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Una religione libera dai doveri umani?
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Per l’insuperabile San Tommaso d’Aquino la Philosophia perennis era la materia prima del catechismo cattolico, le cui «ragioni» la sua Somma (ST) intendeva spiegare con elementi spirituali che appartengono alla natura umana, ad ognuno di noi.
Se non la comprendiamo, la causa è nella nostra scarsità cattolica, nel pensiero tarlato dal filosofismo e scientismo e ora dal modernismo conciliare.
Vediamo la questione qui ritornando al dilemma apparente: per la persona umana quale preoccupazione deve venire prima: dei doveri o dei diritti?
Per rispondere si può risalire al pensiero filosofico sulla «ragione» dell’esistenza dell’uomo, persona fatta ad immagine e somiglianza di Dio: «substantia individua, rationalis, sui juris», quindi creatura dotata dal Creatore delle facoltà d’intelligenza e volontà libere, per il privilegio di conoscere il Vero, praticare il Bene=Vero, intendere il Bello=Vero=Bene, il cui primo uso è riconoscere il proprio Autore e Donatore, per esserGli riconoscente del Suo sommo dono.
Dovere di risposta che è «responsabilità» personale e sociale di credere e rendere culto al Creatore di quanto è vero, buono e bello per la vita umana.
A questo punto la domanda su cosa deve venire prima per l’uomo, soggetto di doveri e di diritti, ha una risposta chiara: il dovere verso Dio e la Sua Parola.

Il dovere umano verso Dio che precede ogni diritto era il «concetto» cattolico sacrosanto e fondante  della missione della Chiesa nel mondo umano, dove miliardi di anime, dai popoli primitivi ai più progrediti, erano il campo per la cultura di questo pensiero universale che convoca tutti; delle parola e segni dell’impero di Dio sugli uomini e sulle nostre società.
Il concetto alla base d’ogni coscienza, che è e sarà fino alla fine del mondo il vero pegno di salvezza per quanti cercano il Verbo di Dio.
Quindi, a tale pensiero è vincolata la vera essenziale ragione e responsabilità d’ogni cosienza umana.
I propri diritti e libertà esistono in funzione di tale ragione e non il contrario, per cui ogni sua limitazione è perversa; è contro la Verità oggettiva.
Qui cominciano, però, i problemi e i dubbi d’ogni tempo.

Coscienza, Trascendenza, Legge

Ecco le questioni da rivedere.
L’Essere e la coscienza dell’Essere è la questione umana iniziale e finale, perché il pensieropuò può sguire la via del trascendente o quella del dubbio immanente che, negando quanto non capisce, nega ogni ente.
Questo sì è un dilemma.
Per approfondire la questione ricorriamo al tomista J.B. Pacheco Salles («A figura deste Mundo, ‘vindicatio catholicae veritatis contra synodi quam vocant Vaticanae II errores’», edizione limitata, Sao Paulo, 1982): «Se conosciamo l’ente per una determinazione innata della mente, per maggior ragione l’Essere ci dev’essere manifestato nell’interno del nostro spirito. In questo senso c’è l’indicazione di San Tommaso in De Veritate: ‘Essendo la mente intelligibile in atto, c’è in essa l’intelletto agente’ (‘Ipsa vero mens est intelligibilis in actu; et secundum hoc ponitur in ea intellectus agens, qui faciat intelligibilia actu’ Q.10, a.6, c., parte C.). L’affermazione ha una portata estrema. E’ il contrario di quanto dice Aristotele (Metafisica, XII, 1072, 21): la mente umana diviene intelligibile in atto solo con l’intellezione attuale di qualche oggetto esterno, e l’Io sarebbe solo l’accessorio di una conoscenza oggettiva, il suo lato interno. La coscienza, essendo condizione previa degli atti d’intellezione e volizione, già è; e gli atti di coscienza non possono derivare da un ente in se stesso incosciente, e meno ancora costituirli nella coscienza. L’Io non può derivare da un atto d’intellezione dubbiosa di modo che da un nessuno si accedesse ad un qualcuno. Ecco quanto è nell’orientamento agostiniano di San Tommaso in cui ammette l’intelligibilità in atto della nostra mente, che, secundum hoc ha in essa l’intelletto agente. La mente in quanto intellegibile è intelligente e l’identità di questo con l’intelligibile è sostanziale, dispensando specie e concetto, anche se può essere completata da un verbo mentale. […] Per l’anima spirituale, essere significa conoscersi (ed amarsi), e così si costituisce come un se-stesso, un Io, una persona (Ia, Q. 77, a. 1, ad 1). Siamo al testo agostiniano basilare per la cultura dell’Occidente (De Civitate Dei XI, 26: essere - conoscere - amare): ‘In questa triplice certezza non temo alcuno degli argomenti degli accademici che mi dicono - e se t’inganni? Se m’inganno vuol dire che sono. Non si può ingannare chi non esiste: se dunque m’inganno perciò stesso io sono. Poiché dunque esisto dal momento che m’inganno, come posso ingannarmi a credere che esisto, quando è certo che io esisto dal momento che m’inganno?Poiché dunque che anche nell’ipotesi che m’inganni, esisterei pure ingannandomi, non m’inganno certamente nel conoscere che esisto. Di qui segue che anche nel conoscere di conoscermi esistente non m’inganno. Infatti, come conosco che esisto, così conosco anche di conoscere la mia esistenza. E quando avrò queste due cose (l’essere ed il conoscere) aggiungo, in me conoscente questo stesso amore come un terzo elemento di non minor pregio. Né m’inganno sulla realtà del mio amore poiché non m’inganno sulla realtà che amo. Qual motivo vi sarebbe infatti per biasimarmi e impedirmi di amare delle cose false se fosse falso che io le ami? Ma poiché invece queste due cose  sono vere e certe, chi vorrà dubitare che anche l’amore che le fa amare sia vero e certo? Ora, non c’è nessuno che non voglia essere, come non c’è nessuno che non voglia essere felice; ma come è possibile essere felici senza esistere?’. Ammettendo l’errore, esso stesso mi porta direttamente all’essere che sono io. Soltanto dopo aver preso conoscenza dell’Essere-io è che ho conosciuto il conoscermi, cioè, ho conosciuto il mio stesso conoscere. Perciò prima dell’io sono viene l’esperienza dell’Essere. Il cogito di Cartesio, volendo dare al ragionamento di Sant’Agostino maggior precisione e chiarezza, l’ha rovinato irrimediabilmente. Il suo ragionamento percorre la via inversa. Col dubbio metodico sono sospese tutte le evidenze naturali. Ma lo stesso dubbio non è passibile di dubbio: non posso dubitare che dubito. E se dubito, penso. Cogito ergo sum, si traduce correttamente in ‘penso dunque esisto’ e non ‘sono’; poiché quel che Cartesio raggiunge con la sua deduzione more geometrico non è l’Essere, ma la semplice esistenza. ll fatto esistenziale dell’errore, che consiste in un disaccordo con la realtà, conduce Sant’Agostino d’emblé all’Essere dell’io sono. Il fatto logico del dubbio, che consiste nel non fondarsi su alcuna realtà, conduce Cartesio al regno del pensiero puro di cui egli deduce l’esistenza di un soggetto pensante, condizione del pensiero. Si partiva così verso il regno della Ragione disincarnata, dell’esistere senza l’Essere, della ragione rivoluzionariamente elevata a dea che diventerà la dea sanguinaria da far celebrare da vescovi apostati (durante la
Rivoluzione francese)».

