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Un Papa e sua figlia (parte I)
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Premessa

Ci segnalano che di recente su Sky è stato trasmesso uno sceneggiato, di produzione inglese, su Papa Borgia e la Chiesa del primo cinquecento. Inutile dire che – stando a quanto ci hanno riferito – la figura di Alessandro VI e della Chiesa rinascimentale ne escono in modo da sembrare rispettivamente Totò Riina ed il suo clan mafioso.

L’apologetica, tuttavia, non deve servire a invertire in senso diametralmente contrario rappresentazioni faziose, come quella in questione, perché opporre una leggenda rosa alla leggenda nera non solo non serve dal punto di vista storico, in quanto sia l’una che l’altra leggenda sono storicamente false, ma sarebbe un errore anche dal punto di vista teologico. Noi cattolici sappiano benissimo di non essere migliori degli altri e che non da noi, dalle nostre debolezze o presunte fermezze, dipendono la Verità della Fede e la Santità della Chiesa. Se così fosse, la Chiesa sarebbe ormai da secoli un ricordo antico, quello di una organizzazione umana come tante altre sono apparse e scomparse nella storia universale.

«Unaltra parabola espose loro così: ‘Il Regno dei Cieli si può paragonare ad un uomo che ha seminato del buon seme nel suo campo. Ma mentre tutti dormivano venne il suo nemico, seminò zizzania in mezzo al grano e se ne andò. Quando poi la messe fiorì e fece frutto, ecco apparve anche la zizzania. Allora i servi andarono dal padrone di casa e gli dissero: Padrone, non hai seminato del buon seme nel tuo campo? Da dove viene dunque la zizzania? Ed egli rispose loro: Un nemico ha fatto questo. E i servi gli dissero: vuoi dunque che andiamo a raccoglierla? No, rispose, perché non succeda che, cogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche il grano. Lasciate che luna e laltra crescano insieme fino alla mietitura e al momento della mietitura dirò ai mietitori: Cogliete prima la zizzania e legatela in fastelli per bruciarla; il grano invece riponetelo nel mio granaio’» (Matteo 13, 24-30).

Questo passo evangelico è la chiave per comprendere l’intera, in apparenza contraddittoria, storia della Chiesa che non si potrebbe capire astraendola dalla Sua essenza. Essa, infatti, è Santa perché costituita dalla e della Santità di Cristo ma raduna e si compone di uomini deboli e peccatori dei quali alcuni riescono, tra mille difficoltà, a santificarsi e quindi a dare spazio nella loro vita alla Luce della Santità costitutiva della Chiesa ed altri, invece, non riuscendovi o addirittura non aspirandovi affatto, spesso infangano il Volto della Chiesa, che è il Volto di Cristo, senza però poterne intaccare l’essenziale Santità.

Probabilmente è allo stesso film, che lo scrivente non ha visto e che, come detto, gli hanno segnalato, che si riferisce lo storico Franco Cardini in una recensione della quale citiamo il passaggio fondamentale perché si tratta di una inappellabile stroncatura storica dell’improvvisazione con la quale libellisti e registi di quart’ordine affrontano questioni di storia della Chiesa.

«Alla saga dei Borgia – scrive dunque Cardini – un pur valente stu­dioso tedesco dellOttocento, Ferdinand Gregorovius, tentò di applicare una ma­schera scandalistica scrivendo un ca­polavoro di pamphlet storico, ‘Lucrezia Borgia’, Newton & Compton, che costi­tuisce uno dei best seller della leggen­da nera sul Papato corrotto. Ci riuscì. Da allora, il cognome Borgia (facile la ri­ma con orgia’) è uno dei più esecrati da tutti gli studiosi da strapazzo e dagli sto­rici della domenica in vena di afferma­zioni anticlericali. E non scherza nemmeno Juan Antonio Cebriàn, giornalista e divulgatore di suc­cesso, il quale ha da pochi mesi pubbli­cato, per Ediciones Temas de Hoy, un a­gile libro, ‘Los Borgia. Historia de una ambiciòn’, che sembra ignorare il testo del Gregorovius (ma ha tenuto conto di uno di Roberto Gervaso e di uno di Ma­rio Puzo) e che a modo suo è quasi geniale: risulta difficile riunire tutte le ba­nalità dello sciocchezzaio anticattolico travestito da denunzia moralistica. Le bugie avranno le gambe corte, ma quando si tratta di dir male del Papa (sia pure dopo mezzo millennio) fanno al­quanta strada. Il libretto del Cebriàn e­ra già un perfettocopione cinemato­grafico: anzi, forse è stato scritto fin da principio con questo fine. E, puntuale, è arrivato il film, che per la verità si ba­sa quasi solo sul libro di Mario Puzo (per il quale i Borgia furono la prima gran­de famiglia del crimine, quasi i tri­snonni del Padrino). Prodotto dalla TV pubblica spagnola Antenna3’, diretto da Antonio Hernán­dez, con costumi sontuosi, spesso a ri­sparmio e non sempre filologicamen­te inappuntabili. La pellicola sta imper­versando sugli schermi dEuropa: pub­blicizzata con la formula Ambición, Pa­sión, Podere basata sul solito trio san­gue-morbo-sesso, mobilita divi della moda e del piccolo schermo per una versione iberica del Kulturkampf contro la Chiesa. Un pol­pettone pseudosto­rico su amori, ince­sti, crudeltà e delitti allombra di Papa Borgia. Nulla trape­la dal film di Hernández su quisquilie come il fatto che ormai, su Alessandro VI, il giudizio degli storici è alquanto mutato dai beati tempi del Gregorovius. Ne sono testimoni i molti convegni e i bei volumi pubblicati a cura dellIstitu­to Storico Italiano per il Medio Evo, la più autorevole istituzione pubblica italiana sugli studi medievistici, e il cui direttore Massimo Miglio – un celebre studio­so, insospettabile di simpatie clericali’ – è un serio estimatore del grande pon­tefice. (…) prevale il taglio morboso in questo mattone di quasi due ore e mezzo che un critico spagnolo ha qualificato come insufriblemente soporíferasaccom­pagnato da una colonna sonora am­pollosa. Non sappiamo quando il film arriverà in Italia, col solito codazzo di polemiche riciclate, il déja vu di tempe­stosi talkshow a colpi di bignamesche reminiscenze. Ma per piacere, che non si ripetano tormentoni alla Dan Brown» (1).

