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Il succo dell’Apocalisse (6)
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SESTA PARTE
Ultima parte
(1) (XXI, 1 – XXII, 5)

Capitolo XXI (1-27)

Al capitolo XX il dramma del mondo si conclude con il castigo eterno del “lago di fuoco” (vv. 11-15), che è il fuoco dell’inferno. Il Giudizio universale ha separato definitivamente i giusti dai malvagi. Adesso nell’ultima parte dell’Apocalisse (cap. XXI, 1 – XXII, 5) viene descritta la sorte dei beati in paradiso.

La fine consiste nella trasformazione e restaurazione di ogni cosa in Cristo (1 Cor., XV, 24-28): dopo la disfatta e la distruzione delle potenze malefiche (la bestia del mare e della terra, il dragone rosso con il loro accoliti) ritorna il regno fondato da Dio e riconquistato dalla redenzione di Cristo. Eliminato il mondo del peccato appare un universo nuovo, eternamente beato e luminoso, nel quale vivranno senza pericolo alcuno gli eletti perseguitati in questo mondo.

Il “cielo e la terra nuovi” (v. 1) sono l’universo intero, che è nuovo in quanto succede a ciò che è invecchiato, sorpassato e morto (come il Nuovo Testamento succede al Vecchio Testamento). Traspare chiara l’allusione alla creazione del mondo fatta da Dio in principio, che è rinnovata e restaurata da Cristo alla fine con “nuovi cieli e nuova terra”. Con la fine del mondo si ha una trasmutazione in meglio di questo nostro mondo mediante il fuoco purificatore. La vita nuova è sempre preceduta dalla morte per tutti (il mondo, i santi, i malvagi e lo stesso Gesù Cristo).

Perciò San Giovanni scrive: “E vidi un nuovo cielo e una nuova terra” (v. 1). Dopo aver descritto lo sterminio dei nemici di Dio (il drago rosso, le due bestie e i loro accoliti) l’Apostolo rivela ora il trionfo della Chiesa (XXI, 1 – XXII, 5). Innanzi tutto vede il mondo trasmutato in meglio, purificato, trasfigurato e glorificato dal fuoco del giudizio universale. Infatti il fuoco del giudizio non annichila il mondo, ma lo trasfigura come son trasfigurati i corpi dei santi del cielo. Il peccato originale rovinò la terra visibile che è l’opera di Dio (Gen., III, 17; Rom., VIII, 19), però nel giudizio universale l’Incarnazione di Cristo con la sua vittoria definitiva sul diavolo sconfigge la corruzione della morte e restaura ogni cosa (2 Petri, III, 7-13).

“Poiché il primo cielo e la prima terra passarono e il mare non è più (come prima)” (v. 1): l’Apostolo ribadisce il concetto di transumatio in melius del mondo (“il primo cielo e la prima terra”); quanto al termine “il mare” si ritiene che alluda ai mondani i quali sono procellosi e turbolenti come le onde del mare (S. Agostino, De Civ. Dei, XX, 16).

Poi Giovanni vede “la città santa” (v. 2) in opposizione alla città terrestre o di satana, “la nuova Gerusalemme” (v. 2) - contrapposta alla Babilonia corrotta o gran meretrice e alla Gerusalemme deicida - “che scendeva dal cielo presso Dio” (v. 2) per indicare che i suoi cittadini, le anime sante, discenderanno dal cielo il giorno del giudizio universale per unirsi ai loro corpi che risorgeranno, essa è “messa in ordine come una sposa agghindata che va incontro al suo sposo” (v. 2): la “città santa” è bene abbigliata in opposizione alla discinta gran meretrice, perché è la Chiesa trionfante  gode la visione beatifica di Dio in cielo ove tutto è puro, ben ordinato e santo. Dio ne è il creatore e l’ha ornata elegantemente per farne la degna sposa di suo Figlio, Gesù Cristo.