Quid est veritas?

La domanda di Pilato di fronte a Gesù, ripresa dagli atei ed agnostici di ogni tempo, si pone nella coscienza ed è li che trova la sua prima risposta nel codice indelebile che, comune a tutti gli uomini, ci precede e trascende, indicando la direzione del bene e del male.
E se quella luce è lì, vi è stata collocata.
Siamo liberi di accogliere la Verità rivelata, dell’ordine dell’Essere, della Parola divina, ma anche di ribellarci innalzando la nostra libertà al di sopra della Verità, seguendo altre idee, indifferenti alla separazione tra il bene e il male, tra la via del ritorno all’eterno e la fuga prometeica nell’avventura dell’utopia.
Pensiero trascendente o immanentistico: è bene cominciare da questa distinzione filosofica per arrivare ai fatti più cruciali della vita personale e sociale.
In questa vita umana tutto inizia col pensiero.
Perciò, così come si può distinguere tra un atto buono e un delitto, si possono e si devono distinguere i pensieri che li hanno causati.
Ora, chi accoglie il Trascendente e la sua norma, segue il Bene.
Chi giudica da sé cosa sia il vero, inventa la sua norma di bene.
Un bene immanente senza veri riscontri nel reale, che se non è nell’ordine dell’Essere (oggettivo), ma soggettivo, può solo rivelarsi un male.
Dio si è rivelato così al pensiero umano: Io sono Colui che è.
La coscienza riconosce per rispondere.
«La coscienza è quindi anzitutto ‘consapevolezza’ di esistenza di qualcosa in tutto l’àmbito della vita superiore, sia conoscitiva come affettiva, della sensibilità come dello spirito. La coscienza implica pertanto nel suo attuarsi un certo giudizio primitivo e un’apprensione sintetica di ‘appartenenza’ di tali stati, atti, oggetti, ecc. ad un soggetto d’inesione e di attribuzione, per via del quale essi ottengono una certa struttura nell’ordine percettivo e ontologico a un tempo, e acquistano perciò un significato. Così i gradi e le forme superiori di coscienza presuppongono forme e gradi superiori di strutture non solo da parte dell’oggetto ma nello sviluppo della stessa coscienza del soggetto e della sua personalità. In quest’ultimo campo si parla soprattutto di coscienza morale che è l’avvertenza del bene e del male in concreto, ovvero il giudizio di moralità che ognuno deve fare delle azioni sue particolari» (Enciclopedia cattolica).

La coscienza conosce per essere norma dell’agire

«San Tommaso pone perciò la coscienza in un atto, cioè nell’applicazione di una conoscenza: ‘la parola coscienza significa riferire una cognizione a qualche cosa sicché dire di conoscere è come dire nello stesso tempo di sapere. La coscienza psicologica è quando si valuta se un’atto sia già o potrà essere compiuto; quella morale, se una  azione sia corretta o non (De Ver., q. 21, a. I). La prima quindi comporta un giudizio di esistenza, la seconda un giudizio di valore e il suo esercizio dipende dalla virtù morale della prudenza. Lungi dall’dentificarsi con l’essere, come nell’idealismo, la coscienza non s’identifica neppure con la vita o con l’anima, perché, mentre la vita è continua, la coscienza in noi è intermittente; anzi neppure con la stessa conoscenza,  perché c’è un possesso del sapere distinto dal suo atto, di cui la coscienza fa uso e gode secondo le diverse opportunità’» (Enciclopedia cattolica).
Il problema che si pone la coscienza è quello di discernere sull’origine delle sue norme.
L’uomo, naturalmente religioso, nella coscienza riconosce con il proprio spirito quel che lo Spirito divino ha in essa impresso riguardo all’origine e al fine della sua vita, che perciò a questa norma si deve conformare.
«La sua azione è duplice, e cioè propensione al bene e rifiuto del male»... «coesistenza della legge eterna nella creatura razionale».
Ma per i negatori dello spirito gli stati di coscienza, come i pensieri, non sono che epifenomeni, cioè fenomeni nuovi originati da uno o più fenomeni; la coscienza non sarebbe che un insieme di fatti psichici spiegati da processi fisiologici.

La riduzione evoluzionista della coscienza

Nel pensiero moderno si è venuto affermando progressivamente un triplice indirizzo, per così dire, intorno alla natura della coscienza: negativo nell’empirismo, positivo-costruttivo nel criticismo e nell’idealismo, positivo-descrittivo nella fenomenologia. Ora, certe speculazioni sulla natura della coscienza conducono proprio al suo oscuramento, cioè, a che la coscienza umana si stacchi dai suoi riferimenti obiettivi nella trascendenza.
In altre parole, una negazione dell’oggetto della coscienza che avviene proprio nella coscienza.
L’espropriazione delle coscienze avviene così attraverso la mediazione di un pensiero «filosofico» che, con la pretesa di spiegare l’ordine esistente, passa a governarlo con le sue ideologie.
E l’uomo non è più guidato da quanto si portava impresso dentro, ma dalle tante idee che ha proiettato autonomamente fuori di sé.
Ecco la prima ragione del grande conflitto: quanto è impresso nell’anima trascende l’individuo ed è intrinseco, permanente e comune alla natura di tutti gli uomini, mentre le idee immanenti sono estrinseche, mutabili, molteplici e indefinite quanto le influenze e condizioni della vita sulla terra.
A quale bene comune possono puntare?

La coscienza e la Legge

La coscienza è proporzionata ad ogni vita umana, essendo la capacità di percepire le realtà vitali per ognuno.
Diversamente da altre qualità umane, come  l’intelligenza del mondo e delle cose che varia da individuo a individuo, è riguardo alla coscienza di se stessi che gli uomini devono cercare la vera uguaglianza, che è spirituale.
Ecco che non solo la società religiosa, che, occupandosi essenzialmente delle coscienze e avendo per campo di azione le radici del nostro essere, deve formare il carattere morale, e anche la società civile.
La scintilla divina è la prima e ultima luce delle coscienze.
Ma attenzione, luce spirituale non vuol dire astratta.
«Il divino Maestro, Via, verità e Vita, ha fondato la sua Chiesa su una dottrina rivelata, su una legge positiva e un magistero vivente» (Pio XII, 18 aprile 1952).
Questa formazione della coscienza parte dalla Legge morale insegnata dalla Chiesa.
Ad essa si contrappone la «morale di situazione» che parifica i dettami morali obiettivi, «princìpi morali fondati su verità di fede» (Pio XII, 18 aprile 52), con le diverse ideologie.
«Un Iddio creatore e provvido reggitore del mondo; una legge eterna, che comanda il rispetto e proibisce la violazione dell’ordine naturale; un fine ultimo degli uomini, posto di gran lunga al di sopra delle create cose, fuori di questa terra; sono queste le sorgenti e i princìpi della giustizia e della moralità. I quali principi se, come fanno i Naturalisti ed altresì i Frammassoni, si tolgono via, l’etica naturale non ha più né dove appoggiarsi, né come sostenersi. In quanto alla sola morale che ammettono i Frammassoni, e che vorrebbero educatrice unica della gioventù, è quella che chiamano ‘civile e indipendente’, ossia che prescinde affatto da ogni idea religiosa. Ma quanto sia povera, incerta, e ad ogni soffio di passione variabile cotesta morale, lo dimostrano i dolorosi frutti, che già in parte appariscono. Infatti dove essa ha cominciato a dominare liberamente, dato lo sfratto alla educazione cristiana, la probità e integrità dei costumi scade rapidamente; orrende e mostruose opinioni levan la testa, e l’audacia dei delitti va crescendo in modo spaventoso» (Leone XIII, Enciclica «Humanum genus», 20 aprile 1884).

