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Libia 1911 - Europa 1914 (parte III)
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La Libia ottomana

La Libia, come la conosciamo oggi, è in effetti una realizzazione del colonialismo italiano. Lo stesso nome di Libia è una riesumazione del nome che greci e romani avevano dato a quell’area centrale del nord Africa.

La Libia ottomana, invece, era costituita di tre province corrispondenti a ben precise identità tribali arabe e berbere: la Tripolitania, la Cirenaica ed il Fezzan. Si tratta di tribù, in particolare quella tripolitana e quella cirenaica, tra loro da sempre rivali e la cui identità non è mai venuta meno né in età coloniale italiana né con l’indipendenza prima sotto la monarchia senussita e poi sotto il regime di Gheddafi. Sono le stesse che oggi si contendono il potere nella guerra civile scatenatasi soprattutto per opera della NATO.

Elevata nel 1835 a provincia dell’impero ottomano, la Libia era retta da un governatore (valì). Ma il potere effettivo semi-autonomo era esercitato dalla tribù senussita, originaria dell’oasi di Giarabub. I senussiti si erano stanziati nei pressi di quell’oasi quando da pastori si erano trasformati in agricoltori facendo, così, fiorire un regno feudale in pieno deserto. Tale regno, ufficialmente tributario della sublime porta, era governato dai discendenti di Ibn Abi, detto, appunto, Senussi. Quando gli inglesi occuparono Egitto e Sudan, la capitale del regno senussita, Giarabub, venne a trovarsi troppo vicina ai confini e fu spostata nell’oasi di Cufra.

Come vedremo, questa particolare situazione di semi-autonomia politica ingannò il governo italiano che pensò alla popolazione araba come ad un possibile alleato anti-turco in grado di facilitare l’occupazione coloniale della Libia. La stampa italiana molto insistette su questa falsata descrizione degli effettivi sentimenti degli arabi libici nell’intento di far passare, nell’opinione pubblica, l’idea per la quale l’impresa coloniale si sarebbe risolta in una passeggiata (un motivo propagandistico, questo delle passeggiate, che purtroppo ritroveremo anche nella storia italiana successiva). Ma così non fu perché, al contrario delle aspettative, gli arabi ed i berberi si dimostrarono fedeli, soprattutto in nome della comune religione, alla sublime porta e, anche quando quest’ultima fu costretta a cedere alla, invero resistibile, potenza militare italiana, le popolazioni libiche continuarono la loro guerra di resistenza anticoloniale che si trascinò, con fasi alterne, fino agli anni ‘30 del XX secolo.

Quello di utilizzare l’ostilità araba alla dominazione turca era, del resto, un metodo che anche l’Inghilterra con Lawrence d’Arabia avrebbe praticato.

LItalia post-unitaria nel contesto europeo

L’Italia del primo Novecento era uno Stato giovane, di recente e contraddittoria formazione. Subito dopo l’unificazione statuale, la politica italiana oscillò tra il rapace fiscalismo della Destra Storica, a danno dei più deboli (tassa sul macinato), congiunto all’ossessività del mito del pareggio di bilancio, e la moderata propensione riformatrice della Sinistra Storica. Non si trattava, però, di diverse scuole ideologiche ma semplicemente dell’anima più conservatrice e di quella più progressista del liberalismo che aveva guidato la Rivoluzione risorgimentale.

Il socialismo italiano era al di là dal comparire ancora confuso come era con la sinistra democratico-mazziniana tenuta ai margini della vita politica nazionale.

Sia la Destra che la Sinistra storica erano accomunate da una forte avversione al Cattolicesimo, identificato con l’oscurantismo papista e la reazione borbonica in agguato. Ne seguì la dura repressione dell’insorgenza popolare nelle regioni meridionali (il cosiddetto brigantaggio).