Gerusalemme sfolgora ormai di gloria divina. Essa è una collettività metastorica come Babilonia e con la quale si trova in una antitesi irriducibile: l’una come vetta di santità e l’altra come abisso di corruzione. Si noti che il veggente di Patmos la chiama “la nuova Gerusalemme” per far ben capire che essa è del tutto diversa dalla vecchia città gerosolomitana, che ha ucciso i Profeti e ha crocifisso Gesù Cristo. Inoltre ella è nuova anche rispetto alla Legge mosaica (buona ma imperfetta) di cui è il perfezionamento.

L’antitesi della Gerusalemme celeste con la Babilonia terrestre è totale: la prima è sposa, la seconda meretrice; la prima è ornata spiritualmente, la seconda materialmente; la prima scende dal cielo e si insedia nell’universo nuovo, la seconda nasce dal mare e dalla terra e cade annientata da fumo e fuoco (A. Romeo).

Giovanni ode «una gran voce dal trono che diceva: “ecco il tabernacolo di Dio con gli uomini e abiterà con loro. Ed essi saranno il suo popolo ed Egli sarà il loro Dio con essi”» (v. 3): è la voce fortissima di Dio onnipotente assiso sul trono di gloria del paradiso, il vero ed eterno tabernacolo del Signore, di cui quello fabbricato da Mosè nel deserto (Es., XL, 32) era soltanto una figura, che avrebbe dovuto lasciare il posto alla realtà. Ciò vuol dire che il vero santuario o tabernacolo di Dio, con la Nuova Alleanza, è su questa terra - in maniera imperfetta - presso tutti i fedeli di tutte le razze e in tutto il mondo nei tabernacoli dell’Eucarestia così che gli uomini abiteranno assieme con Dio, in un certo qual modo sotto la stessa tenda, e la loro unione sarà indissolubile (tranne per chi lo abbandonerà: “Deus non deserit nisi prius deseratur / Dio non abbandona se prima non è abbandonato”) sino alla fine del mondo e poi - in maniera perfetta -  per tutta l’eternità in paradiso. Dio con la Nuova Alleanza è veramente l’Emmanuele o il “Dio con noi”  (Mt., I, 23).

“Dio asciugherà dai loro occhi ogni lacrima e non vi sarà più morte, né lutto, né strida, né alcun dolore perché le prime cose son passate” (v. 4), ossia, dopo la fine del mondo, nella beatitudine eterna del cielo non vi sarà più nessun male. Il paradiso è il luogo di ogni bene senza alcun male: la morte, le liti, il dolore. Infatti la vita terrena (“le prime cose”), soggetta spiritualmente alla possibilità di peccare  perdendo la grazia di Dio e materialmente ai mali fisici e alla morte, è finita, passata per sempre. Ora si è nel regno della gioia e della felicità eterna, che dura sempre e non finisce mai.

«Colui che sedeva nel trono disse: “Ecco Io rinnovo  tutte le cose”» (v. 5): Dio stesso spiega che Egli restaurerà, in Gesù Cristo (2 Cor., V, 17), ossia con la Redenzione tramite l’Incarnazione, Passione e Morte del Verbo Incarnato, tutto ciò che il peccato di Adamo e dei suoi figli aveva guastato.

«E disse a me: “è fatto. Io sono l’alfa e l’omega, il principio e la fine”» (v. 6), vale a dire “consummatum est”, tutto è stato restaurato in Cristo, il disegno di Dio è compiuto. Infatti Dio è il principio e il termine di ogni creatura (l’alfa e l’omega sono la prima e l’ultima lettera dell’alfabeto greco) e poiché Egli è il creatore e l’onnipotente, i suoi disegni non possono essere vanificati.