O, aggiungiamo noi, alla Ipazia di Amenabar.

Papa Borgia e la Chiesa del suo tempo


Ma chi era Papa Borgia
?

Rodrigo Llanςol Borgia, il futuro Alessandro VI, nacque a Xàtiva in Valenza il 1° gennaio 1431 e morì a Roma il 18 agosto 1503. Fu eletto al soglio di Pietro nel fatidico 1492, anno della scoperta dell’America. Succedeva a Innocenzo VIII, un Pontefice altrettanto mondano e come lui di numerosa prole ma, a differenza di lui, responsabile del dissesto finanziario della Curia romana mal governata da figli e nipoti diventati amministratori dei beni materiali della Chiesa secondo quella pratica, usuale del tempo, detta nepotismo e che si spiega con la logica parentale che regolava, in età premoderna, tutti i rapporti sociali: non solo quelli curiali ma anche si badi quelli civili, dunque laici. Sicché attribuire a certi Papi, o alla Chiesa, la paternità della pratica nepotista non è storicamente esatto trattandosi, invece, di un costume fortemente connesso con la mentalità e le relazioni sociali di quei tempi. Piuttosto, si potrebbe dire che se colpa vi è stata si tratta di quella del non aver saputo prendere le distanze da quella mentalità.

Sentiamo ancora Cardini:

«La nobile famiglia valenciana dei Borja, italianizzata in Borgia, ha fornito alla Chiesa due Papi tra il Quattro e il Cinquecento: Alfonso, dive­nuto Callisto III (1455-1458) e Rodrigo, poi Alessandro VI (1492-1503). Lo Spiri­to soffia dove vuole: e i cattolici, i quali credono nel Suo intervento nei concla­vi, non si lasceranno disorientare più di tanto dinanzi al fatto che nel fatidico 1492 – annus mirabilis et terribilis: la caduta di Granada, la morte del magni­fico Lorenzo, la scoperta del Nuovo Mondo – i cardinali orientassero il loro voto sul nipote preferito di Papa Calli­sto, quel Rodrigo addottoratosi brillan­temente in diritto canonico nellUni­versità di Bologna e dal 1456 cardinale. Uomo duro, astuto, amante dei piaceri e privo di scrupoli, Rodrigo era un poli­tico e un diplomatico abilissimo. Padre di dieci figli, famoso per i suoi legami a­morosi con Vannozza Cattanei e poi con Giulia Farnese, dopo la sua ascesa al so­glio pontificio favorì – appoggiandosi al regno dAragona e al ducato di Milano prima, al re di Francia poi – le mire di Cesare, quello spregiudicato di suo figlio che, facendo leva sul suo ruolo di gon­faloniere della Chiesa’ (una specie di governatore generale dello Stato ponti­ficio) mirava in realtà molto più in alto. Quella dei Borgia è una storia di potere, violenza e ferocia, ma anche di sottile politica. Certo, la morte di Papa Ales­sandro e lascesa al soglio pontificio del suo più acerrimo nemico, Giulio II, se­gnò la fine della meteora di Cesare – che aveva affascinato Niccolò Machiavelli – e ne affrettò la rovina fino alla morte in battaglia, in Navarra, nel 1507. La sua (troppo) chiacchierata sorella Lucrezia, duchessa di Ferrara, gli sopravvisse fino al 1519 votata alle pratiche religiose. Suo figlio Ippolito dEste sarebbe stato uno dei più fastosi mecenati dellItalia rina­scimentale, mentre il grandissimo San Francesco de Borja sarebbe stato il ter­zo generale della Compagnia di Gesù. (…). (Papa Borgia)… fu senza dubbio uomo del suo tempo, con tutto il peso morale che ciò può comportare: e peccatore fin che volete. Ma fu anche un Papa straor­dinario: avviò la riforma degli Ordini re­ligiosi, mostrando di aver compreso be­ne i mali della Chiesa del tempo (quelli che avrebbero condotto alla rivolta di Lutero); sistemò la contesa ispano-por­toghese dopo la scoperta del Nuovo Mondo, imponendosi per una versione equilibrata del problema. Fu uno stati­sta accorto che, riordinando lammini­strazione, le finanze e listituzione del­lo Stato della Chiesa e ponendo fine a molti abusi, fornì un contributo decisi­vo allaprirsi delletà moderna; simpo­ne alla gratitudine di chiunque apprezzi larte come genero­so mecenate; dette, da competente ca­nonista, un energi­co impulso agli stu­di di diritto canoni­co, necessario per il riordino della gerar­chia; fu paziente perfino dinanzi agli attacchi di Gerolamo Savonarola, che infatti fu vittima degli odi delle fazioni fiorentine più e prima che della sua vo­lontà» (2).

