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L’eurocrazia? Latitante
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Ci avete fatto caso? Nei giorni della crisi più acuta, vicini al collasso sistemico, la Commissione Europea è scomparsa. Il soi-disant «governo» europeo, quello che ci ha inondato di direttive su ogni minuzia - il calibro delle mele, la forma dei WC per handicappati, le nozze gay, la curvatura dei cetrioli - non ha deciso niente, non ha avuto niente da dire nè da ordinare. Mentre il sistema finanziario era sull’orlo del «meltdown», è scomparsa dalla scena.

Al suo posto, hanno agito i governi nazionali. Questi spettri di governi, abituati a ratificare direttive sovrannazionali, senza nemmeno più la sovranità monetaria, spinti dalla forza delle cose sono stati capaci - per rassicurare i loro cittadini - di decisioni audaci. Se siano state buone o cattive, si vedrà; ma per la prima volta da decenni, hanno deciso.

In perfetta concertazione (a Parigi domenica) e tuttavia nella piena e rivendicata autonomia, i governi europei hanno deciso stanziamenti enormi, hanno preso rischi e si sono assunti responsabilità: insomma hanno agito come autorità politiche.

Secondo il progetto lungamente covato dagli eurocrati fin dai tempi di Jean Monnet, non doveva andare così. Anzi, questa era la crisi epocale che Tomaso Padoa Schioppa aspettava da una vita: nel 1987, in un rapporto per la Commissione Europea dal titolo «Efficienza, stabilità, equità», egli spiegava con delizia che la moneta comune avrebbe provocato flussi finanziari incontrollabili e «inevitabili squilibri fra le regioni» europee; disastri non governabili a livello nazionale, che avrebbero obbligato i governi a correre in ginocchio dai commissari europei, e a pregarli di prendersi tutta la sovranità, di formare un governo sovrannazionale e salvatore.

Nel 1989 Michel Albert, grand commis ancora più «grand» di Padoa Schioppa, presidente delle Assurances Générales de France, aveva scritto gongolante: «L’Europa ’92 lancia il Mercato Unico all’assalto degli Stati nazionali. Li smantellerà». Più precisamente, sarà  «l’anarchia  che risulterà» da «un mercato libero e senza frontiere in una società plurinazionale, che non riesce a prendere decisioni comuni» ad imporre un potere unificato sovrannazionale. Titolo del saggio di Michel Albert, «Crisi, Disastro, Miracolo» (questi automi eurocratici amano i titoli tripartiti).

La «crisi»  desiderata da costoro è scoppiata. Il «disastro» l’avevano previsto e voluto, ed eccolo qui. Ma il «miracolo» così ansiosamente atteso da lorsignori, ossia la rinuncia degli Stati europei ad ogni residua briciola di sovranità, non si è verificato.

Al contrario: nella tempesta, gli Stati nazionali hanno afferrato il timore e, insieme, un massiccio e perentorio potere politico. Senza volere naturalmente, ma l’hanno fatto.

Ed è interessante vedere come: non si è riunita l’Europa dei 27, voluta dalle eurocrazie, ma i quattro grandi Paesi storici: Francia, Germania, Gran Bretagna e Italia, più gli altri 11 di secondo livello sullo sfondo. Invece di litigare e dividersi, hanno adottato rapidamente e di comune accordo il modello di salvataggio delle banche adottato da Gordon Brown (ricapitalizzazione-nazionalizzazione delle banche, al contrario dei miliardi di dollari regalati da Paulson senza contropartite alla speculazione), e gli Stati minori hanno seguito docilmente.

Per un attimo, abbiamo visto quel che è - o potrebbe essere - l’Europa delle patrie che voleva De Gaulle: resa non più debole, ma più forte, dalle sovranità nazionali. Ben capaci di prendere decisioni comuni quando è necessario.

La cosa è riconosciuta dai giornali britannici, i meno europeisti che si possano trovare. Scrive il Guardian: «La scala, l’ambizione e i costi potenziali dei programmi annunciati» dai leader europei a Parigi «hanno messo in mostra un grado di leadership che ha messo nell’ombra Washington, il leader economico globale».

