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Ecco cosa mancava all’Italia
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Siamo in recessione. Aziendine private licenziano perchè le banche non gli fanno più credito e i consumi calano drasticamente. Duecento licenziati qua, seicento là, fabbrichette che chiudono o riducono la produzione. La recessione avanza velocissima e sta per diventare recessione nel quadro recessivo mondiale. Perderemo almeno un punto di PIL.

C’è chi si chiede: come possiamo fare peggio? Per esempio, perdere due o tre punti di PIL? Ed ecco che hanno trovato come farci affondare ancor più nella miseria: una bella stagione di scioperi generali, autunni caldi, interruzioni a catena di pubblici servizi, milioni di ore-lavoro perdute, e bellissime adunate sindacali di massa in piazza San Giovanni.

Hanno già cominciato. Venerdì’ 17, ecco il primo dei begli scioperi indetti dalla sinistra extraparlamentare, Cobas e vari. «Uno sciopero riuscitissimo, più di metà delle scuole chiuse», ha esultato Pietro Bernocchi, segretario generale dei  Cobas.

Perchè naturalmente, la sinistra ed extrasinistra non porta in piazza gli operai - quelli che muoiono come mosche sul lavoro, in fabbriche e in cantieri di cui sgobbando cercano di evitare la chiusura - no, quelli no. L’extrasinistra scende in piazza a difesa di «insegnanti, trasporti, pubblica amministrazione»: insomma con tutti quelli che il lavoro l’hanno già, posto fisso e garantito, che non perderanno mai. E’ più facile. I pubblici dipendenti hano i numeri.

Solo gli insegnanti sono 1,3 milioni, e possono mobilitare i genitori progressisti e tutti gli scolari. A cui bisogna aggiungere i precari. Perchè il «pubblico impiego» è notoriamente composto di due strati: uno di fissi a vita, illicenziabili, inamovibili, con paghe che superano sempre vittoriosamente l’inflazione reale; e la marea di precari, assunti in massa a fare i lavori che quelli col posto fisso non fanno.

Questi poveretti scendono in piazza a fianco dei garantiti di cui sono servitori, nella speranza di strappare a forza - e magari senza concorso - il posto fisso garantito e lo stipendio a vita senza controllo di produttività.

Quelli fissi, nella scuola, hanno aumentato i costi dell’istruzione (e i loro stipendi) in dieci anni del 30%, da 33 a 43 miliardi di euro, una cifra incredibile. Ovviamente non vogliono nessun cambiamento, sono una forza sociale prepotente che ha sempre bloccato tutto, specialmente un controllo sulla propria utilità in rapporto ai costi. E’ facile mobilitarli, se scioperano, se si assentano, se fancazziscono, non perdono mai niente: mica sono operai del privato.

E al loro fianco, chi si mobilita? Ovviamente, quelli dei trasporti: treni, autobus, metropolitane. Ben felici non solo di non lavorare loro, ma di paralizzare città e persone che invece al lavoro ci devono andare, perchè le loro aziende sono private, nessuno le protegge, e rischiano seriamente di chiudere nella depressione che si sta instaurando.

Ma i promotori della sinistra hanno altre ambizioni, più vaste: vedono un ritorno al ‘68. I loro capi sono 40 anni che sospirano: «Formidabili quegli anni», ed ora sentono, credono, che stiano per tornare.

Basta scorrere Liberazione per vedere come questi hanno tirato fuori dai bauli gli stessi linguaggi, gli stessi tic sessantottini: «Indignazione: questo è il sentimento, è la parola di cui abbiamo bisogno. La stessa che veniva cantata durante la lunga marcia della rivoluzione cinese», scrive Giorgio Cremaschi, l’estrema sinistra della CGIL.

Sogna le Guardie Rosse che agitano il libretto rosso di Mao e picchiano i professori,  il grande balzo in avanti, «criticare Confucio criticare Lin-Piao», insomma tutte quelle belle bandiere progressiste che hanno fatto perdere ai cinesi un paio di generazioni di laureati e di alfabetizzati, e guadagnare 30 anni di arretratezza e disordine aggiuntivo.

Ma che importa? Gli studenti italiani sono pronti alla «lunga marcia»! A fianco delle loro maestre modulari triple! A difesa dei baroni universitari che distribuiscono cattedre ai figli e parenti vari, tanto poi ci pensano i precari a fare il lavoro per cui essi sono pagati 4-7 mila euro mensili. Questo è ciò che Cremaschi chiama «socialismo»: «Indignazione e socialismo», ecco la parola d’ordine.

Altro proclama su Liberazione: «Studenti contro il sistema, senza delegare». Quante volte noi sessantenni abbiamo sentito questa stessa identica frase, nel ‘68. E sotto questo titolo, ci sono righe che in quegli anni abbiamo letto mille volte, fra l’altro l’immancabile richiamo ai un qualche philosophe del «maggio parigino», così formidabile, Althusser, Deleuze, Guattari, Lacan.

I veri sessantottini diventavano capetti del «movimento» perchè sapevano  ripetere a pappagallo i gerghi pretenziosi di questi personaggi, che tutti in blocco hanno smesso di leggere appena finita la festa. Ma adesso, ritornano. Su Liberazione è riapparso qualcuno che sa ancora ripetere a pappagallo questi verbiages  incomprensibili, ma così chic.

Per i più giovani che non lo conoscono, ecco un esempio: «Riparte l’opposizione», questa è una delle formule più frequenti adottata dalla sinistra per descrivere la grande onda di movimento che percorre il mondo della formazione, dalla scuola all’università. Sarebbe più corretto dire «ricomincia», laddove ci si intende, con Deleuze (1), che il ri-cominciamento precede il cominciare, nel senso che lo approfondisce. E ancora con il filosofo francese varrebbe la pena ripercorrere le trame immaginarie di questo ricominciamento: separatezza e creazione.

