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Ricordo di sé
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La psicoanalisi sconta il debito con la sua dipendenza velatamente, ma rigorosamente, gnostica. Freud, lo sappiamo, era fondamentalmente un cabalista, che decise di abbracciare la «dolce morte», esasperato da un dolore che lo vinceva e che mai riuscì a comprendere né tanto meno a sconfiggere. Ma non si tratta di un unicum.
Anche il suo compagno, poi «nemico», Jung ragionerà su categorie ampiamente gnostiche.

L’idea di fondo è quella di percepire l’insorgere di una patologia psicologica, a seguito di un’errata comprensione di quel che veramente si è: la malattia della mente come esito di una sorta di disadattamento legato alla mancata corrispondenza tra il vero proprio sé (e le sue esigenze reali) e la realtà illusoria che invece viene percepita dall’individuo; illusione che nasce dalla mancata consapevolezza di una necessaria soddisfazione delle istintuali pulsioni dell’Es, a causa di un troppo precettista super-ego e di un ego non autentico, ma meramente compromissorio.

Questo poco e molto si discosta dalla intuizione junghiana dell’unità di coscienza e di vita residente nell’intimo della persona e soggetta a dualismo soltanto perché vivente in un contesto spazio-temporale che, invero, non gli è proprio; concezioni che certamente si avvicinano entrambe alla visione monista di orientale memoria (ripresa dalle ideologie gnostico-cabalistiche).

Semplificando al massimo, si potrebbe intendere in quest’ottica il dolore e la sofferenza, come ogni patologia di ordine psicologico, fondamentalmente quale effetto di una errata percezione di sé, dimentica della propria natura.
La guarigione e la salvezza passerebbero quindi e necessariamente attraverso un percorso iniziatico (psicoterapeutico, se volete) tendente al recupero della pienezza delle proprie latenti potenzialità: la mente che sa cogliere l’interezza di ciò che davvero è.
Tutto questo non ricorda per certi versi l’ideologia vedanta o quella buddista?

Il karma non rappresenta forse una sorta di identificazione della coscienza personale con determinate impressioni psichiche, che, se non sciolte al momento della morte, fissano la rinascita in una successiva incarnazione al livello di coscienza ad essa corrispondente, l’uscita dal samsara ottenendosi proprio a seguito di una sorta di evoluzione avente termine in una identificazione di sé come atto di Pura Coscienza?
L’uomo, per superare la stringente angoscia di vivere, dovrebbe dunque recuperare la propria identità con quello che davvero è, senza restare invischiato nell’illusorio impermanente.
Ma tutto questo corrisponde a verità?

Se fosse sufficiente essere a sé consapevoli, l’autoredenzione sarebbe un esito inevitabile: Cristo sarebbe quindi superfluo.
Ma qualora fosse presente il tarlo del peccato e della passione non sconfitta, il rimedio psicoterapico sarebbe un vero palliativo e nulla più, il male infatti si estirperebbe solo in apparenza, rinforzandosi alla radice non divelta.
Anche il cristianesimo conosce questa nuova consapevolezza, definita, a volte con il concetto del «ricordo di sé», ma essa assume un significato profondamente differente.

La percezione della propria realtà, implica innanzi tutto il riconoscimento di quel che davvero si è e di ciò che si è divenuti, a causa delle scelte adottate lungo il corso della propria vita.
Il ricordo di sé non può prescindere dal ricordo dell’umanità, come creazione unitariamente considerata nel piano di Dio (senza che questo implichi necessariamente la negazione delle singole persone).
Esiste una unità di base che coinvolge l’uomo, da Adamo fino all’ultimo nato e che trova il proprio apice in Cristo Gesù, uomo nuovo, nuova umanità redentrice e che redime.

In questa economia della creazione e della salvezza, l’uomo è a sé presente se si riconosce creatura e peccatore.
Questa duplice condizione è assolutamente indispensabile ad ogni progresso autentico verso la vera felicità e la vera gioia indicibilmente riservate a chi fa «esperienza» di Dio, secondo la sua volontà. Il ricordo di sé, inoltre, ed in primo luogo è frutto della conoscenza del Signore, che, rivelandosi, si svela e ci svela dentro e fuori.
E’ la luce della Verità capace di diffondere i suoi raggi ovunque.

Ricordo di sé diviene presenza dell’Altissimo nell’anima, si trasforma in implorazione continua che «saccheggi» la misericordia dell’Onnipotente e riversi ogni bene colmo in ogni circostanza. Ricordo di sé è percezione della Verità dell’infinito, del Dio Uno e Trino, dimorante nell’intimo di chi lo cerchi e voglia vivere in comunione con Lui.
E’ invocazione silenziosa, ma costante a Cristo Signore; è presenza di Dio nell’anima.
Vivere del ricordo di sé è essere consapevoli della propria essenza spirituale, capace di partecipare degli orizzonti del Cielo e del creato, della Vita Divina e della vita umana.

La vera guarigione interiore e fisica coincide non tanto con un percorso di disidentificazione che porti ad un nuovo livello di identificazione (coincidente con lo stato della Piena Consapevolezza), quanto piuttosto con una presa coscienza di essere abitato dall’Altro che porta con sé ogni bene;
un Altro che ama fino a dare tutto il suo sangue nella sua umanità, fino alla fine, fino in fondo
ad ogni abisso di tristezza, solitudine ed infermità.   
   
Stefano Maria Chiari

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