La legge eterna fondamentale riguardante la distinzione tra il bene e il male è quanto porta incisa in sé ogni coscienza umana.
Con lo sviluppo dell’intelligenza e della conoscenza l’essere umano ha però bisogno di perfezionarla. Ecco che essa fu definita dalle Tavole della Legge date a Mosè per poi arrivare al suo compimento con la Nuova Legge portata da Cristo: dottrina rivelata che riguarda il fine ultimo degli uomini e data da Dio per le coscienze accompagnata dal magistero vivente.
• La legge naturale ci precede ed è incisa nei nostri cuori;
• questa legge è sviluppata dalla Rivelazione;
• la coscienza è un’intima «corte di giustizia»: castiga e premia;
• la Legge naturale è confermata e perfezionata dalla Legge rivelata con la Parola divina.
Il contrario  dell’accettazione della Legge è l’erezione di una legge autonoma della coscienza, di un
«diritto» che porta ad ambiguità di leggi, a una morale di situazione, all’idea dell’evoluzione della
comprensione, al soggettivismo generale.
L’estraneità sociale della Legge è risultata dall’agnosticismo; la sua negazione totale è data dall’ateismo.

Una coscienza indipendente da Dio?

Le opinioni circa la natura e l’origine della coscienza, ben come di una legge morale indipendente da Dio, sono necessariamente contraddittorie.
Infatti, poiché il principio della coscienza è la norma del bene, dell’ordine umano e della moralità, norma comune ed antecedente ad ogni individuo, essa ci trascende tutti: appartiene all’ordine dell’essere.
Nessuno conosce da sé il suo vero bene e fine.
Ma essi certamente esistono e sono incisi nell’essere dell’uomo e di ciascuno.
Bene e fine che sono logicamente uno.
Eccoci ad una verità incancellabile sull’uomo che l’intelligenza ignora ma non può negare.
E invece la si vuole negare perché la si ignora partendo da una coscienza indipendente dal Bene, dall’Ordine, dall’Essere assoluto: Dio.
La coscienza morale secondo l’evoluzionismo «non è che una lenta conquista della specie umana, destinata a raggiungere forme etiche più perfette e definitive».
«La filosofia cristiana» afferma la coscienza, nella sua espressione essenziale, più che il prodotto di un «senso» vero e proprio, come fondamentale intuizione razionale, immanente al valore stesso della persona umana (donde anche una giustificazione del senso etimologico della parola), per cui l’uomo, non appena nell’azione si inserisce la sua personalità etica, apprende fondamentalmente il suo bene: che non si restringe a un valore puramente fisico, come per il resto della natura, ma è inteso come assoluta convenienza razionale, come dovere, dover essere.

Il dovere di fronte alla coscienza

«Ecco l’atteggiamento che occorre tenere di fronte ai vari atteggiamenti della coscienza.
Coscienza vera e erronea:
a) anzitutto l’agente è tenuto ad usare la debita diligenza affinché la sua coscienza concordi realmente con la norma oggettiva della moralità e cioè sia vera (‘Necessaria est inquisitio rationis ante iudicium de eligendis’: S.T., Ia - IIae, q. 74, a. I). Infatti, essendo la coscienza la norma prossima dell’agire, è  evidente che il soggetto deve desumere dalla norma oggettiva la fonte prima della moralità. Se il soggetto non ponesse la debita diligenza, venendo per tale modo la norma soggettiva a discordare con la norma oggettiva, è chiaro che egli diventerebbe colpevole in causa, cioè indirettamente responsabile dell’azione. E’ sufficiente all’agire umano la certezza morale, anche imperfetta. Infatti, la certezza assoluta negli atti umani è spesso impossibile. Provasi tale principio dalla condanna data da Alessandro VIII alla seguente proposizione dei giansenisti (7 dicembre 1690): ‘Non è lecito seguire l’opinione probabile o, tra quelle probabili, la più probabile’ (‘Non licet sequi opinionem vel inter probabiles probabilissiman’, Dz U 1293). Ma poiché anche l’opinione probabilissima non è assolutamente certa, se è lecito seguire un’opinione probabilissima, deve concludersi che all’agire umano è sufficiente una certezza morale imperfetta. E’ poi pacifico che per agire moralmente non si richiede la certezza morale speculativa (qualche volta impossibile ad aversi, poiché questioni morali controverse sono assai frequenti dal punto di vista speculativo) ma è sufficiente una certezza morale pratica».

Il Peccato filosofico

La norma di condotta umana è la volontà divina.
«Dio infatti vuole più di noi il nostro bene e la nostra perfezione; vuole quindi che noi osserviamo l’ordine morale che è presupposto e via per arrivarci. Anzi, per renderci più facile il raggiungimento della perfezione, è intervenuto positivamente dandoci alcune norme e manifestandocele infallibilmente nella Rivelazione. Per conseguenza il peccato può essere definito: factum vel dictum vel concupiium aliquid contra legem aeternam (Sant’Agostino, ‘Contra Faustum’, 20, 27: PL 42, 418). E’ questo anzi l’aspetto del peccato più frequente richiamato nella Rivelazione (confronta Gen. 39, 9; 13, 13; 38, 10; Ex. 33, 23; Jud. 10, 7; 19, 25; Rom. 5. 19; 2,29; 4, 16; ecc.)».
Così dall’idea di un ordine violato a quella di una persona offesa.
Si pone a questo punto un’altra questione assai difficile, la questione che si suol denominare del peccato filosofico e del peccato teologico.

