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Verso la Russia, Turchia meglio che UE
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Ankara raggela i rapporti con Israele (1), e contemporaneamente riscalda quelli con la Russia. Giovedì scorso le due nazioni hanno firmato una dichiarazione congiunta che le impegna ad approfondire la relazioni di amicizia e migliorare la cooperazione reciproca.

Il documento è stato firmato dal presidente turco Abdullah Gul durante una visita di quattro giorni a Mosca cui hanno partecipato i ministri turchi per il commercio estero e per l’energia, oltra a una nutrita delegazione di imprenditori. Il ministro turco degli Esteri, Ali Babacan, ha raggiunto il gruppo poco dopo da Riga, dov’era in visita ufficiale (2).

Fatto significativo, quella che era stata dapprima definita «visita ufficiale» è stata poi ridefinita «visita di Stato» su richiesta di Mosca; Gul è stato il primo presidente turco ad aver mai fatto una visita alla Russia.

«Turchia e Russia», ha detto il presidente Medvedev, «stanno facendo molto per mantenere la sicurezza della regione del Mar Nero e del Caucaso in generale. Contiamo sulla cooperazione strategica della Turchia in questo ambito; entrambe le nostre nazioni vi sono interessate». Gul ha risposto: «Sono sicuro che la visita alla Russia diverrà un punto di svolta che porterà le nostre relazioni a un nuovo e più alto livello».

Come fanno intuire le parole di Medvedev, il governo islamista-moderato di Ankara sta cogliendo i frutti del suo atteggiamento durante la disastrosa guerricciola innescata dalla Georgia l’agosto scorso.

Contrariamente agli europei servili a Washington, la Turchia (potente membro della NATO) non s’è affreettata a condannare la Russia attribuendole la responsabilità dell’aggressione (e come s’è dovuto ammettere settimane dopo, l'aggressore era la Georgia). Inoltre, facendo valere la Convenzione di Montreux del 1936, ha in quei giorni vietato il passaggio nello stretto del Bosforo a navi americane che andavano a sostenere il satellite georgiano con carichi d’armi, e nell’intento di provocare un confronto militare con Mosca. Un atto che la Russia ha molto apprezzato.

Ali Babacan, ministro degli Esteri, ha sottolineato la nuova posizione turca a proposito della volontà USA di installare missili antimissile in Europa centrale: «La parola-chiave è cooperazione», ha detto; «Una strategia di provocazione verso la Russia non porta nulla di buono e produce situazioni dove non vince nessuno».

Vladimir Putin, allora presidente, ha visitato Ankara nel dicembre 2004: la prima visita presidenziale in Turchia dal 1972 (il presidente era allora Podgorny, dell’URSS). Nel 2004 Putin firmò una «Dichiarazione congiunta per l’intensificazione dell’amicizia e la partnership multidimensionale», di cui l’impegno congiunto ultimo è il perfezionamento.

La Russia è un partner economico di primo piano per Ankara (l’interscambio ammonta a 38 miliardi di dollari). La Turchia dipende dalla Russia per il rifornimento energetico, ma è anche una via di transito importante per le esportazioni energetiche russe. D’altra parte, la Russia è il maggior mercato per le imprese di costruzione turche, e milioni di turisti russi vanno in vacanza sulle coste mediterranee della Turchia.

Ma le convergenze politiche sono diventate più rilevanti che mai, dati i comuni e riconosciuti interessi in Asia centrale e nel Caucaso. E’ notevole con quanta elastica prontezza il governo di Ankara (dopo essere stato per mezzo secolo il bastione della NATO contro l’Unione Sovietica) abbia preso atto della nuova situazione creata dalla penetrazione americana in centro-Asia, e dall’aggressività di Israele, e ne stia traendo le conseguenze.

Diversi osservatori attribuiscono a Gul e ad Erdogan un disegno politico «neo-ottomano»; certo è che il governo si muove con spirito d’indipendenza e con una libertà ignota a noi europei (3).