“A chi ha sete Io darò gratuitamente da bere alla fontana dell’acqua della vita” (v. 6). L’acqua è il simbolo della grazia che è partecipazione alla vita di Dio e inizio di vita eterna. Quindi Dio promette di darla a chiunque la desideri con buona e sincera volontà (“chi ha sete”). In breve tutti i desideri dei fedeli che vivificano la loro fede con le buone opere saranno appagati da Dio poiché Egli darà loro Sé stesso visto faccia a faccia e posseduto per sempre nella visione beatifica del paradiso. Si noti come Giovanni affermi chiaramente il dogma della gratuità della grazia santificante, negato dai modernisti che la reputano dovuta alla natura e non gratuita. Errore, questo, condannato da San Pio X nell’Enciclica Pascendi (8 settembre 1907) e da Pio XII nell’Enciclica Humani generis (12 agosto 1950).

“Chi sarà vincitore sarà padrone di queste cose, Io sarò il suo Dio ed egli mi sarà figliuolo” (v. 8): condizione indispensabile per entrare in cielo (in cui l’adozione a figli di Dio che Gesù ci comunica già su questa terra sarà perfetta, cfr. Rom., VIII, 23) è combattere, ossia vivere bene, restare costanti nella fede, nonostante le persecuzioni, e nelle buone opere ossia nella carità soprannaturale, che vivifica la fede. Infatti “senza le opere la fede è morta” (S. Giacomo). Si noti il “mi sarà figliuolo” termine molto caro a San Giovanni e da lui spesso usato nella sua prima Epistola riguardo ai suoi fedeli. Figliuolo aggiunge una nota di bontà e di tenerezza alla parola “figlio”. Il figliuolo è piccolo e perciò ispira un’affettuosa amorevolezza ai genitori.

“Per i vili e per gli increduli, gli esecrandi, gli omicidi, i fornicatori, i venèfici, gli idolatri e per tutti i mentitori, la loro parte sarà nello stagno ardente di fuoco e di zolfo, che è la seconda morte” (v. 8), ossia l’Apostolo contrappone al “vincitore” (v. 7) i “vili” o gli uomini di poca fede, che ricusano di combattere strenuamente. Gli “increduli” sono coloro che non vogliono credere o che hanno perso la fede. Gli “esecrandi” (nel testo greco “abominevoli”) sono coloro che si son dati al vizio impuro. I “venèfici” son coloro che praticano la magia. I “mentitori” son coloro che insegnano false dottrine intorno alla fede. Lo “stagno” è l’inferno e la “seconda morte” è la dannazione eterna.

Uno dei sette angeli che avevano le sette coppe ricolme delle sette piaghe mostra a Giovanni lo splendore della Gerusalemme celeste (v. 9), cioè la gloria della sposa di Cristo, che è la Chiesa. Egli porta l’Apostolo “in visione sopra un monte grande” (v. 10), affinché la possa osservare in tutta la sua estensione.

“La Città santa, Gerusalemme, scendeva dal Cielo presso Dio ed aveva lo splendore di Dio” (v. 11), vale a dire la sposa (la Gerusalemme celeste o la Chiesa) partecipa alla gloria e alla luce dello sposo (Dio). La Gerusalemme celeste è la sposa dell’Agnello in contrapposizione radicale con Babilonia che è la gran prostituta del diavolo.

La Gerusalemme celeste “aveva un  muro grande ed alto” (v. 12), ossia essa è inespugnabile e al sicuro da ogni attacco del demonio che non può distruggere la Chiesa militante e nulla può contro la Chiesa trionfante. Inoltre la città “aveva dodici porte e alle porte erano dodici angeli”, cioè  dodici angeli fanno da custodi alle dodici porte e non lasciano entrare nessun nemico dentro la città. Sopra le porte “erano scritti i nomi, che sono quelli delle dodici tribù d’Israele” (v. 12), vale a dire il popolo d’Israele composto di dodici tribù era  figura della Chiesa, composta di dodici Apostoli: “Il muro della città aveva dodici fondamenti e su di essi erano scritti i dodici nomi dei dodici Apostoli dell’Agnello” (v. 14). Quindi le dodici tribù simboleggiano la universalità della Chiesa, la cui dottrina e autorità deriva dall’Agnello ai suoi Apostoli.