La storia della questione

Nel giugno 1686 il gesuita François Musnier sosteneva pubblicamente a Digione la tesi che chi ignora Dio o non pensa attualmente a lui e agisce contro la retta ragione commette un peccato, detto peccato filosofico, ma non un’offesa di Dio, non cioè un peccato teologico.
Da questa tesi si giunse alla proposizione condannata da Alessandro VIII ossia: («Peccatum philosophicum... quantumvis grave, in illo, qui Deum vel ignorat vel de Deo actu non cogitat, est grave peccatum, sed non est offensa Dei, neque peccatum mortale dissolvens amicitiam Dei, neque aeterna poena dignum») come «scandalosa, temeraria, piarum aurium offensiva, et erronea» (Dz-U, 1290).
Nell’ordine oggettivo ogni peccato è anche peccato teologico.
«Ogni peccato infatti è violazione anche della volontà divina, offesa alla sua persona, noncuranza delle sue disposizioni: quaecumque continentur sub ordini rationis continentur sub ordine ipsius Dei (San Tommaso, Ia-2ae, q. 72, a. 4 c). Si può dire lo stesso per l’ordine soggettivo! Qui s’impone una seconda distinzione e precisamente: fra quelli che pongono a fondamento anche immediato dell’obbligazione l’autorità di Dio e quelli che pongono a  fondamento prossimo del dovere la natura umana. Per i primi non è possibile un peccato che non sia anche peccato teologico. Per essi infatti non si può parlare nemmeno prossimamente di obbligo vero e proprio se non quando si apprende che Dio comanda. Per conseguenza fino a quando non si avverte di opporsi ad un ordine divino non si può parlare di peccato Ogni peccato quindi o è teologico o non è. Teoreticamente non si vede perché non si possa dare un atto che sia avvertito come violazione dell’ordine morale senza che sia avvertito come opposizione alla volontà divina. Non si vede infatti perché non possa avvenire che uno sappia che un atto è incompatibile con la propria natura o col raggiungimento della propria perfezione e nel tempo stesso ignori che si oppone alla volontà divina, o perché ignora che Dio esiste o perché ignora che Dio gli proibisce di comportarsi come sta facendo. Ma l’idea di Dio è così facilmente raggiungibile e di fatto così diffusa che non si vede come quel caso possa verificarsi almeno normalmente» (Enciclopedia Cattolica, «Sul peccato filosofico e la coscienza»).
Si capisce allora il peccato filosofico come la libertà di pensiero del’essere umano pensante di negare il dovere verso il suo creatore: Colui che è. Esso è un peccato condannato, ma considerato un «diritto» dal Vaticano II!!!

L’educazione della coscienza

«Ognuno comprende quanto sia grave il problema dell’educazione della coscienza: grave per ciascun individuo come per chiunque, per missione o per ufficio, svolga una attività educativa. Ponendo il quesito dell’educazione della coscienza si pone il problema dell’onestà pratica delle azioni umane, della consecuzione del fine ultimo e del vero bene anche temporale individuale e sociale. II fanciullo, come s’è detto, non appena raggiunge l’uso della ragione, viene gradatamente a conoscere da sé i sommi concetti e princìpi morali, e li prende spontaneamente quale norma delle sue azioni; ma, da questo primo apparire della vita morale al possesso di una vita veramente virtuosa, c’è molto cammino da fare. Tutte le facoltà dell’uomo cooperano alla sua vita morale, e precipuamente, la ragione, la volontà, l’appetito sensibile. La ragione percepisce la legge; la volontà è tenuta ad impegnarsi vittoriosamente davanti al bene da compiersi; l’appetito sensibile deve aderire al comando della  volontà. La ragione percepisce, con evidenza, che il bene è da compiersi ed il male da evitarsi; ma per formare l’uomo onesto è necessario arricchire la mente di nozioni relative all’ordine morale, edificare nell’adolescente una solida convinzione del valore della ragione di fronte al dovere; è necessario soprattutto, mediante una sana educazione, irrobustire la volontà, affinché sia in grado di contenere nell’àmbito dell’ordine morale i moti passionali ininterrottamente riaffioranti e spesso irruenti. L’uomo, in sostanza, ha tutte le facoltà atte a compiere il bene, ma realmente l’agire secondo l’ordine morale è frutto di una lotta tra la retta ragione e le contrarie tendenze dell’umana natura; giacché l’uomo onesto non è colui che talvolta compie atti buoni, ma chi ha acquistato l’abito dell’agire secondo una coscienza retta. Come è vero che un uomo si distingue per le sue qualità intellettuali, volitive ed affettive che ha saputo acquistarsi, così può dirsi che un uomo si distingue dalla sua coscienza. E chi vuole educare la propria coscienza secondo la morale cristiana, non può fermarsi alle virtù dell’uomo onesto; ma deve arricchire la sua mente degli insegnamenti del Vangelo e conformare tutta la sua vita privata e pubblica al senso della coscienza cristiana: deve acquistare le virtù soprannaturali. Agli obblighi dell’uomo onesto nella vita individuale, familiare, sociale per il cristiano si aggiungono gli obblighi che promanano dalla concezione di vita basata sull’amore soprannaturale» (Enciclopedia Cattolica, voce «Coscienza»).
  
Il rapporto della coscienza con la libertà

«La libertà in generale è l’indipendenza che l’uomo rivendica per le sue azioni sia rispetto alle forze della natura (libertà razionale in senso ampio), sia rispetto alla società (libertà sociale e politica), sia rispetto a Dio (libertà teologica o religiosa). In questo senso il problema della libertà esprime il nucleo più originale della coscienza umana e la ragione più intima del suo sviluppo spirituale e, come tale, non è stata negata che dal materialismo atomista e illuminista e dal positivismo scientifico, che non ammettono una superiorità ontologica dell’uomo sulla natura: con ciò queste dottrine, come il materialismo dialettico marxista, devono rinunziare alla stessa filosofia che viene assorbita nella ‘scienza della natura’(Engels). La libertà è quindi a un tempo rivelativa e costitutiva della essenza della filosofia e insieme forma il suo còmpito più arduo in quanto la libertà pone e suppone il triplice orientamento della coscienza umana sull’essere del mondo, dell’uomo in se stesso e rispetto a Dio, e infine in quanto suppone una prospettiva o decisione definitiva dell’essere dell’uomo sul suo destino. La convinzione dell’esistenza della libertà è ‘attestata’ dallo sviluppo delle istituzioni e civiltà umane in cui l’uomo ha diversamente plasmato la sua vita; dalla esistenza di leggi sociali, che suppongono la re-sponsabilità individuale e con la possibilità di attuarla di fronte a ciò ch’è presentato come ‘dovere’; dalla coscienza stessa della libertà personale che ha ciascuno nella riflessione sui propri atti. La libertà che a questo modo viene attestata è la ‘libertà  fenomenologica’ e costituisce il punto di partenza della fondazione teoretica: questa deve tener conto, nel suo procedere, tanto del soggetto della libertà ch’è l’uomo e più particolarmente la volontà, come dell’‘oggetto’ della medesima volontà» (Enciclopedia Cattolica; da dove scrivo non è possibile confermare la pagina ma molti di questi testi sono nell’opera del filosofo Cornelio Fabro).