E Anatoli Kaletski, sul Times: «Solo poche settimane fa, una soluzione senza la leadership USA sarebbe stata inconcepibile. Ma il fallimento dell’Amministrazione Bush e del ‘Piano Paulson’ (...) ha messo l’accento sul vuoto di potere e di idee di Washington. Agghiacciati dall’indecisione e incompetenza degli USA nel gestire la crisi, i politici europei hanno capito che Henry Paulson, il creduto brillante ministro del Tesoro USA, era un re nudo. Anzichè aspettare le direttive di Washington, avevano da prendere la responsabilità dei problemi europei. In questo, hanno trovato una guida intellettuale improbabile: il Tesoro britannico e Gordon Brown».

Eh sì, l’opaco Gordon Brown, così ridicolizzato dai giornali inglesi come uomo grigio, senza fantasia, senza nulla del glamour «globale» del suo predecessore Tony Blair. Un po’ quel che si vede nel film «La Grande guerra»: morti o introvabili gli ufficiali di carriera nella rotta di Caporetto, non resta che il sottotenente di fureria, un ragioniere richiamato, con la pancetta, che la truppa chiama per ridere «bollo rosso» per il timbro che mette sui figli di ritiro del materiale. Ed è lui, l’uomo grigio, che nessuno avrebbe visto nei panni dell’eroe, a organizzare la prima linea di difesa, accanto alla cascina diroccata su cui è scritta la frase retorica: «O il Piave o tutti accoppati». Senza alzare la voce, Bollo Rosso dice ai soldati: «Annerite di catrame quel muro, per non dare un riferimento all’artiglieria». E tutti capiscono che il comando, finalmente, è in mani modeste, ma competenti.

Da dove viene questa forza insospettabile in Bollo Rosso, in Brown e persino nei nostri governanti europei?

In qualcosa di impalpabile, che ci hanno fatto dimenticare e persino disprezzare, che si chiama «legittimità politica». Qualcosa di vitale, che tutte le «direttive» e le eurocrazie non possono fabbricare burocraticamente.

Come scrive il sito Dedefensa, per un attimo si è visto che «Questa Europa esiste, senza bisogno di referendum e di costituzione»: per quanto dimidiata e residuale, nei momenti di crisi la «legittimità» dei governi eletti è più forte della pseudo-legittimità eurocratica: «in realtà un’impostura di legittimità», scrive Dedefensa, «fondata su una ideologia, un dogma», che si è rivelata completamente screditata.

Difatti, «ancora giovedì Barroso, intervenendo in un seminario interno della Commissione, ha descritto la situazione dell’Europa senza far riferimento alla crisi; ed è stato ruvidamente rimbeccato dagli interventi del pubblico, e persino da numerosi funzionari», che indignati gli hanno chiesto «quale fosse l’azione della Commissione in questa crisi, e ricevendo una patetica constatazione di impotenza».

«Il nazionalismo è ancora vivo e vegeto in Europa», constata con dispetto l’americano George Friedman, direttore di StratFor, americo-israeliano. E ammette che tutte le organizzazioni sovrannazionali, i germi sperati del Governo Mondiale, hanno fallito miseramente:

«Il Fondo Monetario, la Banca Mondiale, la Banca per i Regolamenti Internazionali, l’Unione Europea hanno mancato di funzionare sia per prevenire la crisi sia per contenerla. La ragione è che gli Stati nazionali non sono disposti a cedere la loro sovranità. Ciò che abbiamo visto nell’ìultimo fine-settimana è la devoluzione del potere agli Stati nazionali».

Pura menzogna dettata dalla rabbia: la verità che che le entità sovrannazionali, nell’apice della crisi, non hanno fatto nè proposto nulla. Se la sono squagliata, come Badoglio l’8 settembre, senza nemmeno lasciare il disco che ripeteva «la guerra continua».

Ancora più indisponente: alla fine Paulson, il ministro del Tesoro USA distaccato da Goldman Sachs, ha copiato il modello Gordon Brown già adottato dagli europei: per le banche in fallimento, lo Stato le ricapitalizza ma diventandone comproprietario.

