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Scomunicare Martini o riformare la Messa?
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Durante l’estate scorsa si era diffusa la notizia che tra Santa Sede e la Fraternità San Pio X, fondata dall’arcivescovo francese monsignor Marcel Lefebvre, fosse iniziato il conto alla rovescia e che entro il 28 giugno quest’ultima avrebbe dovuto decidere se accettare le cinque condizioni proposte dal Vaticano per rientrare nella piena comunione con Roma.

Dapprima sembrava che alla Fraternità sarebbe stato imposto di ripartire dal Protocollo fissato nel corso della riunione tenutasi a Roma il 4 maggio 1988 tra l’allora cardinale Joseph Ratzinger e monsignor Marcel Lefèbvre e firmato dai due prelati il 5 maggio 1988: l’accordo prevedeva tra l’altro di accettare la dottrina contenuta nel numero 25 della Costituzione dogmatica Lumen Gentium del Concilio Vaticano II sul Magistero ecclesiastico e sull’adesione che gli è dovuta, ad assumere un atteggiamento positivo e di comunicazione con la Sede Apostolica, evitando ogni polemica a proposito di certi punti insegnati dal Concilio Vaticano II o relativi alle riforme della liturgia e del diritto, difficilmente conciliabili con la Tradizione ed infine a riconoscere la validità del Sacrificio della Messa e dei sacramenti celebrati con il messale romano e dei rituali dei sacramenti promulgati da Papa Paolo VI (poi riformato da Giovanni Paolo II).

Contrariamente alle prime indiscrezioni, invece, Andrea Tornelli pubblicava sul suo blog le condizioni risultanti dall’incontro del 4 giugno 2008 tra il cardinale Dario Castrillon Hoyos (presidente della Commissione Ecclesia Dei) e il vescovo Bernard Fellay e che riguardavano per la Fraternità:

1) L’impegno a una risposta proporzionata alla generosità del Papa.
2) L’impegno ad evitare ogni intervento pubblico che non rispetti la persona del Santo Padre e che possa essere negativo per la carità ecclesiale.
3) L’impegno ad evitare la pretesa di un magistero superiore al Santo Padre e di non proporre la Fraternità in contrapposizione alla Chiesa.
4) L’impegno a dimostrare la volontà di agire onestamente nella piena carità ecclesiale e nel rispetto dell’autorità del Vicario di Cristo.
5) L’impegno a rispettare la data - fissata alla fine del mese di giugno - per rispondere positivamente.
Questa sarà una condizione richiesta e necessaria come preparazione immediata all’adesione per avere la piena comunione.

Non si pensi però che alla Fraternità San Pio X fossero state risparmiate le forche caudine
dell’accettazione del Vaticano II e del Novus Ordo. Le cinque condizioni erano in realtà delle pre-condizioni per sedersi al tavolo.

Interrogato dai giornalisti francesi, il direttore della Sala Stampa vaticana, padre Lombardi precisava: «Il riconoscimento del Concilio Vaticano II come vero Concilio ecumenico della Chiesa e il riconoscimento della validità della Messa celebrata secondo la liturgia rinnovata dopo il Concilio non sono assolutamente messi in questione. I cinque punti citati da Tornielli - come del resto appare dal loro stesso tenore - riguardano le condizioni minime perché si possa avere un rapporto caratterizzato da rispetto e disponibilità nei confronti del Santo Padre e da uno spirito ecclesiale costruttivo».

Insomma a monsignor Fellay veniva rimproverato di fare il doppio gioco: sedersi al tavolo delle «trattative» col ramo d’ulivo in mano e rilasciare pubblicamente dichiarazioni di censura nei confronti del magistero papale.

Andrea Tornelli, un tempo ammesso con benevolenza ad Ecône e poi allontanato - pare - per «aver tradito» la fiducia dei lefebvriani, scriveva che «la Fraternità, e i suoi superiori, danno l’impressione di sentirsi… superiori allo stesso Pontefice, di giudicarlo dall’alto, come se la San Pio X fosse la ‘vera’ Chiesa e la ‘vera’ Roma, e la Chiesa cattolica guidata da Benedetto XVI fosse un gruppo separato che deve rientrare nella piena comunione con Econe e Menzingen. …. è la San Pio X - prosegue Tornelli - che deve tornare all’ovile dopo l’atto scismatico della consacrazione illecita dei vescovi fatta da Lefebvre, non è la Santa Sede a dover chiedere scusa ai lefebvriani».

