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Clientelismo globale
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Già nella Roma di Augusto si disegnava quell’economia ‘mondializzata’ che oggi insidia ogni Stato sovrano

Liquidato Catilina con un processo politico, ucciso Cesare dai pugnali dei «difensori delle Istituzioni», tramontò per sempre ogni disegno di allargare la Repubblica Romana, alla partecipazione dei vasti ceti di nuovi cittadini delle province. Era precisamente ciò che aveva voluto l’oligarchia senatoria, che eliminò Catilina e Cesare in nome della legittimità delle istituzioni arcaiche repubblicane; ma la restaurazione pura e semplice dell’antica legittimità che l’oligarchia sognava fu impossibile.

Le istituzioni che difendevano erano quelle della primitiva città-Stato: un Parlamento (il Senato) votato dai cittadini in un solo seggio elettorale, Roma-città. Ma da tempo Roma non era una città: era uno Stato, i cui cittadini abitavano l’Italia intera, e anzi sempre più vaste province non italiche.

Il rifiuto di dare rappresentanza democratica a questi ceti - a queste forze sociali reali - attraverso la delegittimazione violenta di coloro che vollero rappresentarle (Catilina e Cesare appunto) non poteva che avere effetti di degradazione patologica della politica, e della stessa società.

Come infatti fu: alla morte di Cesare seguì un ventennio di guerre civili, dove tutti i termini della questione politica e sociale - la transizione verso nuove forme istituzionali - s’oscurò, anzi si falsificò in modo atroce.

L’oligarchia senatoria ottenne infatti solo questo: che mentre eserciti privati si scontravano nella lotta dei loro condottieri per il potere assoluto, le istituzioni superate, e di fatto svuotate, apparissero formalmente vigenti: e alla fine la vittoria arridesse a chi, dei condottieri, aveva finto meglio l’ossequio alla «legalità» di quelle istituzioni.

La finzione, e una forma suprema di ipocrisia, segnarono la nascita di quell’indefinibile pseudo-istituzione che gli storici, secoli dopo, avrebbero chiamato «Impero». Infatti le istituzioni dell’arcaica democrazia erano ancora tutte presenti, quando Ottaviano prese il potere con l’indeterminato titolo di princeps («il primo») di quella stessa repubblica. Ma è impressionante vedere fino a che punto sfigurate, distorte, falsificate.

Le ventisei legioni dell’esercito, anticamente il nucleo politico della repubblica (dove il servizio militare identificò la legittimazione del cittadino a partecipare al voto) in via di professionalizzazione. Restavano il Senato (Parlamento) e i «consules» (il governo): ma l’uno e l’altro profondamente mutati dall’introduzione di nuovi uomini di nomina di Augusto, per lo più di provenienza provinciale e militare, si che l’antica distinzione della cittadinanza fra patrizi e plebe non aveva più corso.

Per i nuovi scelti l’introduzione nel Senato aveva acquistato il significato di una «promozione» in senso burocratico: il conferimento di un «rango», che giustificava le funzioni amministrative
(le «curae», un tempo riservate agli ex consoli) per cui Augusto voleva stabilmente impiegarli. In questo modo, cariche amministrative che erano state elettive diventavano carriere burocratiche, per nomina: conservando gli stessi nomi, avevano cambiato natura.

Il Senato, da assemblea politica, era ormai un consiglio di funzionari. Svuotato per di più della sua funzione legislativa, perché Augusto aveva attribuito valore di senatoconsulto alle decisioni di una «giunta» ristretta formata dai consoli in carica, da una ventina di senatori e da altri personaggi senza titolo politico a lui fidati.

E’ interessante notare che Augusto non governava come un autocrate, ma come il capo di una articolata burocrazia: si era fatto attribuire un tale cumulo di funzioni (un tempo elettive) da poter intervenire in ogni campo «legalmente». Se non poteva essere autore di leggi, e tanto meno fonte di norme giuridiche, le sue molteplici funzioni gli conferivano lo «jus edicendi», cioè di governare per decreto, «edictum», come fece in abbondanza.

Cesare aveva lottato invano per trasformare le istituzioni in modo da affermare il primato del potere esecutivo sopra il potere legislativo (il Senato); ora Augusto realizzava il primato dell’esecutivo, ma di fatto, senza che la trasformazione fosse stata voluta da una decisione democratica e calata in istituti.

Il «princeps» dava, spontaneamente o su richiesta, dei «consigli» su questioni di pubblica amministrazione: ed era sottinteso che questi «consigli» impegnavano i collaboratori e i dipendenti - giù giù fino alla comunità popolare intera.