Quando, più tardi, comparvero sulla scena politica i socialisti, ancora più a sinistra dei mazziniani, la classe dirigente liberale iniziò a temere – erano gli anni della Rerum Novarum e della Chiesa che, sancendo un movimento sociale cattolico già in atto da almeno un secolo, scendeva a fianco degli operai contro il liberismo – una possibile alleanza tra cattolici e socialisti. Un’alleanza che, però, era solo nelle paure dei liberali, in quanto, dati i diversi presupposti, tra cattolici e socialisti non vi sarebbero mai potute essere alleanze dottrinali ma solo semmai strategiche.

Il timore del complotto rosso-nero, spinse lo Stato liberale ad usare la mano forte contro i dissidenti: l’esito più tragico furono i fatti della Milano del 1898, quando il generale Bava Beccaris, poi insignito per questo di medaglia al merito da parte di re Umberto (che in tal modo firmò la sua condanna a morte per mano dell’anarchico Bresci), fece cannoneggiare gli scioperanti cattolici e socialisti. Seguirono molti arresti tra i capi degli uni e degli altri. Anche don Albertario, sacerdote tradizionalista intransigente e direttore di un giornale vicino agli operai, fu tradotto nelle patrie galere.

Per evitare di dover fronteggiare due opposizioni, i liberali, con Giolitti (1), iniziarono a cambiare registro, tentando con seduzioni di accomodamenti sia i cattolici che i socialisti. Se nei confronti di questi ultimi si corteggiò l’ala moderata e riformatrice, l’operazione nei confronti dei cattolici fu condotta tramite gli uffici del Gentiloni, un nobiluomo, con buone entrature in Curia, cui Papa Pio X aveva affidato la missione di costituire l’Unione Elettorale Cattolica Italiana con lo scopo di indirizzare il voto cattolico verso obiettivi confacenti.

Con il cosiddetto Patto Gentiloni, stipulato poco prima delle elezioni del 1913, lo Stato liberale, spaventato dall’avanzata del Quarto Stato, si appellò ai cattolici agitando lo spauracchio del socialismo ateo. La Curia, in quell’occasione, cadde nel tranello ed incaricò Gentiloni di formare, per le elezioni (era ancora formalmente in vigore il non expedit), comitati elettorali cattolici che convogliassero il voto cattolico verso quei candidati liberali e moderati che si impegnavano a rispettare certi temi di carattere religioso e ad opporsi a leggi anticlericali.

Nei sette punti che il Gentiloni faceva sottoscrivere ai candidati liberali che ambivano al voto cattolico vi erano però anche due punti, il quinto ed il sesto – solitamente trascurati dagli attuali lodatori della politica catto-liberale gentiloniana: lodatori che ne vorrebbero una riedizione in chiave berlusconiana –, che imponevano l’impegno per il «diritto di parità alle organizzazioni economiche e sociali, indipendentemente dai principi sociali e religiosi ai quali esse si ispirano» (leggasi: riconoscimento dei sindacati cattolici) e l’impegno «per una migliore salvaguardia ed applicazione dei principi di giustizia nei rapporti sociali» (leggasi: leggi a tutela delle classi più deboli e di freno al liberismo).

Il mondo dell’intransigentismo cattolico fu definitivamente travolto dalla svolta gentiloniana perché divenne palese la sua divisione interna, già da tempo serpeggiante, tra coloro che, temendo il nuovo arrivato socialista, aderirono alla prospettiva del Patto Gentiloni e coloro che invece, guardando al socialismo come alla nemesi storica del liberalismo, si spinsero sulla via del catto-progressismo ante litteram. In ogni caso, l’allargamento della base elettorale, concessa da Giolitti, fu l’occasione per i cattolici di rendersi gradualmente autonomi e di superare anche l’esperienza del catto-moderatismo verso la formazione di una forza autonoma, quale più tardi fu il PPI di Sturzo con tutte le conseguenze che l’impostazione a-confessionale di tale partito avrebbe avuto nella secolarizzazione dell’impegno politico dei cattolici.

