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Nell’abisso
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Prima le buone notizie: presto potrete permettervi la sospirata casetta a Londra. Là, i prezzi delle case calano al ritmo di 4 mila sterline al mese (circa 6 mila euro). L’abitazione media, che nell’agosto 2007 valeva 201 mila sterline, oggi ne vale 168 mila, 33 mila in meno. E il ribasso si accelera (1).

Seconda buona notizia (diciamo così): finalmente il capo dei ministri delle Finanze dell’eurozona, il lussemburghese Jean-Claude Junker, ha ammesso: L’Europa «si è pesantemente sbagliata» credendosi immune dalla crisi finanziaria nata in USA nell’estate 2007.

E’ bello che gli eurocrati abbiano cominciato a capire, con un solo anno e mezzo di ritardo. Sono 800 miliardi di dollari gli attivi «tossici» suscettibili di trascinare nel gorgo le banche europee (le nostre banche sane), secondo quanto ha confidato a Sarko il premier britannico Gordon Brown, basandosi su stime dei suoi consiglieri economici (2).

Non che la presa di coscienza abbia portato ad azioni conseguenti. La BCE ha abbassato i tassi di un colossale 0,5% lasciandosi dunque ancora a 3,25%. Ossia mantenendo l’aristocratica distanza con l’America (ormai a tasso quasi-zero) e la Banca d’Inghilterra (3%, taglio di un punto e mezzo); quindi troppo poco e troppo tardi.

I rischi d’inflazione sono diminuiti, ammette finalmente l’acutissimo Trichet: grande senso dell’umorismo, quando persino il Fondo Monetario (anch’esso col solito ritardo) vede instaurarsi «condizioni deflazionarie» (come nella Grande Depressione anni ’30), e raccomanda «stimoli fiscali» (cioè spesa pubblica keynesiana) e tagli dei tassi urgenti, perchè nè famiglie nè imprese spendono più, e le banche arraffano i soldi emessi dal prestatore d’ultima istanza ma se li tengono, «liquidi», senza prestarli.

Trichet, troppo poco e troppo tardi; Bernanke, troppo presto e troppo-troppo, perchè studiando il 1929 ha creduto di capire che il problema allora fu la lesina monetaria. In tal modo, inflazionando nella speranza di far fare ancor un po’ di giri all’insostenibile casinò speculativo, ha trascinato «l’economia mondiale da una crisi ad una ancora più grossa».

Ora tutte le speranze sono in Obama: l’entusiasmo della disperazione. Perchè la speranza, assurda, è di scampare dalla lezione della realtà. Questa realtà la dicono certi economisti «alternativi», i soli da ascoltare in questi tempi.

«Questa è una recessione da bilanci in disordine», dice un tale Richard Koo, parlando agli americani (ma non solo): «Aziende, investitori e famiglie devono liberarsi di case, progetti, speculazioni che non possono permettersi. Il debito va pagato, o cancellato. Le spese vanno ridotte al livello in cui possano essere sostenute dai redditi; anzi, occorre lasciare qualcosa per pagare i debiti e costruire un po’ di risparmio. Cosa difficile, perchè anche i redditi stanno precipitando».

Invece di prendere atto della realtà, dice un altro analista alternativo, Bill Bonner, Federal Reserve e Tesoro «la combatteranno gradino per gradino», Facendo esattamente quel che fece il Giappone vent’anni fa quando scoppiò la bolla speculativa immobiliare e  lo Stato «salvò» le banche ingolfate di crediti inesigibili su immobili svalutati. Provò lo stimolo fiscale, ossia la spesa pubblica alla grande, fino ad andare in deficit per il 6% del PIL; provò ad abbassare il tasso, fino a zero, e l’ha tenuto a zero per anni.

Risultato: 18 anni di recessione, distruzione di capitale per 13 miliardi di dollari. Non ha  funzionato nulla. Ma chi può dirlo? Magari, se i governanti giapponesi non avessero agito così, le cose sarebbe ancora peggiori.

E’ questo il punto, che nessuno sa cosa è meglio fare.