Qui appare chiaro che quando l’Apocalisse parla dell’ “Agnello” indica esattamente Gesù. L’Antico Testamento (le dodici tribù d’Israele) e il Nuovo Testamento (i dodici Apostoli) sono la porta e il fondamento della Chiesa, nella quale nessuno può entrare se non fondandosi sulla Vecchia e Nuova Alleanza, sulla dottrina contenuta nell’Antico e Nuovo Testamento. Come già visto, il numero dodici indica pienezza e qui l’universalità della Chiesa contro ogni particolarismo esclusivista del vecchio Israele.

Dopo aver descritto le dimensioni (vv. 15-17), i materiali (vv. 18-21), i fondamenti delle mura (vv. 14-21), l’Apostolo rivela che non ha visto “in essa alcun tempio. Poiché il Signore Dio onnipotente e l’Agnello è il suo tempio” (v. 22). Infatti i templi sono come l’abitazione di Dio. Ora tutto il Cielo è l’abitazione di Dio, che lo riempie del suo splendore ed è contemplato faccia a faccia dai beati. Quindi non è necessario un tempio a parte poiché tutto il cielo forma un unico tempio. Si noti che anche qui l’Agnello è identificato con Dio.

“La città non ha bisogno di sole, né di luna che risplendano in essa: poiché lo splendore di Dio la illumina e la sua lampada è l’Agnello” (v. 23), vale a dire che la luce della Gerusalemme celeste è Dio stesso, molto più splendente della luna e persino del sole. Lo splendore o la gloria di Dio e dell’Agnello (anche qui associato a Dio, come lampada che illumina) anche con la sua umanità in cui sussiste la sua Persona divina) sono la luce immensa che avvolge i beati e li riempie di beatitudine.

“E le genti cammineranno alla luce di essa e i re della terra porteranno a lei la loro gloria e il loro onore” (v. 24): l’Apostolo descrive lo splendore del cielo o della Gerusalemme celeste, che è la Chiesa trionfante, rappresentandola come una città che riceve l’omaggio di tutti i popoli, poiché la Chiesa è composta da uomini di tutte le razze, i quali in paradiso sono re, che offrono continuamente a Dio i loro onori. Infatti “servire Dio significa regnare”.

Secondo Antonino Romeo il fatto che le genti e i re della terra compaiano ancora viventi e operanti dimostra che la città santa non è solo il paradiso o la Chiesa trionfante, ma inizialmente e imperfettamente rappresenta anche la Chiesa militante su questa terra.

“E le sue porte non si chiuderanno di giorno perché ivi non sarà notte” (v. 25): in cielo è sempre giorno splendente, poiché Dio lo illumina per  l’eternità. Quindi non c’è  notte, ossia in paradiso non c’è timore di nessun ladro che venga di notte all’improvviso. Oramai si è nell’eternità beata e inamissibile.

Questa città celeste e santa è il tempio spirituale di Dio. Il vecchio tempio (allusione alla distruzione del tempio di Gerusalemme) non c’è più perché è cessata l’Alleanza Antica e le è subentrata quella Nuova (Chiesa militante) ed Eterna (Chiesa trionfante)

“Non entrerà in essa nulla di immondo o chi commette abominazione e dice calunnie, ma bensì coloro che sono scritti nel libro della vita dell’Agnello” (v. 27): in cielo entrano solo coloro che son morti in grazia di Dio (i predestinati, che sono scritti nel libro della vita) e hanno purificato le loro anime dal resto di pena dovuto alla colpa nel purgatorio. Quindi il peccato grave (le impurità, le stregonerie idolatriche e le calunnie) escludono dal regno dei cieli.