Molto rivelatore il discorso che Paulson ha fatto per annunciare la novità: «Ci dispiace profondamente dover compiere questa azione. Non avremmo mai voluto farlo, ma le azioni di oggi le dobbiamo fare per riportare la fiducia nel nostro sistema finanziario. Annuncio che il Tesoro acquisterà quote azionarie in un vasto insieme di banche e casse...».

Come vedete, qui parla l’ideologo. Paulson, insomma, non ha preso in tempo la decisione utile (nazionalizzare), perchè era contraria al dogma liberista. Lenin disse la stessa cosa quando, visto che la collettivizzazione stava portando alla fame l’URSS, inaugurò nel 1921 la NEP, la Nuova Politica Economica: restituzione di una parziale libertà economica, ammissione della proprietà privata e dei diritti personali riconosciuti agli «specialisti borghesi» (ingegneri e professionisti), possibilità ai contadini di vendere parte dei loro prodotti privatamente anzichè consegnarli allo Stato bolscevico, allentamento del terrore burocratico sulla società. La vita rifiorì; ma Lenin disse che quella era una «ritirata» momentanea dalla costruzione del comunismo, una deviazione dal dogma. E nel 1924  lo spiraglio della NEP fu chiuso.

E’ significativo che, quel dogma liberista globale, Gordon Brown, nato e cresciuto nel Paese di Adam Smith, l’abbia chiamato - in questi ultimi giorni - «an outdated dogma», un dogma sorpassato.

Al contrario, Henry Paulson, al dogma primario della fede - che il mercato si aggiusta da sè, senza bisogno di regole esterne - è rimasto attaccato fino all’imbecillità.

20 aprile 2007: quando scoppiò la bolla dei subprime, sancì con la sicumera del gran banchiere di Goldman Sachs: «Non vedo come possa essere un problema. Penso che sarà molto contenuto».

12 luglio: assicurava: «Questa è di gran lunga la più forte economia globale che abbia visto nella mia vita d’affari».

1° agosto: mentre scricchiolava l’intero sistema: «Sì, è una sveglia, c’è un aggiustamento nella valutazione del rischio, ma l’economia sottostante gode la miglior salute».

16 marzo 2008: «I nostri mercati sono l’invidia del mondo: sono resilienti, innovativi, flessibili. Essi raddrizzeranno velocemente la situazione, abbimo istituzioni finanziarie forti».

7 magggio: «Il peggio è probabilmente alle nostre spalle».

16 maggio: «Lo stimolo fiscale sosterrà l’economia mentre superiamo la correzione dell’immobiliare, la tempesta nei mercati dei capitali e i rincari di alimenti ed energia... Prevedo un’accelerazione della crescita economica per la fine dell’anno. A mio giudizio, siamo più vicini alla fine dell’instabilità dei mercati che all’inizio».

20 luglio 2008: «Ci vorranno mesi per superare questo periodo la lista delle difficoltà cresceà... ma insisto, abbiamo un sistema bancario sicuro, un sistema bancario sano. I nostri regolatori sono perfettamente all’altezza. E’ una situazione del tutto gestibile».

10 agosto scorso: «Non progettiamo di immettere denaro in queste due istituzioni (Fannie Mae e Freddie Mac)».

Insomma il genio della speculazione Paulson, che Goldman ha ricompensato, nei vent’anni in cui è stato al vertice, con 700 milioni di dollari, non ha mai previsto nulla nè mai fatto una cosa giusta.

I nostri poveri governanti, spesso così risibili, con la legittimità che viene dalla forza dello Stato, fanno miglior figura. Sono i nostri Bollo Rosso.

Ultima notizia: avevo detto che la Commissione Europea era scomparsa? Devo smentirmi: è ricomparsa. Ha comminato all’Italia una multa di 176,27 milioni di euro (340 miliardi di lire) per aver sforato del 6% le «quote latte». E Barroso ha ordinato di applicare il patto di Kyoto, che ci costerà un meno 1 o 2% di PIL, nonostante tutto.

Provvedimenti di tempistica infallibile, con una sensibilità straordinaria per i tempi di recessione che ci attendono. 


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