I capi dei 27 Stati dell’Unione Europea, quegli stessi che non riescono a trovare un minimo accordo di fronte comune su come affrontare la grande depressione, il 12 dicembre scorso sono stati unanimi nell’eseguire l’ultimo ordine americano: hanno votato e approvato una iniziativa chiama «Eastern Partnership» (4).

Si tratta di un programma – escogitato dalla Polonia e sostenuto dalla Svezia il 26 maggio 2008 a Bruxelles – per «integrare» tutte le nazioni ex-sovietiche non ancora membri della UE o della NATO, ossia Armenia, Azerbaijan, Bielorussia, Georgia, Moldavia e Ucraina. La Russia, ovviamente, esclusa.

Sono, come si vede, metà delle ex-repubbliche sovietiche della «Comunità di Stati indipendenti» (CIS), che Mosca riuscì a legare in qualche modo quando l’URSS si spaccò. Adesso, la «Eastern Partnership» vuole una maggiore integrazione di questi Stati nell’economia europea, «facilitazioni dei viaggi dei loro cittadini nella UE» (i leghisti sono pregati di dire qualcosa: si prospetta una profluvie di immigrati armeni, georgiani e bielorussi) ma soprattutto «aumento della sicurezza energetica» e «un più alto livello di impegno politico».

L’intento nemmeno nascosto è di isolare la Russia da sei degli Stati del CIS, mentre gli altri cinque in Asia (Kazakstan, Kirghizistan, Tajikistan, Turkmenistan e Uzbekistan) sono i bersagli di un’altra iniziativa della UE del tutto simile. Per tutti, si tratta di spezzare i loro legami economici, storici, politici e militari con Mosca per immetterli nella «struttura euro-atlantica», secondo il progetto che Zbig Brzezinski, consigliere di Obama, ha delineato nel «The Grand Chessboard»: ridurre la Russia a «media potenza asiatica», isolandola fisicamente dall’Europa con Stati-satelliti cuscinetto.

La repubblica ceka, nel suo semestre di presidenza europea, ha già espresso la decisione di completare il progetto. Come ha scritto il Telegraph, «La repubblica Ceka, primo Paese dell’ex Patto di Varsavia ad avere la presidenza, ha fatto sua priorità uno schema per stringere legami più forti con gli Stati ex-sovietici, senza riguardo delle preoccupazioni russe di usurpazioni sotto i suoi confini».

Il ministro degli Esteri ceko, Karol Schwarzenberg (uno dei più fanatici fautori dello scudo antimissile americano in Cekia) «ha messo in chiaro che le relazioni della UE con gli Stati ex-sovietici sono affari loro, e che la Russia non deve interferire» (Telegraph, 30 dicembre 2008).

Schwarzenberg ha aggiunto provocatoriamente che la Russia deve abbandonare ogni illusione di «avere all’estero interessi privilegiati», altrimenti «sarà stabilita una linea rossa oltre la quale la UE non deve fare concessioni»: così ha riportato esultante l’agenzia georgiana (leggi: americana) «Black Sea Press» il 30 dicembre 2009.

Sicchè un paesetto come la Cekia, ultimo arrivato in Europa, ci mette in rotta di collisione con Mosca, il nostro principale e più stabile fornitore energetico.

Ovviamente non agisce da sè: dietro ci sono il ministro degli Esteri francese Kouchner (ebreo) e quello inglese David Miliband (ebreo). Che devono vendicare Israele, che ha armato e addestrato la forza militare della Georgia, dal fiasco inflittole dai russi.

