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Le guerre di Obama. Per Sion.
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Barack Obama il democratico vince le elezioni presidenziali; in Israele, a vincere le elezioni (si terranno a febbraio) può essere il Likud, la destra estrema. Quale il risultato? Ecco lo scenario che tratteggia William Lind (1), uno dei maggiori esperti politico-militari conservatori.

«Un governo Likud in Israele renderà due guerre praticamente certe: una guerra tra Israele ed Hezbollah e  un’altra tra Israele e l’Iran. I comandi militari israeliani hanno annunciato che in caso di un nuovo conflitto con Hezbollah, Israele distruggerà le infrastrutture civili del Libano in tutto il Paese».

Questa è infatti la promessa  elettorale che fa il Likud, con il suo capo Netanyiahu. Ma come? Una presidenza democratica dopo otto anni di bellicismo bushista, un Congresso massicciamente democratico, non impediranno queste nuove avventure? Nient’affatto, dice Lind, che conosce  il potere che sui democratici esercita la lobby.

«I neo-lib (la ‘sinistra’) assicurerà che l’America sostenga Israele fino al crollo. Sicchè, la furia islamica che susciterà la distruzione di un piccolo, indifeso Paese medio-orientale (i cui abitanti sono per almeno un terzo cristiani) sarà rivolta contro l’America non meno che contro Israele… La legittimità degli Stati islamici vicini agli Stati Uniti sarà ulteriormente incrinata».

«Un attacco di Israele contro l’Iran, dal canto suo, può portare alla perdita dell’armata che l’America tiene in Iraq. Se vi sembro un po’ Catone nel ripetere questo allarme continuamente, ho le mie ragioni. La distruzione di una intera armata americana segnerà una svolta storica; sarà la spedizione di Siracusa americana (nel 413 avanti Cristo, Atene, incitata da Alcibiade, aggredì  Siracusa, subendo una disfatta che ne segnò il tramonto, ndr) a cui la guerra in Iraq somiglia fin dal principio. La nostra posizione strategica in Iraq è appesa a un filo, la sua lunga e sottile linea di rifornimento logistico che passa dal Golfo Persico e dal Kuweut. Se gli iraniani e i suoi alleati, le milizie sciite irachene, troncano questa linea, l’esito migliore che possiamo sperare è una ritirata  ‘si salvi chi può’ delle forze USA  verso nord, in Kurdistan».

«A questo roseo quadro un governo Likud può aggiungere una guerra contro la Siria, e una aperta rottura con il Pakistan, dovuta alla rabbia popolare pakistana per l’alleanza di noi americani con un’Israele-Likud. Questo troncherebbe la nostra principale linea di rifornimento in Afganistan, obbligandoci ad un’altra ritirata. E tutto questo può accadere in un quadro di depressione economica globale, che le guerre in Medio Oriente non faranno che aggravare. Il prezzo del greggio, oggi artificialmente depresso da svendite di materie prime operate dagli hedge fund, risalirebbe ad altezze stratosferiche. I Paesi esportatori potrebbero rigettare il dollaro e chiedere il pagamento in oro. Il bilancio militare americano salirebbe alle stelle, nel momento in cui gli USA hanno urgente bisogno di tagliare la spesa pubblica, mettendo in moto la stampa-dollari e provocando iper-inflazione».

Speriamo che lo scenario orrendo non si realizzi. Ma non è inverosimile. La propaganda repubblicana accusa ogni giorno di più Obama di non essere amico d’Israele, anzi cripto-musulmano e amico di «terroristi palestinesi»; e i democratici si profondono in dichiarazioni terrorizzate: sì, siamo vostri amici, anche più di Bush.

Commenta il sito Dedefensa: «Il Likud sarebbe tanto più spinto» a imporre agli americani fatti compiuti estremi, in quanto ha di fronte una controparte «della cui decisione bellicista nutre diversi dubbi, e su cui eserciterà il massimo della potenza delle reti d’influenza israeliane nella politica USA. I democratici sono soggetti a questa influenza, a cui sono molto sensibili; e sarebbero tanto più obbligati a rispondere a queste sollecitazioni belliciste, in quanto temono di essere accusati di debolezza (McCain lo ha fatto, ripetutamente, ndr), in un settore della politica estera trascinato dalla pressione della lobby, l’emozione, e il pro-israelismo di ferro, politicamente corretto in USA».

A rendere più realistico lo scenaro - e infinitamente più allarmante - è un fatto che ha spiegato il colonnello Pat Lang, ex ufficiale dell’intelligence, a proposito dell’attacco americano che ha violato il territorio siriano (2): l’attacco può essere stato deciso da forze speciali - gli USA ne hanno una mezza dozzina, Berretti Verdi, Rangers Seals, Marines Special Op Command, alcune anche segrete, in tutto almeno 15 mila uomini - che agiscono in modo autonomo, di testa propria o rispondendo a comandi diverso dalla catena di comando militare (3).