Il presidente Obama farà come il Giappone, stimolo fiscale e tassi a zero (ormai ci siamo: un altro mezzo punto di ribasso, e Bernanke non ha più carte in mano). Con qualche differenza non da poco.

Al contrario degli USA, il Giappone, all’inizio della sua crisi, aveva un’economia  reale fortissima, con bilancia commerciale positiva, e un alto tasso di risparmio; la sua moneta inoltre non era la moneta di riserva mondiale. Ha potuto spendere il 6% del suo enorme PIL per sostituire con la spesa di Stato la spesa, calante, dei consumatori. Il deficit, l’ha potuto coprire ricorrendo all’immenso risparmio dei suoi cittadini, che risparmiavano il 19% del PIL; indebitandosi con il proprio popolo, nella propria moneta. Lo stesso fecero gli Stati Uniti, ricorda Bonner, per finanziare la seconda guerra mondiale.

L’America oggi, però, non può finanziare più vasti deficit al suo interno. I suoi cittadini non risparmiano, anzi vivono da una busta-paga all’altra, colmando i vuoti con la carta di credito; non gli resta nulla da prestare allo Stato. Lo Stato può ottenere soldi dagli americani solo se questi spendono di più, o da nuovi investimenti; e calano le spese delle famiglie e gli investimenti.

Dunque, come  fa ormai da anni, l’America deve ricorrere al prestito delle potenze straniere. Ma questo non può essere illimitato. La  Cina, la Russia, i Paesi petroliferi, quelli dell’Asia, hanno risparmi; ma ora li devono usare per sostenere le loro economie.

E qui interviene Alex Tanzi, un analista che lavora per Bloomberg: egli segnala che, fino all’agosto 2008, le riserve internazionali (il monte di riserve detenuto dalle Banche Centrali) crescevano di un astronomico 26,5% annuo. Da agosto, di colpo, le riserve internazionali hanno smesso di crescere.

La crescita delle riserve era dovuta, come ovvio, allo sbilancio commerciale globale. I Paesi in deficit estero, con monete accettabili come riserva (dollaro, euro, yen) «esportavano» colossali quantità delle loro monete come pseudo-pagamento dei loro deficit. I Paesi esportatori accettavano queste monete e le investivano in titoli di debito degli Stati debitori; anzitutto gli USA, ma anche la Gran Bretagna e l’Europa.

Ora, dice Tanzi, «se le riserve internazionali non crescono più anzi tendono a diminuire, può voler dire che i Paesi esportatori non comprano più altri titoli di debito USA, britannnici o europei; quindi, il debito fiscale di questi Paesi - eurozona compresa, e Italia in primo luogo, con il suo enorme debito pubblico - non vengono più rifinanziati, o non abbastanza (4).

Rientra Bill Bonner, che parla dell’America: quando i disoccupati saliranno al 10%, e magari al 15%, le urla di dolore saranno tali, che il governo (Obama) dovrà prendere qualche misura disperata, aumentando ancora il proprio deficit e il proprio debito. Allora si vedrà - dolorosamente - la differenza tra la vecchia crisi giapponese e quella nuova americana.

Non solo il Giappone aveva un alto e soffice cuscino di risparmi per ammortizzare la correzione; coi soldi in banca, i giapponesi non dovevano temere un collasso economico reale; lo Stato doveva denaro, ma lo doveva a se stesso, tramite i suoi cittadini.

Gli americani si accorgeranno cosa vuol dire, invece, dovere del denaro a stranieri. Peggio: in un periodo di acuta diffidenza dei prestatori, e quindi di credito scarso, «lo Stato americano dovrà competere con altri debitori per ottenere prestiti; i tassi d’interesse saliranno; e quindi l’economia complessiva peggiorerà». Il totale dei titoli USA d’ogni genere in mano a stranieri è valutato a 10 trilioni di dollari.

L’America ha una sola strada davanti, quella che Bernanke sta già percorrendo: stampare dollari, creare liquidità, inflazionare alla disperata, per dilavare il debito in mano agli stranieri, e per finanziare l’aumento fittizio di domanda interna.