«Entrambi questi processi ci parlano dello stato del ricominciamento che i movimenti sulla formazione stanno producendo: per un verso separatezza da idee,  forme e istituti tradizionali dell’opposizione; dall’altra una creazione nel mezzo del deserto politico italiano... Bene che i movimenti ci siano, bene che la società prenda parola, ma le parole e i corpi che si muovono non sono la politica. La separazione e la creazione di questo movimento parlano, invece, della qualità nuova di ciò che sta accadendo nelle piazze, nelle università e nelle scuole di tutto il Paese» (2).

Li sentite? «Ri-cominciamento», «trame immaginarie», «corpi che si muovono», «separatezza e creazione». Tutto come allora.

Ci avete capito qualcosa? Nemmeno io. Solo una cosa ricordo:  che cosa è nato da questi termini col trattino («Ni-ente», «A-cefalo»), da questi  verbalismi narcististi (Lacan era il maestro: «La noesi del fenomeno ha qualche rapporto di necessità col suo noema?», si chiedeva in affollate conferenze).

Che cosa è nato? Le Brigate Rosse.

Spero di sbagliare, ma questa sinistra che torna sulle piazze «contro il sistema senza delegare», credendo di rivivere in eterno «la lunga marcia della rivoluzione cinese», cova il terrorismo. Il brigatismo del resto non è mai propriamente morto, si è solo ridotto, ma non ha cessato di agire: ricordatevi di Marco Biagi (3). Dopo un discorso di Cofferati che lo additava come nemico del popolo, i brigatisti l’hanno ammazzato.

Sono pochi, ma cresceranno: il «movimento» offrirà loro, come allora, l’acqua in cui nuotano i pesci, secondo l’insegnamento di Mao. Del resto, i brigatisti erano e sono preferibilmente dipendenti pubblici: hanno più tempo libero, possono assentarsi, guardano i cittadini che si arrabattano nel privato come portatori di una colpa originaria: indisciplinati da punire, perchè agiscono in proprio e non secondo la Volontà Generale. La Volontà Generale è incarnata dal milione e mezzo di insegnanti in agitazione, naturalmente.

Se fossi nella Gelmini e in Brunetta, starei molto attento alla P38 prossima ventura. Ma per fortuna, c’è chi fa anche di più per portare indietro l’Italia.

Sono gli eurocrati che vogliono, pretendono, costosi tagli alle «emissioni di CO2» secondo loro colpevoli del «riscaldamento globale», secondo un programma burocratico stilato negli anni dell’abbondanza, e che roboticamente non cambiano negli anni della miseria che ci attendono. L’obbligo di piegarsi a questo programma ci costerà un altro punto o due del PIL.

Naturalmente, la sinistra è d’accordo con l’eurocrazia, e contro il governo che cerca di frenare, perchè le nostre industriette già tartassate, saranno schiacciate da quest’obbligo. Non mi dilungo sui particolari tecnici. A comprendere l’immane idiozia di questa pretesa europea, basterà ricordare due cose.

La prima: i due Paesi più inquinanti del pianeta, colossali, gli USA e la Cina, non aderiscono ad alcun accordo di riduzione delle «emissioni», sicchè la virtù ecologica europea non ridurrà i cosiddetti «gas serra» se non di una frazione di decimali, del tutto trascurabile.

La seconda e più importante: sarà la depressione globale a provvedere alla riduzione delle emissioni. Meno produzione, un mare di industrie chiuse e fumaioli spenti, meno trasporti-merci  e quindi meno gas serra. Molto, molto meno. Accadde già nel ‘29: forte riduzione dei fumi (senza un effetto constatabile sul clima).

La Kommissione europea non vuol nemmeno tener conto che la depressione economica è la sua migliore alleata ambientalista, la maggior produttrice di aria pulita e di risparmi energetici. Con milioni di disoccupati, finalmente ecologicamente innocenti.




1) Gilles Deleuze (Parigi, 1925-1995), rinfrescò il trotzkismo con forti iniezioni di Nietsche riscoperto a sinistra; il ‘68 fu infatti più Nietsche che Marx. Sua frase tipica: «Può ben darsi che Marx e Freud siano l’alba della nostra  cultura, ma Nietzsche  è l’alba di una contro-cultura».[...]
perché «se si considera non la lettera di Marx e di Freud ma il divenire del marxismo e del freudismo si vede che essi hanno esorcizzato ogni carica eversiva del pensiero dei loro iniziatori,
in quanto hanno fatto funzionare il marxismo e la psicoanalisi come mezzi di ristabilimento di codici (lo Stato, l’economia, la famiglia) mentre Nietzsche è proprio il contrario, la negazione di tutti i codici, la rivendicazione di un nomadismo del pensiero e della vita».
2) Liberazione, 19 ottobre 2008.
3) Additato da Cofferati, allora segretario della CGIL, come nemico dei lavoratori in un affollato comizio per la sua riforma del diritto del lavoro, il giuslavorista Marco Biagi, consulente del ministero del Lavoro, fu ucciso pochi giorni dopo a Bologna, il 19 marzo 2002. Due anni dopo, in visita a Bologna, Francesco Cossiga dirà: «Voterei per  Guazzaloca (il candidato sindaco del Polo). Il mio sarebbe un voto in omaggio a Biagi, a D’Antona e a Tarantelli. E sarebbe un voto contro Cofferati, contro il movimentismo e l’uso improprio di parole che diventano pietre, che si trasformano anche in pallottole». Ora torna il movimentismo.


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