Se questo, in sintesi, era il panorama interno, sul piano internazionale l’Italia, agli inizi del Novecento, era parte di quel sistema di alleanze noto come Triplice Alleanza, insieme alla Germania Guglielmina ed all’antica rivale l’Austria-Ungheria. Questa collocazione internazionale aveva motivazioni sia politiche che economiche. Dopo il fallimento sempre più evidente del liberalismo ottocentesco, il nuovo Stato unitario, alle prese con i suoi gravi problemi interni, aveva subìto una svolta in senso autoritario per iniziativa di Francesco Crispi, il quale pur provenendo dalle fila dei mazziniani si era avvicinato ai circoli moderati e filogovernativi. Non si pensi, però, che Crispi avesse tradito i suoi ideali unitari democratici. In realtà con lui si rivelò il possibile esito pre-totalitario che il democratismo giacobino e mazziniano cova nel suo seno. L’autoritarismo crispino non era di vecchio tipo ma tendeva ad irreggimentare la nazione in una coesione sociale forte che, inevitabilmente, prevedeva anche la graduale integrazione delle masse popolari nella compagine unitaria. Per certi versi, e fatte le debite differenze, Crispi fu il Bismarck italiano.

Negli anni della dittatura liberale di Crispi vennero rafforzati i legami economici della penisola con il mondo mitteleuropeo e germanico in particolare. Il capitale tedesco controllava gran parte dell’apparato industriale e finanziario italiano. Al contempo Crispi diede impulso, mediante una accorta politica protezionista, alla nascita di un capitalismo nazionale, favorendo, anche all’estero, le iniziative del capitale italiano.

In tal modo l’Italia post-unitaria si trovò nel bel mezzo della corsa alla colonizzazione che, a partire con più intensità dalla seconda meta del XIX secolo (ma i prodromi risalgono già all’età napoleonica), avevano da tempo intrapreso tutte le potenze europee, ad eccezione dell’Austria asburgica e, in parte, della Russia zarista (se non si vuol considerare colonialismo il suo espansionismo asiatico che portò l’impero zarista a scontrarsi nel 1905 con la nascente potenza nipponica del Sol levante, un impero antico – quest’ultima – che si era modernizzato, a partire dall’età Meij ossia dalla seconda metà del secolo XIX, per sfuggire al destino coloniale cui invece non riuscì a sottrarsi l’altro impero tradizionale asiatico: quello cinese).

L’Italia, nell’ultima parte del XIX secolo, aveva già intrapreso la sua avventura coloniale, a dire il vero in modo non esaltante. Dopo aver posto i primi approdi coloniali a Massaua, in Eritrea, ed in Somalia, iniziando la graduale penetrazione verso l’interno, l’Italia fu fermata dal vecchio impero etiopico – quello il cui sovrano, Menelik II, si considerava discendente della regina di Saba e di re Salomone – che le inferse due durissime sconfitte a Dogali nel 1887, per mano del ras etiope Alula, e ad Adua nel 1896.

Il clamore internazionale della disavventura coloniale italiana fu assordante ed il nostro Paese ne uscì con le ossa rotte e dovette, per il momento, abbandonare la propria aspirazione a diventare una grande potenza coloniale (2).

Può sembrare strano che l’Europa delle rivoluzioni liberali ottocentesche, le quali inneggiavano alla libertà dei popoli, si lanciasse, subito dopo, nella colonizzazione di terre altrui, alla ricerca delle materie prime a buon prezzo per l’industria nazionale. Ma chi è ben consapevole che, in realtà, le parole d’ordine del liberalismo, ieri come oggi, nascondono sempre menzogne eclatanti non può meravigliarsi che l’invocata libertà dei popoli dall’oppressione delle antiche monarchie era solo lo specchio per allodole della volontà di potenza di un’Europa che, girate le spalle alla sua antica forma cristiano-apostolica, stava approdando nel porto dell’Occidente il cui baricentro, anche se a quell’epoca non era ancora chiaro a nessuno, era, ed è, oltre Atlantico.