La sensazione è che le rivelazioni esclusive di Tornelli fossero parte di una strategia preparata da monsignor Castrillon Hoyos, che riteneva evidentemente dopo il Motu Proprio propizio il momento di porre alla Fraternità un ultimatum non rifiutabile.

Ma la Fraternità non abboccava e non reagiva in maniera scomposta: dapprima lamentava la «pressione mediatica» prodotta dalle rivelazioni di Tornelli, poi monsignor Alfonso De Galarreta, (uno dei quattro vescovi della Fraternità San Pio X consacrati da monsignor Lefèbvre nel 1988 e attalmente Superiore del Distretto di Spagna e Portogallo) durante la Santa Messa per le ordinazioni sacerdotali della Fraternità a Ecône, il 27 giugno 2008 minimizzava l’ultimatum, precisando la necessità di un confronto dottrinale.

Seguivano due abili interviste di monsignor Fellay ed infine un comunicato ufficiale in cui si sottolineava che «il carattere molto generico, per non dire vago, delle esigenze formulate contrasta con l’urgenza di un ultimatum. Queste condizioni sembrano volte ad ottenere il clima favorevole ad un dialogo ulteriore piuttosto che ad ottenere degli impegni precisi su dei punti determinati. La Fraternità San Pio X auspica che questo dialogo si collochi su di un piano dottrinale e si faccia carico di tutte le questioni che, se fossero eluse, farebbero correre il rischio di rendere caduco uno statuto canonico precipitosamente assiso. Essa pensa che il ritiro del decreto di scomunica del 1988 agevolerebbe la serenità di un tale dialogo. La Fraternità San Pio X non ha la pretesa di esercitare un magistero superiore a quello del Santo Padre, né cerca di opporsi alla Chiesa. Sulla scia del suo Fondatore, essa intende trasmettere ciò che ha ricevuto, cioè ‘ciò che è stato creduto sempre, dappertutto e da tutti’. Fa sua la professione di fede che monsignor Marcel Lefebvre rivolgeva a Paolo VI, il 24 settembre 1975: ‘E’ al Suo Vicario che Gesù Cristo ha conferito il compito di confermare i fratelli nella fede e al quale chiede di vigilare affinché ogni Vescovo conservi fedelmente il deposito, secondo le parole di San Paolo a Timoteo’».

Da allora tutto tace o quasi, visto che la Fraternità ha rilanciato una crociata del Rosario in occasione del pellegrinaggio a Lourdes, per i centocinquant'anni delle apparizioni della Santa Vergine.

Abbiamo riassunto questa vicenda perché occorre dire una cosa: se davvero si vuole la riconciliazione con la Fraternità, occorrono allora delle pre-condizioni, che non possono essere però quelle dettate da monsignor Castrillon Hoyos.

Ritengo anzitutto che si debba evitare di richiedere una pubblica «auto da fè» quale premessa per il ritiro della scomunica. Nessuno può infatti dimenticare che la Fraternità crede integralmente a tutti i dogmi della Fede cattolica e quindi non ha abiure dottrinali da fare. E’ in base alla dottrina tradizionale che la Fraternità ha contestato le derive post-conciliari. La sua ribellione è stata la ribellione dell’obbedienza alla Tradizione: se il magistero petrino non fosse stato forzato dal massimalismo postconciliare e se la Tradizione non fosse stata calpestata, la Fraternità non avrebbe ravvisato uno stato di necessità, tale da indurla alle ordinazioni episcopali.

Lefebvre è stato scomunicato e la Fraternità dichiarata scismatica per avere preteso - attraverso ordinazioni valide, pur se illegittime - di conservare la possibilità di essere cattolici allo stesso modo in cui tutti fino al 1960 lo erano stati.

Anche la politica degli ultimatum rientra nella logica da abbandonare. Diciamolo: l’idea di imporre una scadenza il 30 giugno, data del ventennale delle ordinazioni dei vescovi da parte di Marcel Lefebvre, appare più dettata da una sorta di revanscismo «dello stivale», che da autentica sollecitudine pastorale.