«Ciò si può fare, il peso del debito estero può essere alleviato, se solo il dollaro non valesse tanto», sogghigna Bonner.

Un altro economista del genere, Puru Saxena: «Non ci si illuda, questa inflazione monetaria scatenata finirà per rendere il dollaro privo di valore, e l’America forse non avrà altra strada che emettere un nuovo dollaro. E se altre nazioni si imbarcano in questa via inflattiva verso il nulla, vedremo una terribile depressione iper-inflattiva con le monete che precipitano contro beni tangibili» (5).

L’allusione è - evidentemente - alla iper-inflazione tedesca (ma anche russa e austriaca) dei primi anni Venti. Quegli anni in cui, come ricordava Keynes, gli operai ricevevano il salario due volte al giorno, e un’ora di tempo libero per correre a cambiare le loro valige di marchi contro pane e formaggio, prima che il prezzo salisse. E dove a Vienna erano nate ad ogni angolo infimi banchi di cambio, dove si potevano cambiare le corone austriache in franchi svizzeri evitando il rischio del ribasso che si correva se si impiegava troppo tempo ad andare alla propria banca abituale.

No, tranquilli; nemmeno i più apocalittici alternativi pensano ad una replica esatta di quel terribile 1923 germanico: quando i tassi d’interesse bancari salirono al 19% a gennaio, al 30% in aprile, al 90% a settembre e al 900% a novembre. Quando per un dollaro bisognava dare 4 mila miliardi di marchi, e suicidi, la malnutrizione e morte dei vecchi pensionati divennero comuni, e la delinquenza salì alle stelle.

Quando l’indice di velocità della circolazione monetaria passò da un già altissimo 5 a 12. Quando la Borsa tedesca celebrava spettrali trionfi, il suo indice passando da 100 nel 1919 a 21.400 a gennaio 1923, per diventare 26.890.000 a novembre, e dietro a quei surreali rincari azionari c’era il nulla: un nulla tuttavia su cui molti stranieri, privati aziende o speculatori, potevano fare guadagni eccezionali in valuta estera, dato il precipitare del valore del marco. Basti dire che il valore azionario della Daimler, in Borsa con fantastiliardi di marchi, era tale che - in dollari - l’intera compagnia  si poteva comprare al prezzo di 327 delle sue auto.

No, non fino a questo punto. E tuttavia, non mancano segni premonitori; se non del 1923, del 1921: quando in Germania la velocità di circolazione saliva a 1,5 (in USA, ciò è avvenuto nel 2005; oggi la velocità è 2), e già i prezzi aumentavano tanto da fare i titoli sui giornali (in USA ed Europa, il costo della vita - una volta depurato delle bugie statistiche ufficiali che in USA escludono dal calcolo petrolio e cibo - è cresciuto del 50% in sei anni). E soprattutto, non c’erano allora i derivati, nè i mutui subprime cartolarizzati, nè mercati così complicati ed oscuri, nè così interconnessi su scala mondiale. Nè le istituzioni finanziarie erano nemmeno così lontanamente super-indebitate e super-esposte.

Gli Stati non facevano bancarotta. Oggi, rischiano di farla, competendo per vendere i loro BOT ad un monte di risparmio globale (o di riserve globali) sempre più scarso e diffidente.

Il che ci porta all’Italia, col suo debito pubblico. E forse spiega perchè Tremonti parli così poco, e perchè non accetta il consiglio di Draghi, di «stimolo fiscale», ossia di aumento keynesiano della spesa pubblica. E’, forse, paralizzato dal terrore.