Del resto il sito web della Commissione Europea  (quel «governo» che non votiamo, e che non è soggetto ad alcunn controllo parlamentare) riporta ben chiaro quanto segue:
«La regione del Mar Nero, che include Bulgaria e Romania, occupa una posizione strategica tra Europa, Asia Centrale e Medio Oriente. L’Unione europea intende sostenere impegni regionali tesi ad accrescere la mutua fiducia e a rimuovere gli ostacoli alla stabilità, sicurezza, prosperità dei Paesi in questa regione. La “Sinergia del Mar Nero” è un’iniziativa di cooperazione (che intende) valorizzare iniziative in aree di comune interesse e stringere più forti relazioni con i Paesi e le regioni vicine – Mar Caspio, Asia centrale, Europa sud-orientale. (...) La Commissione chiede un ruolo più attivo nei conflitti congelati (Transistria, Abkhazia, Sud-Ossetia, Nagorno-Karabak)».
Insomma la Commissione da nessuno votata vuole intrufolarsi, e trascinarci tutti, nei conflitti irrisolti e più roventi in cui Mosca ha un legittimo interesse, non ultimo per il motivo di proteggere le popolazioni russofone di quelle zone. Il tutto allo scopo dichiarato di «diversificare le rotte energetiche, aiutando le nazioni ex-sovietiche a costruire nuove e meglio collegate pipelines e impianti di magazzinaggio di greggio e gas. La UE vuole un gasdotto che dal Caucaso lasci completamente fuori la Russia» (Associated Press, 30 novembre 2008).

Molto chiaro. La cosiddetta «Europa», all’insaputa dei cittadini europei, vuole aiutare la Georgia a prendersi la rivincita.

Lo dice la citazione dei conflitti «congelati»: Abkhazia e Sud Ossetia sono i territori che la Georgia ha tentato di prendersi con la forza; il Nagorno-Karabakh lo vuole l’Azerbaijan, e l’Europa gli promette un aiuto; così come alla Moldavia, che aspira a incamerarsi la Transnistria. E infatti la Eastern Partnership è «stata accelerata in parte a causa del conflitto dell’estate 2008 nel Caucaso» (così il notiziario bulgaro in inglese – leggi CIA – «Sofia Echo», 3 dicembre 2008).

E’ ovvio che nessuna di queste mene e trame è nell’interesse di noi europei. E’ un progetto completamente americano, la continuazione con altri mezzi delle «rivoluzioni colorate» pagate dalla CIA, alcune delle quali – la sanguinosa «rivoluzione dei narcisi» tentata in Armenia un anno fa, e la «rivoluzione in jeans»  fallita in Bielorussia due anni orsono – non sono riuscite.

Le «rivoluzioni» riuscite secondo i desideri di Washington sono oggi riunite nel GUAM (Georgia, Ucraina, Azerbaijan e Moldavia) creato dall’amministrazione Clinton (dall’ebrea Madeleine Albright) nel 1997 per sottrarre quei Paesi all’influenza di Mosca e renderli satelliti degli interessi USA. Come ha detto il vicesegretario di Stato David Merkel (guarda caso, un ebreo americano con il cognome della cancelliera), «GUAM unisce le regioni del Caspio e del Mar Nero e può adempiere alla funzione di collegare l’Asia centrale con il Medio Oriente» (Georgian Public Broadcasting – Cia – 1 luglio 2008).

Qui, per «Medio Oriente» si deve leggere «Israele». Tutto il senso del progetto consiste nell’avviare il petrolio e il gas del Caspio, scavalcando la Russia, verso il Mediterraneo e da qui ad Ashkelon, porto petrolifero di Sion; da Askhelon poi le forniture saranno avviate al terminale del Mar Rosso. In modo che, oltre che assicurarsi le forniture per il suo fabbisogno interno, il Quarto Reich israeliano diventi il fornitore di transito privilegiato per l’estremo oriente: la via progettata infatti scavalca sia il canale di Suez (che danneggerà l’Egitto) e il Golfo Persico (contro l’Iran, ma anche contro i sauditi e gli emirati petroliferi, a cui sarebbe sottratto un notevole business). Il tutto, consentendo a Israele di lucrare le ricche royalty di passaggio.

Ci si può chiedere: che fine ha fatto il «cambiamento di tono» verso la Russia tanto annunciato e proclamato da Barak Obama?

Il cambiamento è, appunto, solo di tono. Nei fatti, si persegue la politica di Bush, o meglio quella voluta da Israele. Nei fatti, la presidenza Obama offre di «rallentare» (sic) l’installazione dei missili antimissile in Europa (quelli da piazzare in Polonia, con il radar di guida e intercezione in Cekia) che tanto allarmano Mosca, se in cambio Mosca «collabora a dissuadere l’Iran dal perseguire la capacità di armamento nucleare» (5).