Forse è giunto il momento che l’interlocutore unico della Fraternità non sia il medesimo che fin qui ha condotto le trattative e che - è ben comprensibile - non può  prescindere dal proprio passato.

In secondo luogo la Fraternità non può accettare che le si dica di rientrare e tacere, perché chiede di confrontarsi non in termini di potere ecclesiastico e di «agibilità interna», ma sulla Verità e sulla dottrina. Infatti è evidente che o si chiariscono le questioni dottrinali e di Magistero, o dal giorno successivo ripartirebbero le discussioni. Insomma la Fraternità non può accettare - né per sé, né per altri - di essere uno tra i «tanti» soggetti o movimenti spesso contraddittoriamente presenti nella Chiesa.

La Fraternità nega che possa esistere un supermarket della Cattolicità, in cui ad ognuno venga concesso di offrire la propria «linea di prodotto» spirituale, che i fedeli liberamente scelgono. Certo esistono carismi diversi, ma deve esistere un’unica dottrina per un’unica Fede: per intendersi, se il «teologo» Mancuso sta all’interno della Chiesa, non ci può stare monsignor Fellay.

E - confesso - neppure io. E ciò vale anche per tutti i seminari nei quali l’eresia viene propagandata come aggiornamento della Fede, mentre in moltissimi casi sono i dogmi della Fede che vengono ad essere sminuiti, quando non  irrisi.

Terzo: occorre proprio per questo che la disciplina ecclesiastica sia esercitata con equità ed imparzialità. Vorremmo che, dopo tanta severità usata ingiustamente verso i lefebvriani nei decenni passati, per aver celebrato il Santo Sacrificio della Messa ed aver insegnato la dottrina cattolica quale l’avevano imparata, venisse oggi usata giustamente verso tutti coloro che della Messa (celebrata col Novus Ordo) fanno scempio, praticando sistematicamente abusi, scandalizzando i fedeli e perdendo le anime.

Vorremmo sentire finalmente, dopo tanti, troppi documenti, lettere encicliche, esortazioni apostoliche, ammonizioni, richiami, deplorazioni che qualche vescovo è stato rimosso e qualche sacerdote «abusante» è stato sospeso «a Divinis».

Vorremmo che quei vescovi che impediscono la celebrazione della Santa Messa col Vetus Ordo incappassero almeno in qualche misura disciplinare e ci piacerebbe veder cessare l’impunità dei potenti e dei potentati all’interno della Chiesa, desiderando che i provvedimenti di rimozione dei vescovi ribelli fossero indirizzati verso gli eretici e non verso coloro che professano l’ortodossia.

Non faccio parte della Fraternità e non voglio qui farne il difensore d’ufficio: peraltro mi pare che sappiano benissimo difendersi da soli e non abbiano bisogno certo di me. Quello che mi domando è come sia possibile rimproverare alla Fraternità «la pretesa di un magistero superiore al Santo Padre» e tacere di fronte alle continue bacchettate che il cardinal Martini appioppa regolarmente al Papa!

Come è possibile rimanere in silenzio di fronte alle sottili, ambigue deviazioni dottrinali contenute nell’ultimo libro di Martini?

Come è possibile che egli critichi apertamente l’enciclica Humanae Vitae, invitando Roma ad ammettere i propri errori e la limitatezza delle proprie vedute di ieri, che elogi Martin Lutero, che si  si dichiari favorevole al sacerdozio femminile e che possa pretendere di ergersi a precursore del nuovo futuro Papa, a modello anzi del Papato e della Chiesa del futuro?

Come è possibile che faccia ciò impunemente senza che alcuno da Roma - non dico il Papa, ma uno straccio di cardinale qualsiasi - alzi la voce e lo inviti al silenzio e all’obbedienza?

Perché alla Fraternità, fedele alla Tradizione, si rimprovera «la pretesa di un magistero superiore al Santo Padre» e a Martini, che si presenta addirittura come «precursore» (un «Ante-papa», come dice lui) che indicherà vie nuove alla Chiesa, di rottura sempre maggiore con la Tradizione, non si dice nulla?