Per quanto possa sembrare incredibile, Alessandro VI, che non nascondeva affatto la sua vita peccaminosa, fu anche un altrettanto fermo difensore del depositum fidei. Ed in questo adempì pienamente, anche se non santamente, il suo dovere di Pontefice.

Scrive, in proposito, sebbene con un giudizio severo dalla successiva storiografia parzialmente attenuato, il grande storico del Papato, Ludwig von Pastor:

«Precisamente dal punto di vista cattolico non si può condannare abbastanza severamente Alessandro VI, come del resto han già fatto un Egidio da Viterbo al tempo di Leone X e più tardi annalisti della Chiesa, Raynald e Mansi. Il compito di un Papa di quel tempo era appunto di opporsi alla mondanità; a quella fiumana di corruzione che savanzava impetuosa; ma Alessandro VI vide la sua vocazione nel provvedere alla propria famiglia come un principe terreno alla sua dinastia. Anche quando lassassinio del suo diletto figlio, il duca di Gandia, gli fece rammentare in modo terribile la sua vera vocazione, il pentimento non fu che di breve durata e tosto egli tornò a vivere del tutto alla foggia dei princìpi scostumati dellepoca sua. Linfelice cadde sempre più in balìa del terribile Cesare e prese parte ai suoi misfatti. Così egli, che doveva tener locchio vigile al suo tempo, salvando quel che era da salvare, ha contribuito più di qualunque altro a che potentemente crescesse nella Chiesa la corruttela. La vita di questo gaudente duna sensualità indomita fu in tutto in opposizione alle esigenze di Chi egli doveva rappresentare sulla terra. Con tutta disinvoltura egli si abbandonò finché visse ad una condotta viziosa. Ma, cosa singolare, il modo con cui Alessandro VI amministrò glinteressi puramente ecclesiastici non ha dato appiglio ad alcun biasimo fondato e nemmeno i suoi più accaniti avversari hanno potuto formulare sotto questo riguardo alcuna accusa speciale. La purezza della dottrina della Chiesa rimase intatta, quasi che la Provvidenza abbia voluto mostrare, che gli uomini possono bensì recar danno alla Chiesa, ma non distruggerla» (3).

Egli fu Papa in un momento nel quale il livello di moralità nella Chiesa era al minimo storico a seguito dei grandi sbandamenti che Essa aveva subito nel corso del XV secolo. La Chiesa, quando il Borgia diventò Papa, aveva da poco ritrovato la sua unità dopo lo scisma di Occidente (1378-1417) che vide contendersi il soglio di Pietro da ben tre papi, legittimamente eletti secondo le regole canoniche e che, tuttavia, si erano reciprocamente scomunicati. Fu necessario imporre a tutti e tre i Papi contendenti un passo indietro affinché si potesse eleggere, finalmente, dopo quasi quaranta anni, un nuovo Pontefice universalmente riconosciuto. Lo scisma d’Occidente, la cui origine è da far risalire al decentramento avignonese della sede petrina e quindi all’intromissione del potere politico nel governo ecclesiale, fu il risultato del venir meno dell’universalismo medioevale, del profilarsi del nazionalismo ecclesiale che sarebbe esploso nel XVI secolo, del diffondersi in seno alla Chiesa delle tendenze conciliariste che miravano a dichiarare il Concilio l’autorità somma nella Chiesa anche al di sopra del Papa. Infatti nel tentativo di ricomporre lo scisma si convocarono due concili: il primo a Pisa nel 1409 durante il quale, in opposizione a Benedetto XIII e Gregorio XII, i due Papi contendenti, fu eletto Alessandro V, il terzo dei contendenti; il secondo fu convocato a Costanza dal 1414 al 1417 e si concluse con l’elezione, ad unico Papa, di Martino V, al secolo cardinale Oddone Colonna, che si dimostrò buon Pontefice pur non riuscendo a riformare fino in fondo la Chiesa. Dal momento che lo scisma era stato superato per via conciliare, Papa Martino V dovette giungere ad un compromesso con le tendenze che volevano la superiorità del Concilio sul Papa pur senza deporre il primato di Pietro. Le tendenze conciliariste ricomparvero, poi, nel breve e pseudo scisma di Basilea del 1439 e nella rivolta hussita che anticipava molti temi luterani.

Nonostante la ricomposizione dello scisma, la Chiesa dunque dimostrava tutta la sua debolezza sia dal punto di vista dottrinario che morale in una età, quella umanistica, nella quale tornava a farsi vivo un paganesimo in salsa neo-platonica che rigettava la grande sintesi tra Fede biblica e cultura ellenistica, ossia tra fides et ratio, elaborata dalla Patristica e perfezionata dalla Scolastica. Il calo di tensione dottrinaria e morale stava preparando il terreno all’esplodere della rivolta luterana la cui radice spirituale, lungi dall’essere paolina o agostiniana, è neo-gnostica, come ha dimostrato uno studioso del calibro di Theobald Beer (4). Una rivolta che fece leva sul bassissimo profilo morale degli ecclesiastici del tempo, ma strumentalmente, dal momento che il fine di Lutero non era quello, proprio dei santi, di riformare la Chiesa, ossia riportarla nella continuità alla santità, ma di distruggerla quale Corpo Mistico di Cristo. Lutero vedeva, infatti, nella Chiesa visibile, e nel Papa, l’Anticristo ed approfittava dello spettacolo miserevole che dava di sé la gerarchia del tempo per accreditare tale sua posizione ereticale.

Solo con il Concilio di Trento (1545-1563) si riuscirà ad avviare, pienamente, quella Riforma Cattolica che il buon Martino V aveva provato inutilmente ad iniziare.