Impurità ha qui significato non legale (come nella Vecchia Alleanza), ma spirituale e interiore, come risulta chiaro dalle due denominazioni aggiunte: “abominazione e menzogna”. L’abominazione è il vizio caratteristico di Babilonia e significa essenzialmente l’idolatria che è una falsa “fede”, ingannatrice e menzognera. Ora nella città della luce eterna non vi può essere posto per il peccato dell’odio verso la luce e la verità, di cui sono ripiene le perversioni pseudo-religiose del mondo pagano idolatrico e della città terrestre.

Capitolo XXII, 1-21

Nei primi cinque versi del capitolo XXII l’Apostolo continua a descrivere la Gerusalemme celeste: “Mi mostrò un fiume di acqua viva, limpido come il cristallo, che scaturiva dal trono di Dio e dell’Agnello” (v. 1). Questo fiume di acqua viva, che fa allusione al fiume del paradiso terrestre (Gen., II, 10), è la grazia santificante dei santi della terra che si trasforma in gloria eterna nei santi del paradiso. Esso rappresenta anche l’abbondanza della felicità di cui godono i beati, che sono ammessi alla visione beatifica di Dio.

Questo fiume nasce dal trono che Dio Padre e Dio Figlio hanno in comune, essendo consustanziali (v. 1).

“Nel mezzo della sua piazza e da ambe le parti del fiume vi era l’albero della vita” (v. 2): nel bel mezzo della piazza del paradiso si trova l’albero della vita. Anche qui si allude al paradiso terrestre in cui si trovava l’albero della vita (Gen., II, 9), sennonché nella Gerusalemme celeste quest’albero è la vita eterna di cui già godono i beati; perciò esso simboleggia la visione beatifica la quale guarisce ogni male e dà la pienezza del bene, la gloria e l’immortalità.

Quest’albero “porta dodici frutti, dando mese per mese il suo frutto, e le foglie dell’albero sono medicina delle nazioni” (v. 2). Dodici è un numero simbolico che indica la pienezza e la perfezione, perciò i frutti dell’albero della vita rappresentano la grazia e la gloria nella loro pienezza (“dodici”). L’albero dà questi frutti “mese per mese” (v. 2) ma nel cielo non c’è tempo e quindi non ci sono mesi in senso stretto, l’espressione va intesa metaforicamente nel senso che l’albero dispensa i suoi doni in ogni tempo. Infine “le sue foglie sono medicina” (v. 2), ossia metaforicamente vuol dire che in cielo non ci son più malattie, sofferenze fisiche o morali.

“Non vi sarà più maledizione (nel testo greco ‘anatema’)” (v. 3), ossia esclusione dalla vita e visione di Dio, che non si può più perdere. Nel cielo non entra nessuna tentazione né tanto meno il peccato.

“Ma la sede di Dio e dell’Agnello sarà in essa (piazza) e i suoi servi la serviranno” (v. 3), ossia i beati godranno sempre della visone beatifica davanti al trono di Dio e dell’Agnello, che serviranno e adoreranno nella liturgia celeste quali sacerdoti dell’Altissimo.

“E vedranno la sua faccia e il suo nome sarà impresso sulle loro fronti” (v. 4): la visione dell’essenza (“faccia”) di Dio è ciò che rende felici o beati i santi ed è per questo che si chiama visione beatifica poiché, vedendo Dio faccia a faccia come Egli è, proveranno una gioia immensa e il nome o la natura dell’Agnello e del Padre sarà impressa sulle fronti dei santi, ossia essi parteciperanno realmente alla vita divina anche se in maniera finita.

“Non vi sarà più notte” (v. 5), ma luce infinita senza alcuna tenebra poiché Dio stesso è la luce splendente  del paradiso: “perché il Signore stesso li illuminerà e regneranno per i secoli dei secoli” (v. 5), cioè i santi servono Dio e quindi regnano per  l’eternità assieme a Lui.