Si può pretendere seriamente che la Chiesa sia contemporaneamente quella di Martini e di monsignor Fellay?

Si può chiedere seriamente alla Fraternità di rientrare e di tacere in una Chiesa in cui dilaga l’errore, senza che nessuno vi ponga rimedio?

Si può chiedere - essendo il Concilio finito da oltre quarant’anni - che la Chiesa, vista l’inefficacia della medicina della misericordia nei confronti dell’errore, torni a quella della severità?

Oppure ha ragione Martini ad affermare che il suo modello di Chiesa è quello verso il quale essa si sta «dialetticamente» dirigendo e quindi si è complici di quell’errore?

Dunque, in nome della «ermeneutica della continuità», della interpretazione del Concilio Vaticano II alla luce della immutabile Tradizione della Chiesa, del rispetto della persona del Santo Padre, della salvaguardia della carità ecclesiale e della volontà di evitare posizioni dottrinali proprie in contrapposizione alla Chiesa, sarebbe logico avanzare qui la richiesta di scomunica nei confronti del cardinale Carlo Maria Martini, per avere egli sostenuto nei suoi scritti ed infine nel suo ultimo libro proposizioni inconciliabili coi dogmi della Fede cattolica.

Ma sarebbe fatica sprecata. Il corpo della Chiesa è troppo infiacchito per poter sostenere una medicina del genere: una larga fetta dell’episcopato, una consistente porzione di fedeli, spalleggiata dai media al gran completo (o quasi) insorgerebbe ed il risultato sarebbe opposta agli intendimenti, ammesso (e ne dubito) che la volontà del Papa sia quella di fare piazza pulita con la ramazza e il bastone: Ratzinger - lo ho già scritto - non ama le maniere forti.

Tuttavia mi ostino a credere che il Papa voglia davvero ripristinare in pieno la Verità nella Chiesa. Voglio credere davvero, come parecchie volte ho scritto, che Egli intenda - non potendo oggettivamente sconfessarlo - superare il Concilio, ma recuperando la pienezza del deposito della Fede: non posso pensare che Egli non creda a ciò che dice. E credo per Fede che Dio non voglia abbandonare il Suo gregge.

C’è una notizia che va nel senso di una prosecuzione di quell’«ermeneutica della continuità», alla luce della quale il Papa ha detto deve essere interpretato il Concilio e che in parte consentirebbe anche di superare lo stallo tra Fraternità e Santa sede: il Papa sa che con gli ultimatum non si va lontano e quindi anche qui cerca soluzioni che non obblighino nessuno a sconfessioni, ma superino i problemi lasciando le polemiche al passato.

La notizia è legata alla nomina del cardinale Canizares a capo della Congregazione per il Culto Divino, di cui è già membro e che preluderebbe ad una riorganizzazione profonda della Commissione Ecclesia Dei, istituita con il compito di collaborare con i vescovi, con i Dicasteri della Curia Romana e con gli ambienti interessati, allo scopo di facilitare la piena comunione ecclesiale dei sacerdoti, seminaristi, comunità o singoli religiosi e religiose legati alla santa Tradizione.

Secondo indiscrezioni il cardinale Castrillon Hoyos, presidente invece della Commissione Ecclesia Dei e che sta per raggiungere i limiti di età, cederebbe il posto all’attuale vice presidente Monsignor Camille Perl, nominato tale nello scorso marzo e amico personale del Papa: per lui sarebbe alle viste la nomina avescovo.

La Commissone Ecclesia Dei verrebbe quindi inserita nella Congregazione per il Culto Divino, con  competenza per la forma straordinaria del Rito Romano. In tal modo la forma straordinaria del Rito Romano (il Vetus Ordo, per intendersi) non sarebbe più oggetto di una struttura separata, ma di quella che ordinariamente si occupa di liturgia: la forma straordinaria, insomma, risulterebbe più chiaramente accomunata a quella ordinaria e ciò consentirebbe quel reciproco arricchimento tra le due forme auspicato dal Papa facilitando anche il cammino della «riforma della riforma».