L’imperialismo colonialista aveva, del resto, le proprie radici nello stesso liberalismo sette-ottocentesco. L’idea di nazione, infatti, oltre ad essere una invenzione ideologica moderna, è stata il grimaldello per scardinare l’universalità cristiana medioevale, chiudendo ai popoli le vie verso l’Alto in nome del principio superiorem non recognoscens con il quale le monarchie nazionali assolute del XVI secolo si resero indipendenti da Papato ed Impero, per poi, in una fase storica successiva, aprire, mediante la fessurazione verso il basso della corazza statuale delle singole nazioni moderne, la strada alla realizzazione di un nuovo ed equivoco (anticristico?) universalismo ossia all’attuale globalizzazione. Questo spiega l’intima connessione che sussiste, al di là delle differenze formale ed esteriori, tra il nazionalismo liberale ottocentesco e quello antiliberale dei fascismi novecenteschi.

L’età del colonialismo, d’altro canto, si presentò, tra fine XIX ed inizio XX secolo, come il primo tentativo di globalizzazione economica. Proprio il caso italiano ne costituisce prova irrefutabile.

Quando si intraprese la spedizione in Libia, molte furono le voci di dissenso tra gli eredi degli ideali risorgimentali, i quali lamentavano che l’Italia, dopo aver lottato per la sua libertà, andava ora attentando alla libertà altrui. Ma costoro non avevano affatto compreso la natura di quel processo unitario al quale avevano, pur idealisticamente, partecipato. Luigi Carlo Farini, l’uomo di Cavour che depredò il ducato di Modena non appena fu annesso al Piemonte sabaudo, giunto nel Meridione d’Italia, strappato ai Borboni, scriveva, il 27 ottobre 1860, al primo ministro sardo, con l’arroganza di chi si sente antropologicamente superiore: «Altro che Italia! Questa è Africa, i beduini a riscontro di questi caffoni, son fior di virtù civile» (3).

L’ideologia anti-terronista era evidentemente già presente nei vertici politici e militari sabaudi. In tal senso non si è lontano dal vero nell’affermare che, in un certo modo, l’avventura in Libia rappresentò la continuazione di un’operazione coloniale, verso sud, che era già stata intrapresa nel 1860 ai danni delle popolazioni meridionali della penisola italiana. Del resto, in entrambi i casi la colonizzazione fu realizzata, in nome del progresso e della liberazione del presunto popolo oppresso, sulla pelle di una antica forma tradizionale di governo: la monarchia borbonica, in un caso, e l’impero della sublime porta, nell’altro.

I rapporti tra lItalia e la Libia ottomana

L’apertura nel 1869 del canale di Suez – in previsione della quale l’Inghilterra appoggiò nel 1860 l’impresa garibaldina nell’intento di assicurarsi nell’Italia meridionale una testa di ponte sotto una dinastia più affidabile, per gli interessi inglesi, di quella borbonica – fece riacquistare al Mediterraneo molta dell’importanza che aveva perso, nell’età post-medioevale. Il canale, infatti, permetteva il collegamento rapido dell’Europa con l’Oceano Indiano e dunque con l’Asia estrema ed il Pacifico, baipassando l’Atlantico.

Fondamentale diventava, ora, il controllo delle vie di accesso al canale e l’Italia veniva per questo a trovarsi in una situazione geopolitica strategica. Si trattava, per l’Inghilterra ma anche per la Francia, di impedire che l’una e l’altra sponda, quella europea e quella nord-africana, dalle quali era possibile controllare il traffico marittimo nel Mediterraneo centrale ed orientale, venissero a trovarsi nelle stesse mani.

Per questo motivo, l’Inghilterra si oppose sempre alle aspirazioni italiane verso la Tunisia, Paese che contava la presenza di una considerevole colonia di italiani, e quando Tunisi fu occupata nel 1881 dalla Francia, con l’accordo inglese, l’Italia dovette inghiottire l’amaro rospo.

Con la Tunisia in mano francese e l’Egitto in mano inglese, all’Italia non restava che mirare, per le sue ambizioni coloniali, alla Libia ottomana.

Il nostro Paese era alleato della Germania e dell’Austria ma continuava ad avere rapporti, ufficiosi e spesso ufficiali, anche con Inghilterra, Francia e Russia, in quello che la diplomazia dell’epoca amava chiamare il «concerto delle potenze europee» e che, al ritmo dei balli parigini del can can, sembrava volesse preannunziare, nell’equilibrio dei rapporti di forza, l’età del progresso infinito promesso dalla Belle Epoque.