Dunque il Pontificato di Alessandro VI (1492-1503) si iscrive del tutto in questo periodo di gestazione della rivolta luterana e della Riforma Cattolica Tridentina. Forse Papa Borgia non comprese, come non capì neanche Leone X, il Pontefice sotto il cui Pontificato scoppiò la ribellione di Lutero, quanto stava covando fuori e dentro la Chiesa. Questa probabilmente la sua principale responsabilità, che tuttavia egli condivide con i Pontefici che lo hanno preceduto, nonostante l’inizio del suo Pontificato, conseguente ad una elezione valida, anche se probabilmente influenzata da pratiche simoniache, fosse promettente: infatti egli cercò di riportare ordine nella curia romana e di unificare le forze cristiane contro il pericolo turco alle porte, ristabilì l’ordine pubblico nella Roma di quegli anni, diventata, a causa della lunga vacanza del seggio papale, una città alquanto pericolosa in preda alla criminalità, adottò provvedimenti economici per risanare le pubbliche finanze. Sembrò, all’inizio del suo Pontificato, perfino che fosse imminente una riforma della vita spirituale della Cristianità e l’abbandono del libertinismo morale praticato da molti ecclesiastici del tempo. Ma, immaturi i tempi stabiliti dalla Provvidenza per una vera Riforma della Chiesa, anche Papa Borgia finì per praticare il nepotismo e per cedere alle proprie debolezze personali.

Un peccatore che non nascondeva i suoi peccati


San Vincenzo di Lerino soleva dire, e San Filippo Neri amava ripetere, che «Dio alcuni Papi li vuole direttamente Lui, altri li permette ed altri ancora li tollera, ma a nessuno consente di inficiare la santità della fede cristiana».

Certamente la sua vita di incallito peccatore non aiutò Papa Borgia. Ma che in lui fosse viva la coscienza del suo essere peccatore è cosa certa. È stato il Papa che organizzava festini (bunga bunga, diremmo oggi) alla corte di una delle sue amanti, Giulia Farnese, moglie di Orso Orsini, ma anche il Papa che presiedeva personalmente, e con grande sofferenza di peccatore contrito, a lunghe processioni riparatrici che si snodavano per le strade di Roma. Permetteva che il popolo ricamasse turpi pettegolezzi, spesso esageratamente falsi, sui suoi peccati perché se ne riconosceva colpevole e non voleva pubblicamente dissimulare la propria immoralità, e tollerava, senza affatto reprimerle, che per le strade dell’Urbe si declamassero le più virulenti pasquinate sul suo conto. Incontrando San Francesco di Paola – il grande santo calabrese che tra l’altro profetizzò l’imminente nascita di una «nuova religione» ossia di un nuovo ordine religioso che avrebbe riformato la Chiesa: profezia avveratasi, di lì a poco, con Sant’Ignazio di Loyola e i suoi gesuiti – Papa Borgia lo ascoltava umilmente mentre il sant’uomo gli rimproverava i suoi peccati e si affidava alle sue preghiere  implorandone l’intercessione per la salvezza della sua anima che egli sapeva in pericolo di dannazione.

Insomma un gran peccatore che viveva con somma sofferenza le sue debolezze alle quali, forse per insufficiente fiducia nel Signore e poca preghiera del cuore, non sapeva sottrarsi non riuscendo a contenerle.

La moderna storiografia – quella seria e non quella scandalistica – è oggi unanime nel ritenere che la continua ricerca del piacere carnale e l’esasperato erotismo del Borgia avesse una causa patologica di tipo psichico.

Questa stessa più equilibrata storiografia, oggi, ha attenuato ed in alcuni casi ha dimostrato infondate molte accuse tra le più infamanti che tradizionalmente sono tramandate sul conto di Alessandro VI.

È stata rivalutata come sincera, ad esempio, non solo la pietà religiosa di Rodrigo Borgia che, come si è detto, tormentato dalle sue colpe, passava dalle alcove adulterine a pubbliche e private pratiche penitenziali e devozionali. Si è in proposito rimarcato con attenzione il suo impegno nel diffondere tra il popolo la pratica del Santo Rosario ed il culto pubblico al Santissimo Sacramento.

Un politico abile ma anche petrino


Dal punto di vista politico – non meno importante per un Papa dell’epoca della Cristianità (5) – Alessandro VI ebbe molti meriti.

Riuscì ad evitare un grave conflitto tra Spagna e Portogallo, che a seguito della scoperta del Nuovo Mondo si andava profilando, esercitando il ruolo internazionale di arbitro universale della Cristianità che gli derivava dall’essere il Sommo Pontefice. Per comporre il dissidio tra i due regni cattolici, che egli come Papa aveva il dovere di trattare con equanimità, stabilì le linee di demarcazione, marittima e territoriale, delle aree di competenza che spettavano a ciascuno di essi nella colonizzazione del Nuovo Mondo. Un atto – questo – che è all’origine del moderno diritto internazionale inter-statuale (il cosiddetto ius publicum europaeum che ha preceduto l’attuale diritto internazionale umanitario a-statuale).

Una accusa tradizionalmente rivolta ad Alessandro VI è quella di aver distrutto l’equilibrio tra gli Stati italiani, faticosamente raggiunto da Lorenzo il Magnifico, e di conseguenza di aver aperto le porte della Penisola al dominio straniero, al solo scopo di favorire le ambizioni del figlio Cesare, detto il Valentino, il quale perseguiva, con machiavellica spregiudicatezza che non esitava ad arrivare all’assassinio politico, l’ambizione di costruire nell’Italia centrale, partendo dalle Romagne, uno Stato assolutista proto-nazionale.