La fondatezza di queste indiscrezioni troverebbero conferma nella pubblicazione il 10 gennaio scorso su  L’Osservatore Romano, di una recensione al volume «Vatican II. Renewal within Tradition» di Matthew L. Lamb & Matthew Levering, rispettivamente decano e professore della facoltà teologica dell’Università statunitense Ave Maria in Florida.

Non posso qui entrare nel merito del libro che non ho letto e che già è stato recensito negativamente da qualche ambiente tradizionalista, perché considerato come «fumo negli occhi» gettato ai fedeli per nascondere la Verità. Mi interessa invece evidenziare che, se il problema è costituito dal neomodernismo penetrato nella dottrina e nella prassi ecclesiale e di cui il Novus Ordo, in sé non eretico - come ammetteva anche lo stesso Lefebvre («Riguardo alla Messa del Novus Ordo, nonostante tutte le riserve che si debbono avere su di essa, non ho mai detto che sia per se stessa invalida o eretica) ma foriero di possibili eresie», allora una ermeneutica della «riforma» mi appare l’unica via ragionevolmente praticabile per uscire da un conflitto altrimenti insanabile. E la «riforma della riforma liturgica» un inizio necessario.

La sproporzione oggettiva «tra la diffusione della forma ordinaria e di quella straordinaria, aggravata dall’opera dei sostenitori del Vaticano II come rottura col passato, che assumono posizioni di contrasto con il Papa più o meno esplicite», rende comprensibile la scelta del Papa di operare «a partire dall’Altare» e da una «teologia della prassi liturgica», anziché da discussioni dottrinarie, che al momento sono destinate ad impantanarsi.

Mi pare - ripeto e senza nascondermi rischi ed aporie - una posizione realistica. Ed è allora comprensibile che, per creare un precedente di «riforma» cui appigliarsi, il Papa abbia deciso nei mesi scorsi di partire proprio dalla forma straordinaria, cioè dal Vetus Ordo, con la modifica della preghiera per gli ebrei e la scelta della lingua nazionale per le letture.

Nessuno potrà ora rimproverargli - anche argomentando a partire dal punto di vista post-conciliare - di agire unilateralmente, di voler mettere mano ora anche al Novus Ordo. Il punto di vista e la strategia di Benedetto XVI presuppongono che la riforma postconciliare debba essere compresa come novità nella continuità e che pertanto essa deve essere ancora compiuta.

Secondo il Papa il Concilio non è finito, perché va in realtà attuato, riformando ciò che è stato male riformato. E questo a partire dalla Messa. Su questo non si può che essere d’accordo. Non ci potrà essere alcuna ammenda degli errori, nessun ritorno alla ortodossia, nessun ripristino della sacra dottrina, se non partendo dall’altare: lex orandi, lex credendi.

E’ ciò che lascia intendere l’intervista pubblicata da Zenit a don Mauro Gagliardi, ordinario di Teologia presso l’Ateneo Pontificio «Regina Apostolorum» di Roma e consultore dell’Ufficio delle Celebrazioni Liturgiche del Sommo Pontefice, che, esaminando le reazioni al libro di monsignor Nicola Bux, scrive che l’obiettivo della riforma di Benedetto XVI «è quello di ‘giungere ad una riconciliazione interna nel seno della Chiesa’. Non si tratta  - afferma - solo di una riconciliazione con chi è ‘fuori’ della Chiesa, come formalmente sono (per ora) i lefebvriani; si tratta di una riconciliazione ‘interna’: quindi tra i cattolici. Perciò il punto debole della riforma postconciliare va individuato, come fa don Bux, non tanto nella riforma in sé (che pure presenta, come ogni cosa umana, aspetti migliorabili e altri persino da rivedere), quanto nel fatto di aver voluto presentare il Novus Ordo non solo come nuovo, ma come opposto all’Antiquior. E’ questo strappo alla continuità della Tradizione che ha causato e causa incomprensioni, polemiche e sofferenze. La riforma postconciliare deve essere compresa come novità nella continuità: solo questo permetterà di condurla in porto. Sì, perché - lo ripeto - essa non è affatto conclusa […]. Anch’io sono convinto che la formazione liturgica del popolo di Dio - pur doverosa e raccomandata come minimo dal Concilio di Trento in poi - non sia da sola sufficiente per favorire il vero spirito liturgico e il corretto stile adorante del culto cristiano. Il Concilio di Trento insegnò che ‘la natura umana è tale che non può facilmente elevarsi alla meditazione delle cose divine senza aiuti esterni: per questa ragione la Chiesa come pia madre ha stabilito alcuni riti [...] per rendere più evidente la maestà di un sacrificio così grande e introdurre le menti dei fedeli, con questi segni visibili della religione e della pietà, alla contemplazione delle sublimi realtà’ (DS 1746). Ciò vuol dire che le menti si elevano a Dio non solo attraverso la formazione, ma anche e soprattutto attraverso i segni visibili e sacri del culto divino, che proprio per questo vengono fissati dalla Chiesa […]. Il pieno recupero dell’Usus Antiquior per la celebrazione della Messa non va forse in questa direzione, sottolineando, come ha scritto il Papa, che ‘le due forme del rito possono arricchirsi a vicenda’?».