Dal versetto 6 sino al 21 inizia e si svolge l’epilogo dell’ultimo capitolo (XXII) dell’Apocalisse, in cui tutte le promesse fatte nel Libro sacro vengono confermate da un angelo (vv. 6-7) e poi da San Giovanni (vv. 8-9) e di nuovo da un angelo (vv. 10-11) ed infine da Gesù Cristo. I fedeli sono scongiurati di rispettare il testo del Libro (vv. 18-19). Quindi parla ancora Gesù (v. 20) e si arriva alla fine con un augurio a tutti i fedeli (v. 21).

Un angelo dice a Giovanni: “Queste parole son fedelissime e vere” (v. 6), ossia tutto ciò che è scritto nell’Apocalisse è fedele alla realtà e quindi vero e si adempiranno certamente perché son parola di Dio. “Il Signore Dio ha inviato il suo angelo a mostrare ai suoi servi le cose che debbono succedere tra breve”, ecco il tema dell’Apocalisse: la rivelazione del futuro.

“Ed ecco Io vengo presto” (v. 7), l’angelo parla a nome di Gesù e le sue parole riassumono tutto lo scopo dell’Apocalisse: preparare gli uomini alla venuta del Giudice divino per il giudizio particolare e soprattutto per quello universale. “Beato chi osserva le parole di questo libro” (v. 7), cioè i consigli, i comandamenti, gli esempi che Dio porge agli uomini per evitare la fine disgraziata degli empi e conseguire quella beata dei giusti aiutando molto i fedeli a fare il bene e fuggire il male. Per cui chi li osserva può essere detto veramente “beato”.

“Ed io Giovanni sono quello che udì e vide queste cose” (v. 8), San Giovanni attesta solennemente di essere stato il testimone che ha sentito la rivelazione delle cose che ha scritto nell’Apocalisse. A questo punto Giovanni cerca di prostrarsi ai piedi dell’angelo che gli parla come per adorarlo, ma l’angelo lo ferma dicendo che lui è  una creatura e l’adorazione va rivolta solamente a Dio (v. 9).

L’angelo dice poi a Giovanni: “Non sigillare le parole della profezia di questo libro poiché il tempo è vicino” (v.10), ossia non tenere nascoste o chiuse a chiave le rivelazioni che hai ricevute sul futuro della Chiesa, ma scrivile per i fedeli poiché inizieranno presto a compiersi. Il “presto” non è da prendere in senso stretto, ma nell’ottica divina secondo la quale “un giorno è come mille anni” ed inoltre alcuni avvenimenti scritti nell’Apocalisse si svolgono contemporaneamente alla sua stesura (per esempio, le vicende e le  raccomandazioni fatte ai sette vescovi delle sette Chiese). Infatti il fine dell’Apocalisse è quello di consolare e confortare i fedeli in mezzo alle difficoltà e alle persecuzioni, mostrando loro come la divina Provvidenza li aiuterà in ogni cosa. Sarebbe perciò anormale tenere per sé queste rivelazioni.

“Chi nuoce agli altri continui a nuocere. Chi è nella impurità diventi ancor più sporco. Chi è giusto si faccia ancor più giusto. Chi è santo continui a santificarsi” (v. 11): queste parole sono un avvertimento misto ad una grande ironia. L’Apostolo vuol dire che dopo tanti avvertimenti del Libro sacro, se qualcuno vuol continuare a peccare, continui pure poiché Dio lascia l’uomo libero, ma al momento opportuno gli chiederà conto di ogni cosa. Ai giusti, invece, rivolge l’invito di avanzare sulla via della santità.

“Ecco Io vengo subito” (v. 12): chi parla è Gesù. Egli verrà come Giudice alla fine della nostra vita (giudizio particolare) e alla fine del mondo (giudizio universale) e darà ciò che è dovuto a ciascuno secondo i suoi meriti o demeriti: “onde dar la mercede e rendere a ciascuno secondo il suo operato” (v. 12).

“Io sono l’alfa e l’omega, il primo e l’ultimo, il principio e la fine” (v. 13): Gesù in persona afferma di essere consustanziale al Padre, essendo come Lui l’alfa e l’omega e quindi è in grado di mantenere fede alle sue promesse e alle sue minacce.