In realtà sembra che Alessandro VI, pur appoggiando le ambizioni del figlio e barcamenandosi tra alleanze italiane ed europee che si facevano e disfacevano in continuazione, mirasse soprattutto al ripristino della sovranità territoriale dello Stato Pontificio per difenderne l’integrità, anche minacciando l’invasione di altri Stati italiani, messa in pericolo dalle mene delle potenze europee, Spagna e Francia, che agivano dietro le contese italiane come quelle tra Firenze, Venezia, Milano e Napoli.

È, senza dubbio, certo che l’obiettivo di suo figlio Cesare fosse quello di trasformare lo Stato pontificio in uno Stato a guida laica, sotto l’influenza dinastica della famiglia Borgia, che ricomprendesse anche i ducati emiliani e marchigiano-romagnoli nonché la Toscana. In altre parole, il Valentino confidava, morto il padre, di ereditare i domini territoriali ecclesiali per secolarizzarli e farne il nucleo della sua potenza italiana: da qui l’ammirazione di Machiavelli per Cesare Borgia nel quale il fiorentino vide il prototipo del suo spregiudicato Principe, capace di creare una monarchia nazionale italiana.

È difficile, però, dire se la lotta che Alessandro VI intraprese con le grandi famiglie nobiliari romane – una lotta cruenta fatta di terrore, confische e condanne all’esilio – sia inquadrabile nel tradizionale antagonismo tra la sede petrina, sempre guardinga contro le ingerenze del patriziato romano, e l’aristocrazia dell’Urbe, oppure se tale lotta avesse invece i caratteri, più moderni, della spregiudicatezza politica intesa all’assolutismo monarchico e quindi se Papa Borgia agisse più da Principe mondano, in favore dei progetti del figlio, che da Papa e, in quanto tale, da amministratore del Patrimonium Petri.

È tuttavia doveroso ricordare che la politica di Alessandro VI, intesa a favorire il progetto del figlio per la formazione di un grande ducato indipendente, sicuramente amico della sede petrina, che abbracciasse le Romagne ed il Ferrarese, era già stata inaugurata perlomeno a partire dal pontificato di Sisto IV della Rovere (1471-1484). Come pertanto è stato acutamente osservato:

«(Papa Borgia)… rilanciò il tentativo di costituire un forte ducato romagnolo. La linea alessandrina…  fu anche il prezzo duna politica che, nonostante i pericoli, mirava ad allargare il potere autoritario in una società tendenzialmente anarchica. Il 400… è… il secolo dun centinaio di Santi in maggioranza italiani,(e) segna la nascita di mirabili istituti di carità, anche nei centri minori; (ma) è (anche) secolo di depravazione, specialmente per le classi alte, che vede il riapparire delle mode delle schiave orientali, delle etere e degli omosessuali di cartello… Alessandro doveva governare in una Roma (così ridotta)…: egli ci provò con mezzi che riteneva appropriati. (…). Secondo alcuni la condotta di Papa Borgia nei confronti di Luigi XII – accordatosi con gli spagnoli sopra la testa del Papa ai danni dei napoletani – non è difendibile. Tutto sta a vedere se il Borgia ritenesse prudentemente che il re francese sarebbe piombato in Italia senza seri ostacoli, volente o nolente il Pontefice. In questo caso è difficile disapprovare il suo tentativo di trarre il massimo profitto da questa inevitabile calata, ossia di fare accettare anche a chi troppo lo temeva, un forte ducato nelle Romagne a garanzia del corpo dello Stato pontificio che doveva indubbiamente apparire assai minacciato da spagnoli e francesi, oltre che da italiani» (6).

Se, dunque le cose stanno così, diventa evidente che pur uniti nella partita i Borgia, padre e figlio, la giocassero con finalità, almeno in parte, diverse. Se, infatti, il Valentino mirava a costruirsi un dominio personale a spese dello Stato della Chiesa, Alessandro VI aveva come fine principale quello di consolidare e proteggere il Patrimonium Petri, minacciato da diverse forze interne ed esterne alla Penisola. Certamente, Papa Borgia era consapevole che le sorti dello Stato della Chiesa, in quel frangente storico, erano nelle mani delle milizie di suo figlio Cesare e quindi che esse passassero per le ambizioni dinastiche del rampollo della sua famiglia. Forse Alessandro VI era anche disposto, per assicurare l’autonomia territoriale della sede petrina, a pagare il caro prezzo di una laicizzazione parziale dei domini papali, che avrebbe avuto d’altronde per contraccambio il vantaggio di accrescere il potere politico e dinastico familiare, ma con una certa probabilità si può affermare che – e qui il freno dello Spirito Santo sulle ambizioni umane di un esponente di una potente famiglia diventato Pontefice si fa evidente – Papa Borgia non intendeva abbandonare completamente il Soglio Pontificio ai voleri ed alle ambizioni di suo figlio e legarlo così, del tutto, alle sorti della propria famiglia.

Papa Borgia e gli ebrei

Rodrigo fu anche un grande mecenate. Sotto il suo Pontificato fu commissionata la Pietà a Michelangelo. Gli appartamenti vaticani dei Borgia, che oggi ospitano alcune sale dei Musei Vaticani, furono affrescati dal Pinturicchio.