Insomma gli us-raeliani vogliono che Mosca tolga l’appoggio politico e l’assistenza tecnica nucleare a Teheran, e in cambio loro «rallenteranno», forse, l’installazione dei missili che minacciano la Russia, accelerando invece le trame anti-russe attraverso la Commissione Europea.

Cosa pensino al Cremlino di questa generosissima offerta, l’ha dichiarato il vice-ministro degli Esteri Aleksei Borodavkin in un’intervista esclusiva all’agenzia iraniana IRNA: «Il Cremlino non vede il motivo di cambiare la sua politica verso l’Iran», ha detto asciutto, e con ciò danneggiare la collaborazione «sempre migliore» con Teheran, sul piano economico, industriale, tecnico e nucleare.

«Nessuna persona sensata crede alla favola della minaccia missilistica iraniana», ha rincarato Dmitri Rogozin, ambasciatore russo presso la NATO, «e che è necessaria una stazione di missili intercettori sul Baltico, a migliaia di chilometri da Teheran».

L’eurocrazia continua a spingerci nella rotta di collisione – che può farsi molto pericolosa, e trasformare la guerra fredda in «calda» nelle zone dei conflitti congelati – voluta da Washington; una strada che solo la Turchia sembra intenzionata ad evitare.

C’è solo da rimpiangere che questa Turchia non sia in Europa, e ci sia invece la Polonia. Si ha voglia di dire: dentro Erdogan il neo-ottomano, fuori Solana e Barroso i maggiordomi israeliani.



1) «Ankara esige "urgenti chiarimenti" riguardo alle dichiarazioni del generale Avi Mizrahi, comandante delle forze di terra israeliane, giudicate "inaccettabili" in quanto contenenti "giudizi e idiozie sul nostro primo ministro e il nostro Paese", è scritto in un comunicato del ministero. Ieri alcuni media turchi avevano riferito che il generale Mizrahi, rispondendo alle critiche di alti esponenti turchi sull'operazione 'Piombo fuso' contro Gaza, aveva dichiarato che il primo ministro Recep Tayyp Erdogan dovrebbe "prima spazzare davanti alla propria porta", con una chiara allusione ai massacri degli armeni sotto l'impero ottomano, alla repressione contro i curdi e all'occupazione di Cipro. In un comunicato pubblicato in serata, l'esercito israeliano ha tuttavia gettato acqua sul fuoco, assicurando che le affermazioni del generale Mizrahi non rispecchiano la posizione ufficiale delle forze armate. Il 29 gennaio, durante il Forum economico mondiale di Davos, Erdogan ha apertamente e duramente contestato Israele - con il quale la Turchia è legata da un accordo militare - abbandonando un dibattito pubblico sul conflitto di Gaza al quale assisteva il presidente israeliano Shimon Peres. Oggi, in un'intervista alla Reuters - il premier turco è tornato a criticare lo Stato ebraico, dicendosi  "rattristato" per il risultato delle elezioni di martedì, che mostra un'avanzata delle destre. "Sfortunatamente, da queste elezioni è uscito un quadro molto cupo", ha detto. (Swisscom, 14 febbraio 2009).
2) «Russia, Turkey declare new era with ‘strategic’ document», Today’s Zaman, 14 febbraio 2009.
3) Come ricompensa per il suo servilismo, Toni Blair è stato insignito del premio Dan David a Tel Aviv (con una borsa di un milioncino di dollari) «per la sua leadership accezionale e assoluta determinazione nel forgiare durevoli soluzioni nelle aree di conflitto». Non occorre ricordare che Blair è oggi capo del cosiddetto «Quartetto», che dovrebbe indurre Israele a qualche accordo con i palestinesi su Gaza. La sua «determinazione» è comprovata dai risultati. Toni Blair è il candidato a diventare presidente permanente dell’Unione Europea. Candidato non certo dagli europei, ma dai gestori del premio Dan David a Tel Aviv.
4) Rick Rozoff, «Eastern Partnership: The West's Final Assault On the Former Soviet Union», GlobalResearch, 13 febbraio 2009.
5) «US proposal pops no eyes out in Russia», PressTv, 15 febbraio 2009.


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