Alcuni commentatori hanno sostenuto che l’azione di guerra contro uno Stato neutrale è stata ordinata dalla CIA; altri, che i commandos USA «hanno visto un bersaglio (coi satelliti) e l’hanno colpito», senza chiedere permesso ai superiori. I generali in carica in Iraq sembravano all’oscuro.

Il colonnello Pat Lang dice che questa «autonomia» è stata voluta e organizzata da Rumsfeld, quand’era al Pentagono: i commandos «vanno in giro alla caccia di terroristi, come una squadra di picchiatori» perchè Rumsfeld ha voluto positivamente che questi gruppi di fuoco operassero al di fuori delle normali catene di comando, presumendo che sarebbero state più flessibili ed efficaci.

«Essi non seguono la linea, compiono le missioni assegnate. Se lasciate a se stesse, questo è il tipo di cose che fanno», l’incursione in Siria. Un capitano può aggredire un Paese terzo e neutrale senza che la decisione sia presa al più alto livello politico.

Agghiacciante segno della inciviltà terminale americanista: la gerarchia militare USA in zona d’operazione si  basa su «arrangiamenti di comando» tra forze più o meno autonome, militari e non militari (la CIA), che sono «confusi» (messy, disordinati), «e la Casa Bianca ha mostrato la tendenza a scavalcare la catena di comando istituzionale per intervenire su quel che accade sul campo. Non sono sicuro, ma ho il crescente sospetto - dice il colonnello - che l’ordine di compiere questa azione è venuto direttamente dalla Casa Bianca».

Il fatto è grave, perché restano ancora tre mesi alla Casa Bianca attuale. Anche se vince Obama il 5 novembre, egli non prenderà il potere reale se non il 20 gennaio 2009; tanto dura l’assurda «transition» presidenziale.

Sono 12 settimane in cui Bush e Cheney possono fare letteralmente quel che vogliono, anche più di prima: non devono più affrontare il giudizio degli elettori, non devono preoccuparsi di danneggiare le prospettive del loro partito, repubblicano, che a quel punto sarà già sconfitto.

Un’assoluta libertà, una irresponsabilità totale, e la disponibilità di commandos nemmeno identificati, che non rispondono a nessuno e non devono informare nessuno. Obama può trovarsi sulla scrivania una amara «february surprise». Israele ci sta già lavorando.

L’ultima notizia è questa: il regime di Sion ha cancellato dalla lista dei beni che possono essere introdotti a Gaza in base a un accordo con gli egiziani, «abiti e scarpe» (4). Con la scusa che «possono essere usati per produrre uniformi militari». I palestinesi nel lager devono stare nudi d’inverno.

Che cosa resta dopo questo, se non l’ordine di sterminio?




1) William Lind, «The other election», Antiwar.com, 29 ottobre 2008.
2) Ali Gharib, «Analysts question  timing of Syria raid», Antiwar.com, 29 ottobre 2008. Laureato a Princeton, Lind è «The Director of the Center for Cultural Conservatism at the Free Congress Foundation. He advocates a Declaration of Cultural Independence by cultural conservatives in the United States, in the belief that the Federal government has ceased to represent their interests, and begun to coerce them into negative behavior and affect their culture in a negative fashion. The Center believes that American culture and its institutions are headed for a collapse, and that cultural conservatives should separate themselves from the calamity it foresees».
3) On October 24, I went to hear Mike Vickers, the assistant secretary of defense for special operations and low-intensity conflict, speaking at the Washington Institiute for Near East Policy (WINEP), a pro-Israeli thinktank in Washington. He spoke with pride about the vast and growing presence of these commando forces within the U.S. military, noting that their budget has doubled under the Bush administration and that, by the end of the decade, their will more than 60,000 U.S. forces in this shadowy effort. Here are some excerpts of Vickers’ remarks: «If you look at the operational core of our Special Operations Forces, and focus on the ground operators, there are some 15,000 or so of those - give or take how you count them - these range from our Army Special Forces or our Green Berets, our Rangers, our Seals, some classified units we have, and we recently added a Marine Corps Special Operations Command to this arsenal as well. In addition to adding the Marine component, each of these elements since 2006 and out to about 2012 or 2013 has been increasing their capacity as well as their capabilities, but their capacity by a third. This is the largest growth in Special Operations Force history. By the time we’re done with that, there will be some things, some gaps we need to fix undoubtedly, but we will have the elements in place for what we believe is the Special Operations component of the global war on terrorism». «Special Operations Forces, I think through this decade and into the next one, have been and will remain a decisive strategic instrument». ... «There’s been a very significant - about a 40 or 50 percent increase in operational tempo and of course more intense in terms of the action since the 9/11 attacks. On any given day that we wake up, our Special Operations Forces are in some sixty countries around the world. But more than 80 percent or so of those right now are concentrated in the greater Middle East or the United States Central Command area of responsibility - the bulk of those of course in Iraq and Afghanistan». (Robert Dreyfus, «End of international law?», The Nation, 28 ottobre 2008. Le forze speciali USA operano clandestinamente in 60 Paesi.
4) «Israel bans cloths, shoes into Gaza», Xinhua.net, agenzia cinese, 29 ottobre  2008.


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