Alessandro VI veniva chiamato dai contemporanei «Papa marrano» per via della sua politica, mossa da carità cristiana, di tolleranza verso gli ebrei. C’è un episodio del suo Pontificato che non viene quasi mai ricordato dai suoi detrattori. Quando, nel 1492, gli ebrei sefarditi furono espulsi dalla Spagna, a causa dei disordini popolari che i falsos conversos, ossia gli ebrei che si fingevano convertiti, provocavano, fu Papa Borgia ad accoglierli, in un numero non inferiore a ottomila, a Roma, dopo che erano stati già respinti da Firenze, Napoli, Milano, Venezia (7). Nell’Urbe, per accogliere i nuovi arrivati, Alessandro VI dovette fronteggiare l’opposizione degli – sorpresa! – ebrei romani.

Questi ultimi, infatti, timorosi di perdere, o di dover allargare e condividere, i privilegi e le tutele che l’Autorità pontificia da secoli assicurava loro, fecero pressioni con ogni mezzo, anche ricorrendo a regalie varie in favore di influenti cardinali ed altri personaggi importanti di Curia, affinché ai loro correligionari iberici non fosse concesso asilo. Papa Borgia, per piegare la resistenza degli ebrei romani, dovette ricorrere a pubbliche sanzioni, multando la comunità ebraica.

Allo scopo di soccorrere gli ebrei Alessandro VI fece anche costruire sull’Appia antica un centro di accoglienza.

Ciononostante, la vulgata antipapale suole ricordare soltanto l’episodio della condanna a morte di un marrano, ossia di un falso convertito, comminata sotto il Pontificato di Papa Borgia. Per la disciplina canonica dell’epoca i falsi convertiti rientravano nella competenza dell’Inquisizione, la quale ordinariamente non aveva competenza a giudicare i non cristiani e, quindi, non aveva competenze neanche sugli ebrei non convertiti salvo che essi, come appunto nel caso dei marrani, dissimulassero la conversione o assumessero comportamenti le cui conseguenze finivano per rientrare nell’alveo canonico (8). Quando si ricorda l’episodio del marrano condannato sotto Alessandro VI, non si spiega, però, che quella condanna fu l’esito eccezionale, e dal Papa inutilmente evitato, di un processo a ben 180 marrani. Processo che si era concluso, per intervento dello stesso Alessandro VI, con l’accettazione della proposta avanzata dagli imputati di una riparazione pecuniaria che portasse ad una riconciliazione. Soltanto uno degli imputati rifiutò di aderire alla proposta dei suoi correligionari, conseguendone la condanna a morte.

Non si pensi, con troppa facilità, che Papa Borgia fosse intervenuto in quel processo per lucrare l’ammenda proposta dagli imputati, al posto del patibolo. Se non si può, infatti, escludere che anche questo possa aver avuto il suo peso, è certo tuttavia che non è possibile solo su questa base spiegare perché mai, nonostante che l’incasso per l’erario fosse comunque assicurato dagli altri 179, il Borgia abbia chiesto ai giudici di cercare in tutti i modi di convincere anche l’unico resistente ad aderire alla proposta dei suoi colleghi.

Alessandro e Girolamo


Come per Francesco di Paola, Alessandro VI aveva grande considerazione verso la santità di Girolamo Savonarola. Qui probabilmente sbagliava. Il monaco domenicano fiorentino non era certo quello stinco di santo che molti al tempo credevano. Egli apparteneva a quella tipologia, non rara nella storia della Chiesa, di predicatori apocalittici e millenaristici mossi da utopie teocratiche. Un altro esempio, quasi contemporaneo di Savonarola, di tale tipo di predicatore fu, a modo suo, un altro domenicano fra Bartolomé de Las Casas (9). Il problema di Savonarola stava nel confondere il piano teologico e quello politico. I quali, sebbene nella storia siano sempre in reciproca osmosi, non sono mai cattolicamente assimilabili in senso teocratico o statolatrico. Savonarola, sospinto da questo suo millenarismo, fece di Firenze una repubblica talebana nella quale si innalzavano grandi falò di vanità, ossia di scritti umanistici e di opere d’arte ritenute pagane, e nella quale la Polizia religiosa si poteva ficcare persino nel letto coniugale per controllare che il rapporto fosse consumato secondo le regole.

Inizialmente appoggiato dalla popolazione più povera, per via della sua predicazione antimagnatizia indirizzata in particolare contro i Medici e i banchieri finanziatori di vanità, Savonarola, che in quegli anni ebbe molta influenza anche sullo spirito, già tormentato di suo, del grande Michelangelo Buonarroti, finì per rimanere incastrato in un gioco più grande di lui, nel quale erano in ballo gli interessi delle classi agiate di Firenze come degli altri Stati italiani ed europei, ed, alla fine, abbandonato anche dal popolo, stufatosi del suo rigorismo eccessivo, pagò, nel 1498, con il rogo, la sua appassionata utopia teocratica che voleva fare di Firenze, opposta alla corrotta Roma del Borgia, la «nuova Gerusalemme in terra» promessa dall’Apocalisse.

Difficile valutare, dunque, la santità di Savonarola. Certamente egli ha creduto sempre di agire nella Chiesa e per il bene della Chiesa, ma non si rese conto che il Regno di Cristo passa prima per i cuori e non si può imporre con strategie di tipo politico, benché teologicamente motivate.

Savonarola era un grande fustigatore del malcostume della corte papale, anche se è assolutamente errato farne una sorta di Lutero ante litteram. Savonarola, per certi versi, era, a cavallo tra XV e XVI secolo, un attardato uomo del medioevo e guardava piuttosto, ed in modo romantico, al passato, opponendosi allo spirito del suo tempo pagano (che tale poi era per davvero).