La giustificazione di questo «modus operandi» - non la legittimazione, non era più questione di legittimità - era la necessità di provvedere all’amministrazione degli affari pubblici. Che erano diventati via via più complessi e, presuntivamente ingestibili da un sistema democratico di partecipazione e che richiedevano competenze professionali.

Era in corso anche allora una globalizzazione dell’economia, e la massima cura del nuovo potere, la sua gloria e giustificazione, era tutta posta nell’assicurare «la libera circolazione di merci, uomini e capitali».

I regni greco-macedoni, che gli eredi di Alessandro Magno avevano fondato fino nell’India, avevano perduto il controllo sul grosso dei volumi d’affari del mondo antico, le importazioni di seta, d’oro, di spezie e cotone, dall’Oriente lontano. Roma aveva finito per subentrarvi.

Per commerciare con Roma senza far passare la «via della Seta» dall’India, già nel 120 avanti Cristo il cinese imperatore Wu aveva mandato un’ambasciata presso i Parti; e la burocrazia cinese non badava a spese per tenere aperta la via, sempre minacciata dalle etnie ribelli d’oltre Himalaya, tra i fiumi Oxo (Amur Darja) e Axarte (Sir Darja) e nel Turkestan.

Nell’Asia crescevano «nuove tigri» che fiorivano sui profitti di questo commercio: Maraconda, Ctesifonte e Vologesecerta, nomi ignoti alla gente comune allora non meno che oggi, ma ben conosciuti dagli insider del commercio mondializzato.

E’ di fronte a questi insider, all’establishment del commercio di lusso, che l’impero di Augusto ottiene la nuova legittimazione; egli non ha più bisogno di cercarla presso il popolo. Le guerre contro i Parti che continueranno per secoli, sono volte a tenere aperte le vie commerciali a cui quell’establishment tiene; le guerre augustee per sottomettere le tribù alpine non sono giustificate dalla meravigliosa sete di conquista che animò il «populus», ma dalla preoccupazione di aprire e render sicure le vie di terra per il commercio verso l’Europa continentale.

Il primo movente di ogni attività bellica imperiale diventa la necessità di difendere classi e interessi, nazionali o transnazionali, a cui si è promessa pace e sicurezza. E’ una nuova struttura politica che s’afferma, a cui lo storico Mario Attilio Levi dà il nome di «clientela ecumenica».

La partecipazione «politica» avviene in questa forma mondializzata del clientelismo, in cui Augusto è il patrono, che rende conto ai suoi clienti (in gran parte non più italici) da cui pretende in cambio la disciplina della loro dipendenza. In questa nuova visione, un esercito di cittadini («populus», letteralmente «devastatore», significò il corpo dei cittadini in armi) non è più che un importuno ostacolo: i cittadini in armi vogliono sapere perché e per chi si combatte.

Verrà il tempo in cui i Flavii vieteranno addirittura agli italici il servizio militare, per reclutare nelle province e in gran parte stranieri, uniti da una fedeltà non a una patria, ma ad una Legione, da uno spirito di corpo professionale. E’ la definitiva espulsione del popolo dalla politica, la trasformazione finale della democrazia in burocrazia funzionale.

E tuttavia le istituzioni della repubblica sono ancora tutte lì: e il fatto che esistano, ed abbiano gli stessi nomi del passato, fa velo perfino a spiriti lucidissimi.

Il «clientelismo globale» esiste già da un secolo, e ancora Tacito si domanda come mai il Senato non faccia argine al dispotismo del principe, come mai la democrazia non funzioni e marcisca, e perché ad esempio l’oratoria - la retorica - sia cosi degradata. Ma l’oratoria era lo strumento di un tempo, in cui si doveva convincere il popolo a votare per certe o cert’altre soluzioni. Oggi le decisioni non passano più per i «comitia» popolari. Vengono prese negli uffici ministeriali, «scrinia», e nel «concilium principis».

Ciò che sarebbe il «populus», è una massa il cui passivo «consenso» - che è acquiescenza torpida - è stata guadagnata con l’esenzione dagli obblighi della sovranità (la milizia) e dal «benessere» dei donativi.

Ciò che giustifica in qualche modo la burocrazia augustea è infatti l’adempienza alla sua parte di obblighi patronali, la sua «efficienza» relativa.

Ciò che non si può dire degli augustuli burocratici del nostro secolo.


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