Insomma, contro i «neomodernisti» che difendono ideologicamente il Novus Ordo così come è ed è divenuto (né poteva non divenire e far divenire la Chiesa), la strategia del Papa, a partire dal principio «lex orandi lex credendi», sembra quella di obbligare i «riformatori post-conciliari» a pensare la riforma Bugnini, che diede vita al Messale di Paolo VI, come transitoria e la riforma della Liturgia voluta dal Concilio come ancora «in fieri», salvo - ove continuassero ad opporsi - assumere la veste di conservatori.

L’obiettivo è quello arrivare ad un nuovo «Rito romano», che superi il Messale di Paolo VI e Giovanni Paolo II e conservi quello di San Pio V (riformato da Giovanni XXIII e da ultimo dallo stesso Benedetto XVI) per quei movimenti o gruppi che lo chiedano come dispensa, ma obbligando tutti a riconoscere, tuttavia, come valido quello che sarà il «nuovo Rito» e ad accettare il Vetus Ordo, ove venga utilizzato per la celebrazione.

Peraltro in una lettera al dottor Heinz-Lothar Barth del 23 giugno 2003, che gli domandava se la Santa Sede «riammetterà l’antico rito ovunque e senza restrizioni», l’allora cardinale Ratzinger ammetteva essere «ancora troppo grande l’avversione di molti cattolici, insinuata in essi per molti anni, contro la liturgia tradizionale che con sdegno chiamano ‘pre-conciliare’. E si dovrebbe fare i conti con la considerevole resistenza da parte di molti vescovi contro una riammissione generale. Diverso è tuttavia pensare a una riammissione limitata. La stessa domanda verso l’antica liturgia è limitata. So che il suo valore, naturalmente, non dipende dalla domanda nei suoi confronti, ma la questione del numero di sacerdoti e laici interessati, ciononostante, gioca un certo ruolo. Oltre a ciò, una tale misura, a soli 30 anni dalla riforma liturgica di Paolo VI, può essere attuata solo per gradi. Qualunque ulteriore fretta non sarebbe di sicuro buona cosa. Credo tuttavia, che a lungo termine la Chiesa romana deve avere di nuovo un solo rito romano. L’esistenza di due riti ufficiali per i vescovi e per i preti è difficile da ‘gestire’ in pratica. Il rito romano del futuro dovrebbe essere uno solo, celebrato in latino o in vernacolo, ma completamente nella tradizione del rito che è stato tramandato. Esso potrebbe assumere qualche elemento nuovo che si è sperimentato valido, come le nuove feste, alcuni nuovi prefazi della Messa, un lezionario esteso - più scelta di prima, ma non troppa -, una ‘oratio fidelium’, cioè una litania fissa di intercessioni che segue gli Oremus prima dell’offertorio dove aveva prima la sua collocazione» (1).

La direzione indicata è dunque quella di un «nuovo rito romano-tridentino», con un lezionario più ampio e alcuni nuovi Prefazi, che partendo dal Vetus Ordo possa essere accettato anche dai gruppi cosiddetti «tradizionalisti» ed in particolare dalla Fraternità San Pio X, che potrebbe parteciparne alla stesura «ab externo».