La sua contestazione, però, nonostante l’acceso millenarismo, non mirava, come poi mirò quella di Lutero, alla negazione della visibilità della Chiesa, intesa come Corpo Mistico di Cristo, quanto piuttosto ad una riforma morale della vita ecclesiale. Riforma che però, il domenicano pretendeva di imporre con metodi politici, con la spada benché egli la immaginasse come quella fiammeggiante dell’Angelo vendicatore.

Mosso da questi intenti, era inevitabile che il bersaglio principale delle sue invettive fosse individuato proprio in Alessandro VI. E tuttavia non è possibile farne un contestatore preluterano del Papato perché egli contestava non il Vicario di Cristo ma soltanto l’immoralità dei costumi del Borgia. Il quale, dal canto suo, al contrario, ammirava la santità del frate fiorentino e lo stimava.

Abbiamo detto come Alessandro VI permettesse, anche pubblicamente, che i santuomini del tempo gli rinfacciassero la sua condotta scandalosa. Probabilmente, per lui questo era un modo di far penitenza davanti a Dio. Stimandoli per la loro santità, che egli non riusciva ad emulare, tollerava particolarmente quegli uomini di Chiesa dediti alla vita ascetica, come, si è visto, un San Francesco di Paola, e da essi accettava qualunque rimprovero e qualunque richiamo ai suoi doveri di Capo della Chiesa.

Le vicende politiche intorno a Savonarola si ingarbugliarono a tal punto che Alessandro VI si ritrovò indirettamente coinvolto nella sua condanna. Fu, infatti, suo figlio, Cesare Borgia, ad istigare il cardinale arcivescovo di Perugia, Juan Lopez, ad impartire a nome del Papa una scomunica contro Savonarola. Il Lopez chiese ad un falsario di elaborare una finta scomunica imitando la grafia di Alessandro VI. Quando il Papa venne a sapere della congiura ai danni del suo pupillo fiorentino protestò contro il cardinale autore del falso e, nel tentativo di salvargli la vita, minacciò di interdetto Firenze perché gli fosse consegnato il frate domenicano. Ma il figlio Cesare intervenne sul padre, prospettandogli gravi danni politici per la sede pontificia dall’eventuale applicazione dell’interdetto e dalla clemenza papale verso Savonarola, sicché Alessandro VI, anche per evitare problemi politici al figlio, cedette, lasciando il domenicano al suo tragico destino.

(fine prima parte)