La situazione metafisica della libertà «può essere indicata nella elaborazione tomista secondo una ‘dialettica doppia’: anzitutto nella tensione di soggetto-oggetto in generale detta 1ibertà stessa, e poi nella tensione da parte del soggetto, causa seconda, rispetto al primo Principio (volontà umana-Dio); dentro il soggetto stesso fra intelletto e volontà; e nella tensione dentro l’àmbito dell’oggetto stesso (Bene infinito-beni particolari). E’ stato soltanto con il cristianesimo, che ha chiarito in un modo definitivo la trascendenza di Dio, la personalità dell’uomo singolo e la necessità della salvezza e redenzione individuale per corrispondere alla Grazia divina, che il problema della libertà ha potuto essere delineato in tutti i suoi momenti. La concezione tomista porta ad unità gli elementi sparsi nel pensiero greco e i tentativi dell’età patristica e della prima scolastica. La situazione metafisica della libertà nella dottrina più matura di San Tommaso può essere ridotta ai punti seguenti:

a) Rapporti fra intelletto e volontà. La volontà è l’appetito o inclinazione razionale, perciò suppone l’atto dell’intelletto che le presenta l’oggetto: quindi si deve dire che ‘quantum ad determinationem (seu specificationem) actus qui est ex parte obiecti, intellectus movet voluntatem, sicut praesentans ei obiectum suum’ (S. T., IaIIae, q.9, a.I). Aristotele aveva precisato questo fondamento  dell’intellettualismo pratico. Ma la volontà è la facoltà realizzatrice dell’uomo intero in quanto ha per oggetto il ‘fine’ (il bene e la felicità) ch’è il primo principio di ogni agire; quindi a sua volta la volontà muove lo stesso intelletto: ‘Voluntas movet intellectum quantum ad exercitium actus, quia et ipsum verum quod est perfectio intellectus continetur sub universali bono ut quoddam bonum particulare’ (S. T., Ia-IIae, q. 9, a. I ad 3).
C’è quindi una trascendenza dinamica della volontà sull’intelletto che spezza il cerchio dell’immanenza intellettualista: ‘Omnis actus voluntatis procedit ab aliquo actu intellectus: aliquis tamen actus voluntatis est prior quam aliquis actus intellectus; voluntas enim tendit in finalem actum intellectus qui est beatitudo’ (ibid., q. 4, a. 4 ad 2m).

b) Rapporti fra volontà e oggetto. Quanto all’entrare in azione e al muovere le altre potenze (intelletto compreso), la volontà è sempre libera, anche se si tratta di Dio o della felicità stessa: ‘Quantum ad exercitium actus voluntas a nullo obiecto de necessitate movetur’ (ibidem, q.10, a.2). Ma una volta che l’oggetto sia presentato e qualificato, la volontà è libera soltanto rispetto ai beni particolari, non più rispetto al bene universale, la felicità (beatitudo), ch’è il fine ultimo e specificativo della stessa volontà (volontà come ‘natura’). L’uomo può non pensare direttamente alla felicità, ma se ci pensa deve amarla necessariamente: Finis ultimus ex necessitate movet voluntatem quia est bonum perfectum (ibidem, q.10, a.2). Invece ogni altro bene non necessariamente connesso con la felicità, ponendosi come bene parziale e relativo, non è necessariamente voluto (ibidem). E’ vero che la volontà seguirà sempre e infallibilmente (e necessariamente, dicono i tomisti) l’ultimo giudizio pratico (practicum) dell’intelletto, ma che tale o tal altro giudizio sia l’ultimo, ciò è opera esclusiva della volontà stessa.

c) Rapporti fra volontà e Dio. La volontà nel suo ordine, come facoltà che ha per oggetto il fine e la felicità e muove tutte le altre potenze e lo stesso intelletto, muove se stessa: ‘Quia voluntas domina est sui actus et in ipsa est velle et non velle; quod non esset si non haberet in potestate movere seipsam ad volendum’ (ibidem, q. 9, a. 3, sed contra). La volontà, come principio finito che passa dalla potenza all’atto, deve anzitutto attuarsi nella tendenza al fine per poter scegliere da se stessa i mezzi; ma non può attuarsi da se stessa essendo nel primo momento come creatura, in potenza al fine stesso; perciò bisogna dire che nel primo atto la volontà è mossa al fine da Dio stesso: ‘Unde necesse est ponere quod in primum motum voluntatis voluntas prodeat ex instinctu alicuius superioris moventis ut Aristoles concludit’ (ibidem, q. 9, a. 9; confronta  Aristotele, Eud., VII, 14, 1248 a 24 seguenti). Nel seguente esercizio della sua libertà, in cui la volontà muove se stessa, la volontà come causa seconda è sempre mossa da Dio, causa prima; sia perché la volontà appartiene all’anima spirituale che è creata direttamente da Dio e quindi deve essere anche direttamente mossa da Dio, sia perché l’oggetto della volontà è il bene universale o la felicità perfetta ch’è Dio stesso (S. T., Ia - IIae, q. 9, a. 6).

Si può quindi concludere che la volontà è sempre libera ‘quoad exercitium actus’, anche rispetto al bene universale e a Dio stesso, perché sulla terra sono conosciuti (e quindi presenti alla coscienza) in modo astratto o mediato. La volontà non è libera quoad specificationem obiecti rispetto al suo oggetto formale, il bene universale, che la definisce e la mette in condizione di muoversi; e così dicasi dei mezzi necessari al fine, una volta che sia stato scelto il fine (ibidem, q.9, a.2 ad 3). La libertà pertanto non è l’attività suprema e fondamentale della vita spirituale: in Dio la vita divina è necessaria ed è libera soltanto la creazione ad extra; i beati che vedono la divina essenza non hanno la 1ibertà di non vederla, perché altrimenti non sarebbero più nel possesso della beatitudine; la volontà in genere non può non amare il bene ch’è proposto come tale.Così la 1ibertà ha il compito di attuare la persona per il suo fine ultimo. Sulla struttura metafisica della 1iberetà il tomismo respinge non solo il determinismo ma anche l’indeterminismo assoluto, in quanto in generale Dio muove la volontà applicandola all’atto singolare (ibidem Ia, q.105, a.5), e la volontà, una volta che ha scelto e l’intelletto ha fatto il suo giudizio ultimo pratico, deve seguire questo giudizio e non è più indifferente: soltanto modificando il medesimo giudizio può mutare la scelta. Le altre scuole cattoliche, specialmente il molinismo e le sue derivazioni, non accettano questa rigorosa impostazione metafisica e preferiscono quella psicologica e generica dell’indipendenza dell’uomo nell’atto della scelta. La psicologia moderna d’ispirazione spiritualista ha difeso una ‘coscienza della libertà’, ma non è facile dire se abbia afferrato la 1ibertà nel suo genuino significato metafisico e così sembra che l’argomento psicologico non può stare isolato (confronta ‘De malo’, q. 6, a. unico ad 18: ‘Potentia voluntatis ad opposita se habens cognoscitur a nobis, non quidem per hoc quod actus oppositi sint simul; sed quia successive sibi invicem succedunt ab eodem principio’; è quindi un’esperienza complessa che suppone almeno un processo di confronto dei vari atti). Il problema della 1ibertà non si chiarifica che gradualmente nel pensiero occidentale e non si presenta in modo definitivo che nella filosofia cristiana come responsabilità del singolo davanti a Dio per la scelta della vita eterna.