La Turchia ottomana invece, sotto la pressione delle rivendicazioni russe verso i Balcani, si stava allontanamento dagli antichi alleati del tempo della Guerra di Crimea, Francia ed Inghilterra, per avvicinarsi, data l’alleanza anglofrancese con la Russia zarista, a Germania ed Austria, a loro volta, però, alleate dell’Italia che non faceva mistero delle sue ambizioni libiche.

Nel 1908 i Giovani Turchi avevano saldamente conquistato il potere instaurando una monarchia costituzionale ed intraprendendo una politica modernizzatrice che però era anche fortemente nazionalista e quindi profondamente diversa dallo spirito plurinazionale dell’antico impero.

Questa svolta politica non poteva non entrare in rotta di collisione con le aspirazioni italiane in Libia. Da almeno un decennio, infatti, la penetrazione economica del capitale italiano in Libia era un dato di fatto. In particolare era il Banco di Roma, espressione di una certa finanza cattolica, spesso ecumenicamente compromessa con la finanza massonica, ad avere molti interessi in Tripolitania avendo finanziato diverse imprese italiane che operavano in quella terra o che vi si erano installate.

La propaganda nazionalista dei Giovani Turchi fece dell’opposizione alla penetrazione coloniale italiana il suo cavallo di battaglia e, una volta al potere, i nazionalisti dunmeh iniziarono una politica di freno e di intralcio verso le iniziative economiche italiane in Libia. Ogni impresa con capitale anche parziale italiano era vessata in mille modi dal governo turco.

Questo naturalmente provocò forti tensioni con l’Italia.

Il ripetersi di vari incidenti diplomatici e militari, mobilitò l’opinione pubblica italiana rafforzando da un lato i sentimenti nazionalisti e dall’altro l’ostilità anti-turca. Solo pochi sfuggirono al clima da crociata che infiammò l’opinione pubblica nazionale. Un clima incoraggiato dal governo di Giolitti. Tra quei pochi Gaetano Salvemini, che definì la Libia «uno scatolone di sabbia» (nessuno all’epoca, né in età fascista, sospettava del petrolio nel sottosuolo libico), e Leone Caetani.

Tre erano le correnti di opinione mobilitate, in quegli anni, sulla questione libica. Esse rappresentavano i maggiori movimenti della vita politica italiana, tutti critici, per motivi differenti, verso il regime liberale di Giolitti.

Fronte interno ed opinione pubblica italiana

Nel 1910 era nata l’Associazione Nazionalista Italiana. Essa raccoglieva importanti nomi di intellettuali, filosofi, giuristi ed economisti, tra i quali Luigi Federzoni, Enrico Corradini, Francesco Coppola, Roberto Forges-Davanzati, Alfredo Rocco.

I nazionalisti, pur considerandosi gli eredi del Risorgimento liberale, tuttavia avevano sposato sia la tesi comtiana per la quale le nazioni attraversano fasi organiche, di ascesa collettiva, e fasi disorganiche, di decadenza individualista, sicché lo Stato autoritario avrebbe dovuto riorganizzare la nazione in una forma politica ed economica organica, mediante la collaborazione di classe ed il ripudio del liberismo economico in favore del dirigismo e del protezionismo, sia, come corollario della prima, l’altra tesi, darwiniana, dell’imperialismo e della potenza come legge fondamentale nella lotta per la sopravvivenza tra i popoli.

La nazione per essi era certamente un dato culturale ma congiunto strettamente con quello etnico. Ripudiarono, come si è detto, il liberismo, in nome del dirigismo e del protezionismo, e si fecero fautori del corporativismo di Stato, gerarchico ed integratore, in senso interclassista, delle masse operaie nella nazione, al fine di aumentare il benessere e la potenza italiana.

Per i nazionalisti solo in un quadro organicamente nazionale sarebbe stata risolvibile la questione sociale ed operaia agitata dal socialismo, al quale essi guardavano ad un tempo con diffidenza e con simpatia.

