tecniche e la nostra scienza, ma al contempo si spaventano di fronte ad un tipo di ragione che esclude totalmente Dio dalla visione delluomo, ritenendo questa la forma più sublime della ragione, da imporre anche alle loro culture. La vera minaccia per la loro identità non la vedono nella fede cristiana, ma invece nel disprezzo di Dio e nel cinismo che considera il dileggio del sacro un diritto della libertà ed eleva lutilità a supremo criterio morale per i futuri successi della ricerca. Cari amici, questo cinismo non è il tipo di tolleranza e di apertura culturale che i popoli aspettano e che tutti noi desideriamo! La tolleranza di cui abbiamo urgente bisogno comprende il timor di Dio - il rispetto di ciò che per altri è cosa sacra. Questo rispetto per ciò che gli altri ritengono sacro presuppone che noi stessi impariamo nuovamente il timor di Dio. Questo senso di rispetto può essere rigenerato nel mondo occidentale soltanto se cresce di nuovo la fede in Dio, se Dio sarà di nuovo presente per noi ed in noi» (13).

 

E’ necessario che l’Occidente torni all’Amore di Dio che è Ragione ordinatrice del creato, se vuol sopravvivere alle sue rovine spirituali che si vanno facendo sempre di più anche rovine morali e materiali, politiche ed economiche.

   

Il mondo è l’esito dell’Amore creativo di Dio. Noi tutti siamo l’esito, il frutto, del Suo Amore creativo.

 

Dobbiamo tutti tornare con Francesco a cantare: «Altissimu, onnipotente, bon Signore, tue sole laude, la gloria e lhonore et onne benedictione. Ad te solo, Altissimo, se konfano, et nullu homo ène dignu te mentovare. Laudato sie, mi Signore, cum tucte le tue creature, …da te, Altissimo, porta(no) significatione. (…). Laudate e benedicete miSignore et ringratiate e serviateli cum grande humilitate».

 

Luigi Copertino

 


 

1) Sulla relazione teologica tra «coltivazione», «culto» e «cultura» si veda di Attilio Mordini «Verità della cultura», Il Cerchio, 1995, Rimini.

2) Confronta Giovanni Reale/Dario Antiseri «Il pensiero occidentale dalle origini ad oggi», volume I, Brescia, 1983, pagine 427-428.

3) Qui, nel «servo arbitrio» luterano, è già presente il determinismo accampato dal moderno pensiero immanentista: sia nella sua declinazione «biologista», si pensi alla pretesa della genetica di ridurre tutto alla chimica del dna, sia in quella freudiana, si pensi alla pretesa psicanalitica di ridurre tutto ad espressione dell’inconscio, sessualmente represso dalla «sovrastruttura» della coscienza, sia, ancora, in quella marxiana, si pensi alla pretesa marxista di ridurre tutto alla dinamica storica della dialettica, di classe, tra struttura economica e «sovrastruttura» religiosa, morale, statuale.

4) Confronta Giancarlo Cavalleri «La quinta via e la scienza» in «Il Timone» numero 16, novembre/dicembre 2001, pagina 40.

5) Confronta Joseph Ratzinger «Creazione e peccato», edizioni Paoline, Milano, 1986, pagine 17-20.

6) Parliamo di racconti biblici della creazione al plurale perché in effetti nella Bibbia non esiste un racconto delle origini identificabile solo con quello iniziale del Genesi. Il medesimo racconto delle origini lo si ritrova, appunto in forme diverse, nella storia del diluvio, nei salmi, nei libri sapienziali fino alla sua forma definitiva che è quella dell’incipit del Vangelo di Giovanni («In principio era il Verbo e tutto fu fatto per mezzo di Lui»). A dimostrazione che nella Scrittura non è la forma culturalmente e storicamente condizionata e variabile ma il contenuto teologico che è importante e resta immutabile.

7) Confronta J. Ratzinger opera citata pagine 22-24.

8) Confronta J. Ratzinger opera citata pagine 24-25.

9) Confronta J. Ratzinger opera citata pagina 26.

10) Confronta J. Ratzinger opera citata pagina 29.

11) Confronta J. Meinvielle «Influsso dello gnosticismo ebraico in ambiente cristiano», Sacra Fraternitas Aurigarum in Urbe, Roma, 1995, pagina 18.

12) Confronta J. Ratzinger opera citata pagina 27-28.

13) In Avvenire del 12 settembre 2006.



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