Il pensiero greco ha sempre ammesso un nucleo di responsabilità individuale e quindi di libertà fin nei poemi omerici, e poi nella lirica di Pindaro e specialmente con Sofocle, ch’è detto il ‘poeta del carattere’ (specialmente l’Antigone): la tragedia greca, anche in Eschilo, non è completamente fatalista, altrimenti sarebbe stato impossibile ogni valore etico e Aristotele non avrebbe potuto elaborare la sua dottrina della libertà. Gli stessi stoici, accusati di fatalismo, non la escludevano del tutto ma la mettevano accanto ai princìpi necessitanti del cosmo... Un’esigenza di libertà compare nello stesso Epicuro, che vuol sfuggire al rigido determinismo di Democrito e afferma ‘esser meglio credere alle divinità che esser schiavi del destino dei filosofi naturali’. Queste contraddizioni costituiscono il disagio più profondo dell’anima greca nel suo sforzo di chiarire l’essenza dell’uomo. La filosofia patristica e medievale procede gradualmente alla fondazione teoretica della libertà utilizzando gli elementi sparsi della filosofia classica e in essa compare il termine esplicito di liberum arbitrium. Nemesio e San Giovanni Damasceno, per esempio, seguono di preferenza Aristotele in quanto fondano la 1ibertà sulla razionalità, come farà poi San Tommaso. Presso la corrente agostiniana, a cominciare Sant’ Anselmo, ha corso la definizione ispirata a Sant’Agostino: ‘Libertas arbitri est posse peccare vel non peccare’. La terza definizione che ha credito nel medioevo è quella di Boezio, ancora di derivazione aristotelica: Liberum arbitrium est liberum de voluntate iudicium. L’errore filosofico più grave sulla libertà nel pensiero medievale viene dall’averroismo, inclinato al determinismo dell’intelletto sulla volontà e dell’influsso degli astri sulle passioni individuali. Nel Rinascimento il problema della libertà era al centro della nuova concezione dell’uomo e in esso si riscontrano le difficoltà in cui si dibattevano alessandristi e averroisti sia rispetto all’esegesi del testo aristotelico come nei riguardi della fede. Nella filosofia moderna la libertà esprime l’attività stessa della coscienza nella sua opposizione alla necessità della causalità fisica; per Kant nella natura dei fenomeni domina la rigida necessità del principio di causa, a cui si oppone la 1ibertà trascendentale che sta a fondamento del noumenon della sfera dello spirito e quindi costituisce la possibilità trascendentale della ragion pratica: posizione a cui si attiene, sviluppandola, Fichte. Hegel si dichiara contro la libertà puramente formale come contro la libertà di arbitrio, in quanto la prima mantiene separati il lato soggettivo e quello oggettivo, e la seconda è la 1ibertà di fare quel che si vuole».

La libertà secondo la Dottrina della Chiesa

«L’originalità della 1ibertà umana è di essere un principio nuovo nel mondo, autore della storia, che può modificare entro certi limiti il corso stesso della natura ma che soprattutto costituisce la vera possibilità di trascendenza dell’uomo in direzione dell’Assoluto e come apertura verso la fede e la grazia che lo devono salvare. L’etica cristiana ha per fondamento la responsabilità che ognuno ha delle proprie azioni e suppone quindi la 1ibertà individuale. I1 magistero ecclesiastico dovette affermare l’esistenza della libertà specialmente nel dirimere le controversie sul problema della Grazia. Si legge nel Concilio di Quiersy (853) contro Gottschalk e i predestinaziani can. I. ‘Deus omnipotens [hominem] sine peccato rectum cum libero arbitrio condidit...’ (Dz U, 3I6). E fra gli errori di Baio si trovano le proposizioni: 39. Quod voluntarie fit, etiamsi necessario fiat, libere tamen fit. 40. In omnibus suis actibus peccator servit dominanti cupiditati... (ibidem, numeri 1039-40). Contro A. Bonethy è stato dichiarato che la 1ibertà si può dimostrare dalla ragione con piena certezza (ibidem, numero 1.650)».

La coscienza morale naturale e soprannaturale

«Differisce profondamente la coscienza che ha le basi nella norma morale naturale, dalla coscienza che abbraccia l’ordine soprannaturale. Per l’uomo onesto che non sia un credente, la coscienza s’afferma nell’uso della retta ragione e nella conseguente volontà che opera il bene; mentre per il cristiano la visuale nel programma d’attività morale resta enormemente ingrandita per l’aggiungersi delle norme cristiane, nelle quali viene ad essere riassunto, precisato e corroborato il quadro della morale naturale. Di più, per il credente cambia il motivo fondamentale onde prende inizio la vita morale: l’uomo onesto opera il bene per amore naturale, il cristiano appoggia la sua attività morale sull’amore soprannaturale. Con ciò non può intendersi che la coscienza naturale possa astrarre da Dio come fondamento della norma morale. Dio rimane il fine ultimo e la fonte della norma morale tanto nell’ordine naturale quanto nell’ordine soprannaturale: e i doveri verso Dio fanno parte della norma naturale; come non deve intendersi che possa esistere la coscienza cristiana separata dalla coscienza naturale, poiché quella include necessariamente questa».

Credere è la prima norma della coscienza

In questo scritto si fa ricorso alle fonti più dirette ed autorevoli sulle questioni della coscienza e della libertà per intrecciarle in vista del dilemma: possono i diritti precedere i doveri nell’ordine mentale e morale?
Lo scopo è di dimostrare che nel piano religioso del «credere» , ma anche in quello civile del «fare», ciò è contraddittorio.
Basta pensare che per applicare i «diritti» la società deve ricorrere a chi pone il «dovere» per primo, spesso a rischio della propria vita.
Una posizione che ha spesso un aspetto religioso: che trascende le convenienze.
Perciò i Papi, hanno sempre insegnato il dovere di formare la coscienza nella parola di Dio, origine di ognii verità, legge e diritto.
Perciò credere è la prima norma della coscienza, anche solo naturale, poiché l’uomo onesto che ancora non è giunto alla Fede parte comunque dalla fede nella norma del bene che lo precede.
E’ di enorme importanza ricordare questo fatto.
Infatti la Religione rivelata è lo sviluppo di quanto è rivelato in germe alla coscienza di ogni uomo.
Perché si riconosce l’ordine del bene si aspira al Regno del Bene, della Verità e della Vita.
Come conseguenza di una fede naturale si riceve quella soprannaturale, dopo di che la coscienza non può più tirarsi indietro senza colpa.
Non può più negare il Trascendente senza contraddire il bene in questa vita; negare Dio senza dannare la sua anima in eterno (Marco 16, 16).

