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Ratzinger: un enigma risolto (Seconda parte)
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La strana teologia di Ratzinger
 
La speculazione teologica di Ratzinger (come dottore privato) è assai vasta e multiforme. Essa spazia dal primato della coscienza alla patristica, specialmente agostiniano-bonaventuriana, in funzione anti-scolastica; dalla collegialità in funzione anti-monarchica nel governo della Chiesa al concetto di libertà kantianamente inteso; dal dialogo inter-religioso all’escatologia. Ma i due pilastri fondanti sembrano essere la considerazione del rapporto cristianesimo-giudaismo e la teologia della storia in San Bonaventura, letta con un forte accento gioachimita.
 
1) Radici ebraiche del cristianesimo secondo Ratzinger

Abbiamo già visto in «Ratzinger: un enigma risolto» i rapporti di Ratzinger con la «Comunità Cattolica di Integrazione» che datano dal 1972. Nel 1997 l’allora cardinale Ratzinger, nell’introduzione al libro «La mia vita», scriveva: «L’altro grande tema che acquista sempre più rilievo in ambito teologico è la questione del rapporto tra Chiesa e Israele. La consapevolezza di una colpa, a lungo rimossa, che grava sulla coscienza cristiana dopo i terribili eventi dei dodici funesti anni dal 1933 al 1945, è senza dubbio una delle ragioni primarie dell’urgenza con cui tale questione è oggi sentita». L’interesse del nostro per i rapporti tra Chiesa e Israele risale, come dice lui stesso, al 1947-1948, quando studiava teologia a Monaco sotto la direzione del professor Gottlieb Sönghen, di cui abbiamo già parlato nell’articolo citato. L’importanza della «shoah’ nello sviluppo della sua teologia giudaico-cristiana è fondamentale e risale ai suoi primi venti anni. Onde erreremmo se volessimo vedere nel suo penchant verso l’olocaustimo ebraico, una novità, dovuta - magari - alle pressioni delle lobby giudaico-americaniste o allo scoppiare del «caso Williamson».

L’incipit del libro «Molte religioni un’unica Alleanza» è significativo: «Dopo Auschwitz il compito della riconciliazione e dell’accoglienza si è presentato davanti a noi in tutta la sua imprescindibile necessità» . A pagina 14 Ratzinger cita il testo del Vangelo di San Giovanni (IV, 22) «La salvezza viene dai giudei», e lo applica erroneamente ai rapporti tra ebraismo post-biblico e Cristianesimo. Questa frase di Gesù alla samaritana presso il pozzo di Giacobbe riguarda, invece, la querelle di quel tempo tra giudei e samaritani. Questi, infatti, nel 722 avanti Cristo avevano fatto scisma dalla Giudea ed avevano accolto le usanze e le superstizioni dei popoli pagani e politeisti che li avevano invasi, corrompendo la purezza della fede abramitica o dell’Antico Testamento per dar luogo ad una falsa religione sincretistica. Alla domanda della samaritana se la vera fede sia quella del Tempio di Gerusalemme o quella dei samaritani che sul monte Garizìm, riguardato come sacro, celebravano i loro riti, Gesù risponde che nell’Antica Alleanza la vera Fede è quella dei giudei (salus ex judaeis) che adorano Dio in Gerusalemme come Dio stesso aveva prescritto nel Pentateuco, ma aggiunge anche che si avvicina l’ora (Nuova Alleanza, nda), anzi è già venuta «in cui si adorerà Dio in spirito e verità» (col sacrificio della Messa, in tutto il mondo) e allora né su questo monte né in Gerusalemme adorerete il Padre» (cessazione dell’Antica Alleanza). Ora, dire che la salvezza oggi, dopo il Sacrificio di Cristo, viene - come scriveva anche Léon Bloy - ancora dai giudei, è oggettivamente falso ed è contrario a ciò che ha rivelato realmente Gesù nel Vangelo di Giovanni.

Ratzinger, invece, dopo aver citato Giovanni IV, 22 afferma: «Questa origine (‘la salvezza viene dai giudei’) mantiene vivo il suo valore nel presente» (ivi), anche se poi aggiunge, contraddicendosi com’è suo costume: «Non vi può essere nessun accesso a Gesù (…), senza l’accettazione credente della rivelazione di Dio (…), che i cristiani chiamano Antico Testamento» (ivi). La sua frase precedente, però, diceva che la salvezza viene ancora oggi dai giudei, e non dall’Antico Testamento, il quale non è certamente il cuore del giudaismo post-biblico, poiché l’Antico Testamento è tutto relativo a Cristo e quindi al Nuovo Testamento, che i giudei di oggi rifiutano ostinatamente come i loro antenati. Purtroppo tutto il pensiero di Ratzinger è una «coincidentia oppositorum» e questa è anche l’essenza del modernismo come l’ha descritta San Pio X nella «Pascendi» (1907): «Leggi una pagina di un libro modernista ed è cattolica, giri la pagina ed è razionalista». In Ratzinger ciò avviene persino passando da una frase a quella successiva.