Il loro organo di stampa, LIdea Nazionale, fu in prima linea nella propaganda in appoggio all’impresa coloniale in Libia e dunque alla guerra contro la sublime porta (a sua volta ormai politicamente prigioniera dei fratelli ideologici dei nazionalisti italiani, ossia i Giovani Turchi). Per i nazionalisti italiani quella impresa avrebbe significato non solo il riscatto di Adua ma anche l’apertura di grandi spazi economici per il lavoro italiano e, soprattutto, la consacrazione definitiva, messa in discussione dai disastrosi precedenti coloniali, dell’Italia come grande potenza.

I nazionalisti confluiranno, più tardi, nel fascismo costituendone l’anima di destra.

Il cattolicesimo politico italiano, come si è già detto, a conseguenza della politica di abbandono dell’intransigentismo, che avrebbe portato al Patto Gentiloni del 1912/13, e a causa dell’allargamento della base elettorale, era al crocevia tra catto-moderatismo e catto-democratismo.

Come purtroppo è spesso accaduto nella loro storia, ed accade anche oggi, i cattolici, in occasione dell’avventura coloniale libica, si fecero improvvidamente strumentalizzare in funzione di disegni geopolitici a loro estranei. La stampa cattolica si lanciò compatta in una campagna di propaganda a favore dell’occupazione coloniale della Libia, sia in appoggio agli interessi, alquanto sospetti, del cattolico Banco di Roma, sia per dimostrare al governo ed alle altre forze politiche l’affidabilità nazionale dei cattolici dopo la crisi risorgimentale (un atteggiamento di apertura, questo, verso lo Stato unitario che contribuì a preparare il terreno alla Conciliazione del 1929), sia in nome della crociata contro il secolare nemico turco della Cristianità. Persino Luigi Sturzo, futuro fondatore del Partito Popolare Italiano, inneggiò alla guerra santa per la civiltà cristiana.

Come si vede, sotto quest’ultimo aspetto, i cattolici di inizio XX secolo stanno ripetendo, con la loro maldestra islamofobia strumentale agli interessi americani ed all’ideologia neoconservatrice, lo stesso errore dei loro correligionari di inizio XX secolo.

Tuttavia anche un secolo fa – come avrebbe fatto nel 2003 Giovanni Paolo II nei riguardi della guerra irachena – Papa Pio X prese le distanze da queste posizioni politiche dei cattolici dichiarando che quella guerra, la guerra italo-turca, era soltanto un fatto politico con il quale la religione nulla aveva a che fare.

Che dire? Lo Spirito Santo illumina sempre, nel momento opportuno, il Pastore ma non sempre e non tutto il gregge lo segue preferendogli, purtroppo, i lupi travestiti da agnelli.

Infine, la sinistra italiana. Essa era divisa tra repubblicani e socialisti e, all’interno di questi ultimi, tra riformisti e massimalisti appoggiati, dall’esterno, dai sindacalisti rivoluzionari. Vi erano, poi, ma assolutamente minoritari gli anarchici.

La sinistra estrema si dichiarò immediatamente contraria all’ipotesi di una guerra imperialista ma quella moderata assunse una posizione più possibilista in vista degli sbocchi occupazionali che l’impresa poteva sortire per i lavoratori italiani.

Il PSI indisse una mobilitazione generale contro la guerra. Ma senza grande successo. Le manifestazioni antimilitariste a Forlì, l’unica città nella quale ebbero un certo seguito, furono organizzate e capeggiate dal socialista massimalista Benito Mussolini.

L’insuccesso della mobilitazione pacifista nel resto del Paese contribuì alla comprensione, da parte socialista, dell’importanza del fattore nazionale nella moderna politica di massa. Una attenzione alla nazione che, ad esempio, iniziava a farsi avanti nelle riflessioni politiche del giovane Mussolini, già segretamente conquistato alla causa dei sindacalisti rivoluzionari ossia alla revisione soreliana e nicciana del marxismo: il mito politico dello sciopero generale, guidato da un’élite di uomini decisi a tutto, era appunto parte di questa germinale neo-ideologia socialista nazionale.