L’autorità papale esiste per predicare sempre questo vincolo che conferma quello naturale e perfeziona quello del Decalogo.
Il Signore ha istituito la sua Chiesa e ordinato ai suoi Apostoli: «Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo ad ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, ma chi non crederà sarà condannato» (Marco 16, 15-16).
A questo punto è chiaro che il principio della Religione e perciò della Chiesa e della sua autorità è l’affermazione della norma divina nelle coscienze.
Una religione che ammettesse soltanto una norma della coscienza indipendente da Dio sarebbe una antireligione, sarebbe un ateismo di aspetto religioso.
E, poiché la via per arrivare alla prima Norma della coscienza è credere in una norma, accogliere l’idea di una libertà in questo senso è in opposizione a ogni forma religiosa, ogni dottrina morale e norma di bene.
E’ contro Dio e il suo Cristo.
E’ la falsa norma dell’anticristo che suscita nelle coscienze la rottura del vincolo vitale tra legge e libertà e tra libertà e volontà.

La sovranità di Nostro Signore Gesù Cristo (Leone XIII, Enciclica Tametsi, 1 novembre 1900):

«Né molto dissimile dal destino degli individui è quello degli Stati: anche questi corrono verso la loro perdizione se si allontanano dalla via. II Figlio di Dio, creatore e redentore dell’umana natura, è re e padrone di tutta la terra ed ha suprema potestà sugli uomini, sia presi singolarmente, sia raccolti in civile società. ‘Diede a lui potestà, onore e regno; e tutti i popoli, tribù e lingue lo serviranno’ (Dn 7, 14). ‘Io sono stato da lui costituito re... Io ti darò in tuo retaggio le genti, in tuo dominio gli ultimi confini del mondo’ (Sl 2, 8). Dunque anche nel convivere umano e nella civile società deve imperare la legge di Cristo, così che non solo nella vita privata, ma anche nella pubblica sia guida e maestra. Or poiché questo è il decreto di Dio, e nessuno può impunemente trasgredirlo, mal si provvede alla cosa pubblica ovunque le cristiane istituzioni non si tengano in quel conto che si deve. Allontanandosi da Gesù rimane abbandonata a se stessa la ragione umana, privata dall’aiuto più valido e del lume più prezioso; ed allora con tutta facilità si perde di vista il fine stesso stabilito da Dio nell’istituzione del consorzio civile: e questo fine consiste formalmente nell’aiutare i cittadini a conseguire il benessere naturale; ma che il modo armonizzi del tutto col conseguimento di quel sommo, perfettissimo e sempiterno bene, che trascende tutti gli ordini della natura. La confusione di tali idee conduce irremovibilmente fuori di strada e reggitori e sudditi per difetto d’indirizzo sicuro e d’un sicuro punto d’appoggio. Se lacrimevole cagione di sventure è il fuorviare dal retto sentiero, lo è similmente l’abbandono della verità. Ora la prima, assoluta ed essenziale verità è Cristo, poiché è Verbo di Dio, consostanziale e coeterno al Padre, una cosa stessa col Padre. ‘Io sono la via e la verità’. Dunque, se si cerca il vero, soprattutto ubbidisca l’umana ragione a Gesù Cristo e sicura riposi nel suo magistero, poiché per bocca di Cristo è la verità stessa che parla. La verità e la via. La fede e le virtù salutari. E poi, di quanto valga e quali frutti produca questa onestà non curante della fede, troppe prove abbiamo sotto gli occhi. Come è che con tanto impegno di stabilire ed accrescere la pubblica prosperità ogni giorno più soffrono gli Stati in punti di capitale importanza e appaiono come infermi? Si asserisce, è vero, che la società civile basta a se stessa: che è capace di fiorire egregiamente senza il concorso delle istituzioni cristiane, e con le sole proprie forze conseguire il proprio fine. Quindi negli ordini amministrativi si vuole laicizzare tutto; nella disciplina civile e nella vita pubblica dei popoli si vede dileguare a mano a mano le impronte della religione tradizionale. Ma non si riflette abbastanza dove conducano questi princìpi. Poiché, tolta di mezzo I’idea della sovranità di Dio, giudice e retributore del bene e del male, forza è che perdano la loro più valida autorità le leggi, e che venga meno la giustizia; eppure sono questi i due più necessari e saldi legami della civile compagine. Similmente estinta la speranza e l’attesa dei beni eterni, s’accende di necessità nei cuori la sete irrefrenabile dei beni terreni, e ciascuno procaccerà con tutte le forze di accaparrarne quanto più può. Quindi gare, invidie, odii: poi biechi propositi: aspirare all’abolizione di ogni potere, minacciare ovunque folli rovine. Non tranquillità  fuori, non sicurezza dentro; disonestata da truci delitti la convivenza civile» (Enciclica Tametsi).

Il ripudio rivoluzionario della vera autorità

Benedetto XV, Ad Beatissimi: «Abbiamo detto che un’altra cagione dello scompiglio sociale consiste in questo, che generalmente non è più rispettata l’autorità di chi comanda. Imperocché dal giorno che ogni potere umano si volle emancipato da Dio, creatore e padrone dell’universo, e lo si volle originato dalla libera volontà degli uomini i vincoli intercedenti tra superiori e sudditi si andarono rallentando talmente da sembrare ormai che siano quasi spariti. Uno sfrenato spirito di indipendenza, unito ad orgoglio, si è a mano a mano infiltrato per ogni dove, non risparmiando neppure la famiglia, ove il potere chiarissimamente germina dalla natura, ed anzi ciò che è più colpevole, non sempre si è arrestato alle soglie del santuario. Di qui il disprezzo delle leggi; di qui I’insubordinazione delle masse; di qui la petulante critica di quanto I’autorità dispone; di qui i mille modi escogitati a fin di rendere inefficace la forza del potere; di qui gli spaventevoli delitti di coloro che, facendo professione di anarchia, non si peritano di attentare così agli averi come alla vita altrui. Di fronte a questa mostruosità del pensare e dell’agire, deleteria di ogni esistenza sociale, Noi, costituiti da Dio custodi della verità, non possiamo non alzare la voce; e ricordiamo ai popoli quella dottrina che nessun placito umano può mutare: Non vi è potere se non da Dio: e le cose che sono, sono ordinate da Dio (Rm 13, 1). Ogni potere adunque che si esercita sulla terra sia esso di sovrano, sia di autorità subalterne ha Dio per origine. Dal che San Paolo deduce il dovere di ottemperare, non già in qualsivoglia maniera, ma per coscienza, ai comandi di chi è investito del potere, salvo il caso in cui si oppongano alle leggi di Dio: ‘E’ necessario dunque essere sottomessi, non solo per timore del castigo, ma anche per obbligo di coscienza’ (Romani 13. 5).[...] Rammentino questo i Principi e i reggitori dei popoli e vedano se sia sapiente e salutare consiglio, per i pubblici poteri e per gli Stati, il far divorzio dalla religione santa di Cristo, che è sostegno così potente delle autorità. Riflettano bene se sia misura di saggia politica il voler sbandita dal pubblico insegnamento la dottrina del Vangelo e della Chiesa. Una funesta esperienza dimostra che ivi l’autorità umana è disprezzata, donde esula la religione. Succede infatti alle società quello stesso che accadde al nostro primo padre dopo aver mancato; come in lui, appena la volontà si fu ribellata a Dio le passioni si sfrenarono e disconobbero I’impero della volontà così, quando chi regge i popoli disprezza l’autorità divina, i popoli a loro volta scherniscono l’autorità umana».