Luigi Copertino




1
) Confronta F. Cardini, I veri Borgia oltre la leggenda nera, in Avvenire del 7 gennaio 2010.
2
) Confronta F. Cardini, citato.
3
) Il commento del Pastor continua, con grande apertura provvidenzialista, così: «In ogni tempo si sono avuti nella Chiesa insieme a cattivi cristiani anche indegni sacerdoti; e affinché nessuno ne avesse a prendere scandalo, Cristo stesso aveva ciò predetto paragonando la sua Chiesa ad un campo, nel quale insieme al buon frumento cresce pure la zizzania, e poi anche ad una rete, entro la quale sono pesci buoni e cattivi pesci: anche Egli poi in mezzo ai suoi apostoli tollerò un Giuda. Come una cattiva incastonatura non scema il pregio duna gemma, così la peccabilità dun sacerdote non può recar scapito essenziale nè al sacrificio chegli offre, nè ai sacramenti che amministra, nè allinsegnamento che impartisce. Certo per la vita dei fedeli la dignità personale del sacerdote è di massimo momento già perché egli con essa dà ai membri della Chiesa un esempio vivo da imitare e impone un maggior rispetto a quelli che ne stan fuori; nondimeno la santità o empietà di qualsivoglia persona non può esercitare unefficacia diretta e decisiva sulla natura, divinità e santità della Chiesa, sulla parola della rivelazione, sulle grazie e sul potere spirituale. E così anche il Sommo Pontefice non è in grado di togliere alcunché al valore dei tesori celesti che gli sono stati affidati nella loro pienezza e chegli amministra e dispensa; il suo ufficio è molto al di sopra della sua persona, e, come loro rimane oro sia che lo dispensi una mano pura od impura, così anche il valore intrinseco del Papato è affatto indipendente dalla dignità o indegnità della persona che nè investita. Anche il primo Papa, San Pietro, aveva gravemente peccato allorché rinnegò il suo Signore e Maestro, e nondimeno gli fu affidato il supremo ufficio pastorale. Con questo criterio giudicava già a suo tempo Leone Magno: ‘La dignità di San Pietro non vien meno neanche in un indegno successore’». Confronta Ludwig von PASTOR, Storia dei Papi. Dalla fine del medio evo, Desclée, Roma, 1942, volume 3 (1484-1513), pagine 581-582.
4
) Confronta T. Beer, Der Frohliche Wechsel und Streit. Grundzuge der Theologie Martin Luthers, Lipsia, 1974, Einsiedeln, 1980. In Italia, dello stesso autore, sono disponibili l’intervista apparsa sul numero del febbraio 1992 della rivista 30 giorni nella Chiesa e nel mondo, nonchè un’ampia sintesi nell’opera di Ennio Innocenti, La gnosi spuria, in tre volumi, Sacra Fraternitas Aurigarum in Urbe, 2009-2011.
5
) Un ambito, quello politico che, fatte e dichiarate con fermezza le debite e dovute metodologie di approccio che certo non possono essere affatto le stesse dei secoli passati (e si illudono tutti coloro che pensano, sic et simpliciter, a semplici restaurazioni) non è meno importante anche oggi, nell’età della secolarizzazione, dal momento che, cristianamente, la politica non può mai essere totalmente disgiunta dalla morale che deriva dalla Fede. Si tratta, quindi, di capire per quali vie, che non siano quelle di un passato che non può tornare, perlomeno nelle stesse forme, i cristiani possano, e debbono, approcciare al Politico senza abdicare sul piano della fede ma anche senza usare quella fede come una clava.
6
) Confronta Ennio Innocenti, Storia del potere temporale dei Papi, Sacra Fraternitas Aurigarum, Roma, 1996, pagine 249-250.
7
) Isabella di Castiglia e Ferdinando d’Aragona resistettero in ogni modo a chi a corte consigliava, onde risolvere la questione che, insieme a quella dei moriscos, ovvero delle comunità mussulmane agenti come quinta colonna nella speranza di una reconquista islamica, era diventata pericolosa per l’ordine pubblico e per la preservazione dell’integrità, da poco conseguita, del giovane, duplice, regno. Isabella, donna religiosissima, esitava a decretare l’espulsione degli ebrei per scrupolo di coscienza e di carità cristiana. Ferdinando, suo marito, esitava, meno religiosamente, perché era ben consapevole che l’economia iberica avrebbe perso una componente finanziaria importante, come infatti la fuga del credito, che accompagnò la cacciata degli ebrei, dimostrò. Quando, alla fine, i Re cattolici, a malincuore, firmarono il decreto di espulsione, essi permisero, tuttavia, agli ebrei di portare con sé i beni mobili di loro proprietà e, dove fu possibile, li indennizzarono, almeno parzialmente, delle proprietà immobiliari che andavano perdendo nel regno. La questione dei conversos era delicatissima. Si pensi che anche Santa Teresa d’Avila era discendente di una famiglia conversa. Pare che anche Ferdinando avesse lontane radici converse. Torquemada, il grande inquisitore, era anch’egli un converso e questo spiega molto bene la sua durezza contro i falsi convertiti. Infatti, il popolino non distingueva affatto tra un ebreo sinceramente convertito ed un falso convertito e tendeva a credere a leggende metropolitane per la quale tutti gli ebrei si fingevano convertiti in attesa di una controffensiva islamica dall’Africa. Tali voci popolari si diffusero così ampiamente che negli statuti comunali e nei regolamenti per accedere all’amministrazione pubblica del regno si iniziò a richiedere il requisito della «limpieza de sangre» ossia la dimostrazione di non avere sangue ebreo per almeno dieci generazioni precedenti. Inutile dire che la storiografia sionista ha visto in questa pretesa statutaria un antecedente del razzismo nazista: cosa storicamente ridicola - un vero e proprio anacronistico volo pindarico – se non altro per il fatto che cinque secoli separano la Spagna asburgica dalla Germania hitleriana e per il fatto, ancor più cogente, che la limpidezza del sangue non era affatto la premessa dello sterminio ma solo un elemento pseudo-giuridico di discriminazione civile. In ogni caso, fu l’Inquisizione, per la quale la questione era soltanto teologica – si trattava, cioè, soltanto di accertare se un ebreo fosse sinceramente convertito o meno –, ad opporsi agli statuti di limpieza ed a premere sulla Corona affinché fossero, dove possibile, revocati. Questa che chiedeva l’abrogazione degli statuti che discriminavano in termini di sangue, e non soltanto in termini teologici, era la stessa inquisizione del discreditato, e certamente non tenero, Torquemada che, in quanto egli stesso conversos, aveva interesse che l’intera questione fosse chiarita, in termini come si è detto teologici, a tutela innanzitutto dei suoi ex correligionari che, come lui, avevano sinceramente fatto professione di fede cristiana.
8
) L’inquisizione giudicava solo delle eventuali colpe dottrinali o morali dei cristiani, ed in particolare degli ecclesiastici (anche allora relativamente frequenti erano i processi per abusi sessuali del clero). Giordano Bruno, ad esempio, secondo le regole vigenti all’epoca, fu legittimamente processato dal Sant’Uffizio perché era, appunto, un monaco benché apostata.
9
) Una tipologia, questa savonaroliana o lascasiana, non rara neanche nella Chiesa di oggi ed alla quale possono essere ricondotti religiosi ed ecclesiastici come il comboniano padre Alessandro Zanotelli e don Andrea Gallo. Religiosi pauperistici, questi di oggi come quelli di ieri, che – sia ben chiaro – non è che abbiamo o avessero tutti i torti, ma che escono dal seminato perché confondono la Giustizia e l’Amore di Dio con la rivoluzione sconfinando nel millenarismo. Non è comunque cristiano opporre al loro confuso umanitarismo posizioni di tipo vetero o neo conservatrici, che generalmente usano la fede per nascondere interessi economici o progetti politici di potere. Anzi molte delle loro istanze caritative, se doverosamente ed inequivocabilmente separate, ieri, dal pauperismo apocalittico ed, oggi, dal pacifismo irenistico, sono perfettamente ortodosse e recuperabili in un alveo tradizionale. Come, ad esempio, ha fatto Giovanni Paolo II che da un lato ha condannato la teologia della liberazione ma dall’altro, nel suo magistero sociale, ne ha salvato, recuperandola, l’istanza veramente cristiana dell’amore verso i poveri, opponendosi alla teologia dellaccumulazione propugnata, in Sud America, dalle dittature militari, sul tipo di quella di Pinochet, sostenute dalle centrali finanziarie globali, dalle multinazionali, dai cosidetti Chicago boys, ossia i dottrinari monetaristi e reaganiani di Milton Friedman, e dagli Stati Uniti d’America.


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