“Beati coloro che lavano le loro stole nel sangue dell’Agnello” (v. 14): sono veramente felici solo coloro che purificano le loro anime con il lavacro del Sangue di Gesù, accostandosi ai Sacramenti e vivendo piamente “affinché abbiano diritto di mangiare all’albero della vita e di entrare per le porte della città” (v. 14), ossia purificati nel sangue di Cristo possono mangiare i frutti della grazia e della vita eterna e con la grazia di Dio possono entrare attraverso le porte umanamente invalicabili della Gerusalemme celeste per rimanervi in eterno.

Tuttavia “Fuori di essa vi sono i cani, i venefici, gli impudichi, gli omicidi, gli idolatri e chiunque pratica la menzogna” (v. 15), cioè fuori del paradiso e quindi all’inferno si trovano coloro che vogliono vivere nel peccato grave: i “cani” ossia gli impuri, gli avvelenatori materiali (omicidi) e spirituali (corruttori della fede e dei costumi), gli “impudichi”, che mancano al pudore e scandalizzano il prossimo, ed infine “chi pratica la menzogna” ossia il falsi profeti, gli eresiarchi ed i novatori.

Gesù afferma, quindi, che è Lui in persona ad aver mandato gli angeli a rivelare il contenuto dell’Apocalisse a Giovanni (v. 16).

“Lo Spirito e la Sposa dicono: vieni e chi ascolta dica: vieni” (v. 17): lo Spirito Santo e la Chiesa sua Sposa dicono continuamente a Gesù di “venire a giudicare i vivi e i morti” affinché i fedeli giusti e veri possano unirsi con Lui nel regno dei cieli. “Chi ascolta dica: vieni” (v. 17): tutti coloro che credono nelle parole dell’Apocalisse preghino assieme al Paraclito e alla Chiesa che Gesù venga subito. “Chi ha sete venga, chi vuole prenda l’acqua della vita gratuitamente” (v. 17): Gesù invita tutti coloro che sono animati da volontà retta a bere l’acqua della grazia per poi dissetarsi completamente con quella della gloria del paradiso, la quale è un dono gratuito di Dio all’uomo, che non gli è dovuto ma solo regalato per pura bontà divina.

“Prometto a chiunque ascolta le parole della profezia di questo libro  che se alcuno vi aggiungerà qualche cosa Dio porrà sopra di lui le piaghe scritte in questo libro […], lo cancellerà dal libro della vita e lo escluderà dalla città santa” (v. 18): Giovanni si raccomanda di non aggiungere o togliere nulla dal contenuto dell’Apocalisse, ma di mantenerlo tale e quale e di trasmettere ciò che hanno ricevuto, sotto la minaccia di castighi severissimi e addirittura di dannazione eterna. Questo è un avviso che vale per tutti gli eretici che falsano le Scritture.

Ed eccoci giunti alla fine: “Colui che attesta tali cose dice: Io vengo presto” (20): Gesù dà una nuova assicurazione che le cose annunziate nell’Apocalisse non tarderanno ad avverarsi. Allora San Giovanni lo invita a mantenere subito la sua parola: “Vieni, Signore Gesù” (v. 20).

L’ultimo versetto è l’augurio rivolto ai fedeli da Giovanni di ottenere la grazia di Dio, che è assolutamente necessaria per fare il bene e fuggire il male: “La grazia del Signore Gesù sia con tutti voi. Così sia” (v. 21).

Consiglio caldamente lo studio dell’approfondito commento all’Apocalisse di padre Marco Sales, pubblicato da EFFEDIEFFE edizioni, di cui questo mio lavoro ha voluto essere solo un sintetico compendio.

d. Curzio Nitoglia



1) La prima parte va dal capitolo I, verso 1 al capitolo III verso 22. La seconda parte dal capitolo IV, verso 1 al capitolo XIX, verso 10. La terza dal capitolo XIX, verso 11 al capitolo XXII, verso 5.

 
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