Sul numero del 10 luglio dello scorso anno Panorama pubblicava un articolo firmato da Ignazio Ingrao e non smentito in sede ufficiale, secondo cui «Benedetto XVI avrebbe incaricato la Congregazione per il culto divino di studiare alcune modifiche alla liturgia. In particolare il Papa avrebbe intenzione di ripristinare il latino per la formula della consacrazione eucaristica nella messa in ‘lingua volgare’, cioè quella celebrata nelle diverse lingue nazionali. Lo stesso potrebbe accadere per le formule del battesimo, della cresima, della confessione e degli altri sacramenti. Inoltre lo scambio della pace tra i fedeli durante la Messa, che oggi avviene prima della distribuzione dell’Eucaristia, potrebbe essere anticipato (come nel rito ambrosiano) all’offertorio per non disturbare il raccoglimento che precede la comunione».

La «messa fuori legge» del vecchio rito neo-catecumenale, i cambiamenti alla Liturgia e ai paramenti sacri che il Papa, insieme al suo cerimoniere monsignor Guido Marini, ha compiuto in questi mesi per recuperare antiche tradizioni, il ripristino del crocifisso al centro dell’altare, la distribuzione della comunione ai fedeli in bocca e in ginocchio, il recupero del pastorale di Pio IX, il ripristino della foggia tradizionale del pallio, quello del trono papale utilizzato nel Concistoro, la celebrazione della Messa con le spalle all’assemblea, come avvenuto a gennaio 2008 nella Cappella Sistina, le celebrazioni sempre più frequenti in lingua latina sono indicatori (certo solo indicatori!) che vanno però tutti nella stessa direzione. L’affermazione di Ratzinger  contenuta nell’introduzione al libro di Marcello Pera, secondo cui un vero dialogo sulla religiosa di fondo «non è possibile senza mettere fra parentesi la propria fede», costituisce anch’essa una correzione progressiva rispetto allo «spirito di Assisi».

Ma torniamo alla Messa. Leggete con attenzione le righe che seguono:

«A tale scopo, secondo il mio umile parere sembrerebbe utile ritoccare in primo luogo i riti di questa prima parte della Messa e introdurre qualche traduzione in lingua parlata. Fare in modo che il sacerdote si accosti ai fedeli, comunichi con loro, preghi e canti con loro, si tenga pertanto all’ambone, legga nella loro lingua l’epistola e il Vangelo. Che il sacerdote canti con i fedeli il Kyrie, il Gloria e il credo nelle divine melodie tradizionali. Tutte riforme felici che restituiscono a questa parte della Messa il suo vero scopo. L’ordinamento di questa parte istruttiva si faccia anzitutto in funzione della messa cantata della domenica, in modo che questa messa sia il modello al quale adeguare i riti di altre messe […]. Ma gli argomenti in favore della Conservazione del latino nelle parti della messa che si svolgono all’altare sono tali da dover sperare che in un giorno prossimo saranno posti limiti all’invasione della lingua parlata in questo tesoro di unità, di universalità in questo mistero che nessuna lingua umana può esprimere e descrivere» (2).

Sono parole che monsignor Lefebvre pronunziò allorquando, durante l’assise conciliare, era in discussione quella riforma liturgica, che poi sciaguratamente condusse al Novus Ordo. E’ bene rammentare, infatti, che un dibattito circa una riforma della Liturgia precedette di molto il Concilio e non è àmbito che deve essere lasciato come monopolio ai neomodernisti, arroccandosi in una posizione di pregiudiziale rifiuto.

L’«actuosa partecipatio» di cui si riempiono la bocca i «novatori», fu lo slogan di cui essi si impossessarono durante e dopo il Concilio, pervertendone il senso, ma non fu una «invenzione» loro: essa fu preoccupazione eminente anzitutto di Papa Pio X, come ha ricordato di recente il cardinale Dario Castrillon Hoyos (3) e come monsignor Lefebvre, ovviamente, sapeva bene.

Domenico Savino



1) http://www.unavox.it/Documenti/doc0182_Ratzinger_VO.htm
2) monsignor Lefebvre, «Un Vescovo parla», Rusconi, 1975, pagina 58.
3) Introduzione alla nuova edizione del «Messale ordinario tradizionale italiano - latino», Edizioni Fede & Cultura.


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