Mussolini non fu certamente l’unico, tra i socialisti estremisti ed i sindacalisti rivoluzionari, ad accostarsi all’dea della nazionalizzazione delle masse come strada per giungere al socialismo.

La maggior parte dei sindacalisti rivoluzionari, successivamente riuniti sotto la sigla dell’Unione Sindacale Italiana (USI), si erano inizialmente dichiarati contrari alla guerra coloniale. Tra di essi ricordiamo Podrecca, Leone, Barzilai, Orano, Angelo Oliviero Olivetti, Luigi Razza, Michele Bianchi, Merlino, Massimo Rocca, Edmondo Rossoni e Alceste De Ambris (questi ultimi due fondarono insieme, più tardi, la UIL ma, poi, il primo diventò segretario delle corporazioni sindacali fasciste ed il secondo, dopo aver partecipato all’impresa dannunziana a Fiume e contribuito alla stesura della Carta del Carnaro, che prefigurava una repubblica sindacale, passò all’antifascismo), Giuseppe Di Vittorio (poi, passato al comunismo, sarà segretario della CGIL), Filippo Corridoni.

Ma il più noto tra gli intellettuali del sindacalismo rivoluzionario, Arturo Labriola, – che fu anche massone, e persino gran maestro del Grande Oriente d’Italia, ma anche feroce critico, socialista, del capitale speculativo finanziario, che già all’epoca secondo il suo pensiero condizionava parassitariamente e pesantemente l’economia reale – prese invece le distanze dal pacifismo socialista indicando nella guerra di popolo lo strumento necessario per la trasformazione rivoluzionaria della società capitalista, portando un po’ alla volta anche gli altri sindacalisti rivoluzionari e socialisti massimalisti, ad iniziare da Alceste De Ambris e Filippo Corridoni, a riconsiderare, negli anni seguenti, anche alla luce del consenso di massa che l’impresa libica aveva registrato, le proprie originarie posizioni anti-militariste.

Questo della guerra nazionale di massa come momento preparatorio della rivoluzione sociale avrebbe costituito, insieme a quello soreliano dello sciopero generale, il mito politico di una sinistra eretica la quale, mediante le agitazioni interventiste del 1914-15, in favore dell’entrata in guerra dell’Italia in alleanza con Francia ed Inghilterra contro l’Austria, e la successiva esperienza democratico-socialista dell’impresa dannunziana a Fiume nel 1919-20, sarebbe confluita nel fascismo per costituirvi l’anima di sinistra.

Questa componente socialista del fascismo propugnò, per l’intera durata di quell’esperienza politica, una concezione del corporativismo di tipo nazional-sindacale, con forti aspetti autogestionari, proiettata, mediante l’auspicato progressivo superamento del comunismo come del capitalismo, verso l’esito, indicato ma poi mai efficacemente realizzato dal regime fascista, di un socialismo nazionale.

L’esperienza della guerra di Libia, insomma, presiedette al battesimo di questa sinistra eretica, che andava incontrandosi con le avanguardie letterarie dell’epoca, da La Voce di Giovanni Papini e Giuseppe Prezzolini fino ai futuristi di Marinetti («guerra sola igiene del mondo»). Questa sinistra non disdegnò di contaminarsi – e la contaminazione fu reciproca – con la destra nazionalista in nome della comune avversione alla democrazia borghese. Solo che – tragico errore culturale e di prospettiva storica – sia questi socialisti eretici che i nazionalisti confondevano gli antichi imperi tradizionali (Austria, Russia e Turchia: la Germania guglielmina era altra cosa ossia un modello di imperialismo moderno) con il mondo borghese, avversato dai primi per il suo imperialismo capitalista e dai secondi per il suo pacifismo umanitario.