Al debito pubblico pari al 103% del PIL, c’è il buco nero dei derivati acquistati dalle nostre delinquenziali amministrazioni locali: per il solo comune di Milano 500 milioni di euro, ossia 300 euro di debito per ogni milanese. Sul piano nazionale, si sussurra di 14 miliardi di euro. Poi ci sono le nostre «sanissime» banche, esposte con Paesi come la Bulgaria…

Chi comprerà le nuove emissioni di BOT? E fino a quando? L’Italia non potrà nemmeno fare come l’America, ossia inflazionare la sua moneta. Perchè la moneta non è la «sua», ma di Trichet e dei tedeschi. Quando avevamo la lira - di cui tutti gli economisti da giornale vi diranno i difetti, li sapete già - a comprare i BOT erano i risparmiatori italiani; il Paese si indebitava con se stesso, nella sua moneta. Ora i BOT italiani sono piazzati sul mercato mondiale; sono in moneta estera, in euro, come quelli tedeschi e francesi, e dunque la nostra credibilità come debitori solventi è in competizione con quella  di tedeschi e francesi.

Da pochi giorni presso l’agenzia americana di compensazione dei Credit defaults swaps (DTCC) è risultato che i treader di questi derivati CDS - che sostanzialmente intendono coprire il rischio di default di un Paese - scommettono soprattutto sull’Italia; al secondo posto è la Spagna, al terzo la Deutsche Bank.

Sul debito italiano, la finanza si è «assicurata» prendendo 22,7 miliardi di dollari di copertura coi CDS; comprandone per 16,7 miliardi sulla Spagna, e 12,5 sulla Deutsche. Più grosso il debito in essere, più grosso il traffico di CDS (6).

I Credit-Default Swap sul rischio Italia sono quotato a 107,5 punti base; il che significa che, per proteggere 10 milioni di euro di debito pubblico italiano, gli «assicuratori» vogliono essere pagati 107.500 euro l’anno. Il rischio valutato è un po’ calato, perchè ad ottobre i CDS erano 138; ma sono raddoppiati da agosto. Quanto alla Spagna, il secondo come rischio default, sono sugli 80 punti-base.

Quasi da star tranquilli, s’intende, in confronto ai CDS sulla Russia colpita da crollo petrolifero, debiti di oligarchi e fuga della speculazione occidentale: 1.100 punti-base, il che implica che gli investori gli assegnano il 61% di possibilità di bancarotta entro 5 anni. O in confronto alla Corea (600 punti-base, rischio default valutato 41%), e persino della Cina, 235 punti-base, pari a rischio di insolvenza 15%.

E inoltre, tutto questo traffico sui CDS è oscuro e manipolato, se si vede che gli USA sono a 25 punti-base, ossia che gli speculatori gli danno un 2% di rischio d’insolvenza (7).

Ma tuttavia, le cifre indicano una cosa: a torto o a ragione, gli speculatori non si fidano di noi, soprattutto di noi, ancor meno che della Spagna. E nel credito, la fiducia è tutto; specie quando è scarsissimo.

Ecco perchè Tremonti sembra paralizzato.




1) Harry Wallop, «House prices falling by over £9.000 a week», Telegraph, 7 novembre 2008.
2) Le Point, 7 novembre: «Les Britanniques évaluent à 800 milliards de dollars les actifs "toxiques" susceptibles d’affecter l’ensemble du système financier européen, "Suisse comprise", a déclaré l’Elysée. Nicolas Sarkozy a informé le groupe de travail parlementaire de cette "estimation non officielle", obtenue auprès du Premier ministre britannique Gordon Brown, ont précisé plusieurs participants à la réunion. Mais si l’Elysée parle de 800 milliards de dollars, les participants interrogés croient avoir entendu le chef de l’Etat parler d’euros».
3) Bill Bonner, «The balance sheet recession», GoldSeek, 6 novembre 2008.
4) Alex Tanzi, «the strange case of falling international reserves», GoldSeek, 6 novembre 2008.
5) Puru Saxena, «Selective socialism», Goldseek, 6 novembre 2008. Puru Saxena is the founder of Puru Saxena Limited, his Hong Kong based firm which manages investment portfolios for individuals and corporate clients. He is a highly showcased investment manager and a regular guest on CNN, BBC World, CNBC, Bloomberg, NDTV and various radio programs.
6) Shannon D. Harrington, «Credit-Default Swaps on Italy, Spain Are Most Traded», Bloomberg,  5 novembre.
7) Lo ritiene anche Bloomberg: «Credit Swap Disclosure Obscures True Financial Risk», 6 novembre.


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