L’origine e la fine della crisi dell’autorità

Lettera Anno jam exeunte, Benedetto XV, 7 marzo I917: «Dopo i primi tre secoli dalle origini della Chiesa, nel corso dei quali il sangue dei cristiani  fecondò l’intera terra, si può dire che mai la Chiesa ha corso un tale pericolo come quello che si manifestò alla fine del XVIII secolo. Fu allora, infatti, C’est sous l’effet de la folle philosophie issue de l’hérésie des Novateurs et de leur traison que, les esprits déraisonnant en masse, éclata la Révolution dont l’extension fut telle qu’elle ébranla les bases chrétiennes de la société, non seulement en France, mais peu à peu dans toutes les nations. Che una filosofia in delirio, prolungamento dell’eresia e dell’apostasia dei novatori, acquistò sugli spiriti una potenza universale di sedizione e provocò uno sconvolgimento totale con il proposito determinato di rovinare i fondamenti cristiani della società, non solo in Francia, ma, a poco a poco, in tutte le nazioni. Cosi, rigettata pubblicamente I’autorità della Chiesa, poiché si è cessato di tenere la religione come custode e salvaguardia del diritto e del dovere e dell’ordine nella società, si insegnò che il potere ha origine dal popolo e non da Dio; che tutti gli uomini sono uguali per natura come per diritto; che a ciascuno è Iecito ciò che gli piace, se non è espressamente proibito dalla legge; che nulla ha forza di legge, se non è comandato dalla moltitudine; e, ciò che è più grave, che si può pensare e pubblicare, in fatto di religione, tutto ciò che si vuole, sotto pretesto che ciò non reca danno a nessuno. Tali sono gli elementi che, a maniera di princìpi, sono da questo momento alla base della teoria degli Stati.[...] Ed ecco che: Niente di così santo e così augusto che, in nome della libertà e della giustizia, della quale si manifestava una sfrenata licenza non fosse ovunque profanato. Non erano che massacri e distruzioni tendenti alla desolazione e all’annientamento della Francia cristiana; ciò che si vide soprattutto a partire dal momento in cui nel colmo della temerità e della follia  fu abolito il culto della divina Maestà, e la ragione, invocata come dio, ricevette I’omaggio dei riti sacrileghi... Appena che le istituzioni civili ebbero ricevuto una forma ispirata da nuovi principi, il culto divino fu ristabilito, senza il quale mai nessuno Stato potrà sostenersi».
 
Il principio della coscienza non è la libertà ma il suo vincolo.
Esso è, nella sua forma naturale, nella norma impressa in ogni anima.
Ne segue il vincolo dello spirito.
La norma soprannaturale che è necessariamente rivelata e di cui la Chiesa è maestra e custode.
Diceva il cardinale Newman: «Conscience is the true vicar of Christ in the soul; a prophet in its information; a monarch in its peremptoriness; a priest in its blessings or anathemas, according as we obey or disobey it».
Ma ecco che l’indipendenza rivoluzionaria della coscienza fu «battezzata» dalla «Pacem in terris» e poi dalla dottrina del Vaticano II, specialmente con l’andare incontro ad ogni agnosticismo (la religione dell’uomo che si è fatto dio), con il rifiuto della condanna all’ateismo e con la dichiarazione che tali negazioni di Dio, dette libertà religiose, siano un diritto naturale della persona umana («Dignitatis Humanae»).

Dunque gli uomini avrebbero il diritto di trasgredire la norma morale impressa nelle loro coscienze, proprio in nome di una «libertà di coscienza».
Un diritto naturale contro la coscienza naturale che deve cercare la pienezza della sua norma in una libertà promulgata da «autorità» preposte a vincolare le coscienze all’ordine non solo naturale ma soprannaturale, è l’inversione di quanto la Chiesa ha sempre insegnato interpretando infallibilmente la Rivelazione divina.
Poiché la Sede romana è legata all’autorità di Dio, se da essa si dichiara il diritto alla libertà dell’umana scellera¬tezza proprio quando gli uomini abusano della libertà, è chiaro che l’autorità dell’Anticristo deve aver varcato la soglia della Chiesa.
E dove essa insegnava i doveri umani verso Dio, lì si passò ad insegnare il diritto umano di scegliersi religioni («Dignitatis Humanae») dove la dignità di cogliere dall’albero del bene e del male è non solo ammessa, ma lodata con immensa simpatia (Paolo VI).
Come è stato possibile?

A causa di conclavi «orripilanti» che hanno consacrato il modernismo e il loro gran frutto, non più vietato ma libero dell’apostasia approvata dalle gerarchie conciliari, consistente nell’inversione dell’autorità che proclama la Legge eterna di Dio, a favore di un’altra che, nella stessa sede proclama il diritto alla libertà di scelta della propria verità.
Insomma, lo scopo del Vaticano II: incorporare «i valori di duecento anni dell’Illuminismo» (Ratzinger).

Portae inferi non praevalebunt

«Oggi non è più 1’eresia, non è più il Martirio di sangue che si fa incontro alla Chiesa per combatterla, ma è, dirò così, il martirio intellettuale e morale. Oggi non si fa più guerra a una parte della Chiesa, a un lato della sua fede, a qualcheduno dei suoi dommi. Oggi si fa guerra alla Chiesa tutta. Oggi sta contro la Chiesa 1’Incredulità, l’Ateismo, il Materialismo. Oggi non è più da lottare (giova ripeterlo) con eresie che non esistono, o che non hanno importanza alcuna; ma con la indifferenza, con l’empietà, che mira a schiantare dal cuore di ogni Cattolico la fede; mira a ruinar dalle fondamenta la Chiesa di Gesù Cristo, e questa Città,  fatta preziosa dal sangue di tanti Martiri, a gittar di nuovo nel lezzo dell’antica corruzione, riducendola come sotto i Neroni, o più veramente come sotto i Giuliani Apostati. Sicché Roma, sede venerata della verità, diventerebbe insomma un’altra volta, centro di tutti gli errori. Ma non vi riusciranno, poiché Dio difende la sua Chiesa. Non vi riusciranno, poiché la Chiesa di Gesù Cristo, piantata sulla pietra, non crollerà giammai per infuriar di tempesta. Sì, unitevi sempre più, Figli miei: né vi trattengano per poco bugiarde voci di una impossibile conciliazione. Di conciliazione è inutile parlare: imperocché la Chiesa non si potrà mai conciliare con l’errore, e il Papa non si può separare dalla Chiesa» (Pio IX, (27 novembre 1871).

Ecco perché il Segno di Fatima fu tanto avversato, ad immagine della Tradizione cattolica, e diviene ora l’aiuto ineludibile per affrontare tale crisi della Cristianità, indicando l’ora notturna dell’abbattimento epocale della voce apostolica del Papato.
Ma, «alla fine» verrà un Papa cattolico per compiere la consacrazione richiesta... e «il mio Cuore Immacolato trionferà...».

Arai Daniele


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