Il fascismo nasce – in questo crocevia storico nel quale giungevano a maturazione avvicinamenti trasversali in atto da diversi decenni e non solo in Italia (si pensi agli avvicinamenti in Francia tra maurassiani e soreliani-proudhoniani) – come l’eresia nazionalista del socialismo che si incontrava e si fondeva con l’eresia socialista del nazionalismo.

D’Annunzio decantò l’impresa coloniale libica ne Le Canzoni delle gesta doltremare. Ma fu Giovanni Pascoli, che militava tra i socialisti, ad inventare, per l’occasione, uno tra i più efficaci slogan propagandistici. La «grande proletaria sè mossa» – la lode lirica con la quale Pascoli inneggiò all’impresa italiana contro la Turchia – esprimeva molto efficacemente la convergenza tra nazionalisti, sindacalisti rivoluzionari e socialisti massimalisti intorno al mito rivoluzionario di una nazione giovane e piena di forze vitali, sindacalisticamente organizzata, in cerca del suo posto al sole contro l’arroganza della grandi potenze capitaliste. La pascoliana «grande proletaria» riecheggerà, quasi trent’anni dopo, nella mussoliniana «Italia proletaria e fascista» della dichiarazione di guerra nel 1940 alle «demoplutocrazie dellOccidente».

Non si pensi, però, che il governo liberale fosse sotto pressione da parte dell’opinione pubblica e che quindi stentava all’idea di una impresa coloniale. In realtà Giolitti ed il suo entourage da tempo avevano deciso e pianificato la guerra per la Libia. Oltretutto la borghesia italiana era anch’essa scesa in campo nel fronte interventista. Il Corriere della Sera, il giornale della borghesia del nord, appoggiava quotidianamente la campagna propagandista in favore dell’impresa coloniale.

Se il governo di Giolitti appariva, all’opinione pubblica, titubante, scatenando le ire dei nazionalisti e dei sindacalisti, era solo per il fatto che esso doveva agire tenendo conto del quadro internazionale più che degli umori popolari o delle passioni ideologiche.

Visto il sistema di alleanze – un delicatissimo equilibrio di potenza – allora vigente, Giolitti non poteva intraprendere una iniziativa, in uno scacchiere nel quale erano già presenti altre potenze europee dalle quali, tra l’altro, l’Italia ufficialmente era lontana in quel momento, senza prima coprirsi le spalle con alleati e non alleati.

Luigi Copertino

(fine terza parte di cinque)

Libia 1911 - Europa 1914 (parte I)
Libia 1911 - Europa 1914 (parte II)
Libia 1911 - Europa 1914 (parte IV)
Libia 1911 - Europa 1914 (parte V)




1) Giolitti proveniva da una famiglia cavouriana ed aveva iniziato la sua carriera nel partito crispino. Egli rappresentò la chiusura del periodo autoritario dell’Italia liberale di fine ottocento e l’inaugurazione di una nuova politica intesa ad allargare il suffragio universale e ad aprire alla collaborazione dei socialisti riformisti e dei cattolici. Sotto i suoi ripetuti ministeri iniziò a prendere forma l’intervento dello Stato in economia (nazionalizzazione delle ferrovie e delle assicurazioni, controllo pubblico sul credito, arbitrato statuale tra imprenditori e sindacati, riconoscimento del diritto di sciopero e di serrata, creazione di molti enti pubblici). Il fascismo continuerà su questa strada accentuando la pubblicizzazione dell’economia nazionale. Giolitti può essere ritenuto un conservatore riformista.
2) Per inciso va detto che ad Adua gli etiopi massacrarono i nostri soldati perché avevano armi tecnologicamente migliori. Si trattava di fucili di nuova concezione, ad avancarica, di fabbricazione francese che lo stesso regio governo sabaudo aveva venduto al Negus dopo averne ritrovato un certo quantitativo nella Roma pontificia occupata nel 1870, evidente lascito dei francesi agli zuavi pontifici ma che, su ordine di Pio IX, il quale non volle spargimenti di sangue, non furono, in quell’occasione, mai usati.
3) Lettera di Farini a Cavour citata in Denis Mack Smith, Cavour contro Garibaldi, Rizzoli, Milano, 1999, pagina 421.



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