La conclusione pratica della teologia giudaico-cristiana, nata dopo la riflessione sulla «shoah» è - secondo Ratzinger - la seguente: «Ebrei e cristiani debbono accogliersi reciprocamente in una più profonda riconciliazione, senza nulla togliere alla loro fede e, tanto meno, senza rinnegarla ma anzi a partire dal fondo di questa stessa fede. Nella loro reciproca riconciliazione essi dovrebbero divenire per il mondo una forza di pace. Mediante la loro testimonianza davanti all’unico Dio…».

Ora, come può un cristiano, che crede nella Santissima Trinità e nella divinità di Cristo, accogliere «a partire dal fondo di questa stessa fede» l’ebraismo che nega recisamente la Santissima Trinità e la divinità di Cristo? Solo la dialettica hegeliana, la coincidentia oppositorum cusano-spinoziana lo permettono. Ma la retta ragione, il principio per sé noto di identità e di non contraddizione ed inoltre la divina Rivelazione lo negano.

Per quanto riguarda i rapporti tra Antica e Nuova Alleanza, le cose si complicano. Infatti Ratzinger scrive che il termine «Testamentum» (Testamento), usato dall’antica versione latina e reso poi da San Girolamo con «foedus» o «pactum» (Alleanza o Patto), non è stata una scelta propriamente corretta per tradurre la parola ebraica berìt. I traduttori greci della Bibbia ebraica (traduzione dei Settanta) l’hanno resa, infatti, quasi sempre (267 passi su 287) non con l’equivalente greco di «patto» o «alleanza» (syn-theke), ma bensì con il termine dia-theke, che vuol dire non «un accordo reciproco» , ma «una disposizione in cui non sono due volontà a mettersi d’accordo, ma vi è una volontà che stabilisce un ordinamento». Sembrerebbe cosa di poco conto. Invece Ratzinger, a partire da questa distinzione, arriva - come vedremo - a formulare la teoria che l’Antica Alleanza non è mai cessata: poiché berìt, reso con Alleanza in latino, significa solo volontà divina e non comporta la corrispondenza umana, Dio ha mantenuto l’Alleanza con Israele, anche se questo è stato infedele. Ratzinger, infatti, scrive: «Ciò che noi chiamiamo ‘Alleanza’, nella Bibbia, non è concepito come un rapporto simmetrico tra due partner che stabiliscono tra loro una relazione contrattuale paritetica con obblighi e sanzioni reciproche. (…)’. ‘Alleanza’ non è un contratto che impegna a un rapporto di reciprocità, ma un dono, un atto creativo dell’amore di Dio» . E cita San Paolo (2 Corinti III, 4-18  e Galati IV, 21-31 ), nel quale si trova la «contrapposizione più netta tra i due Testamenti», mentre, quando parla di Alleanza (Ebrei, XIII, 20), usa il termine di «alleanza ‘eonica’, cioè eterna, con una terminologia che è ripresa dal Canone romano (della Messa)». Ratzinger specifica che, se San Paolo nella seconda lettera ai Corinzi «pone in netta antitesi l’Alleanza instaurata da Cristo e quella di Mosè», le cose vanno diversamente tra Abramo e Cristo. Infatti «nel nono capitolo della lettera ai Romani» San Paolo utilizza non più il termine Patto o Testamento, ma Alleanza al plurale e Ratzinger commenta: «L’Antico Testamento conosce tre alleanze: il sabato, l’arcobaleno, la circoncisione (…). L’alleanza con Abramo (San Paolo) la vede come l’alleanza vera e propria, fondamentale e permanente, mentre quella con Mosè «è sopraggiunta in seguito» (Romani, V, 20), 430 anni dopo quella con Abramo (Galati 3,17) e non ha affatto privato quest’ultima del suo valore». Quindi il Patto o il Testamento stipulato da Dio con Mosè (1330 avanti Cristo) è transitorio e non eterno, mentre l’Alleanza stipulata con Abramo (1900 avanti Cristo) è permanente ed eterna! Perciò l’Antica Alleanza con Abramo sussiste ancora, non è mai cessata.

Ma - osserviamo - quando gli ebrei increduli asseriscono di avere per padre Abramo, Gesù risponde loro che Abramo lo è solo carnalmente, poiché egli credeva nel Messia venturo, mentre loro lo vogliono uccidere, quindi il loro padre spirituale è il diavolo (Giovanni, VIII, 42) e aggiunge: «Chi è da Dio ascolta le parole di Dio; ecco perché voi non le ascoltate: perché non siete da Dio» (Giovanni VIII, 47). Ora come conciliare la Rivelazione del Vangelo di San Giovanni con l’interpretazione ratzingeriana, secondo la quale Abramo sarebbe tuttora padre degli increduli ebrei post-biblici, dacché l’Alleanza stipulata da Dio con lui è eterna? Certo, si può rispondere che essa è eterna nel momento in cui è vissuta nella Fede di Abramo nel Messia Gesù Cristo, onde l’Alleanza con Abramo continua in quella Nuova ed eterna, a cui era finalizzata, ed è perfezionata e realizzata da questa nel Sangue di Cristo. Ma gli ebrei post-biblici, che rifiutano Cristo Dio e la Santissima Trinità, non sono in Alleanza né con Abramo né con Dio, come afferma Gesù nel Vangelo di San Giovanni. Ratzinger, però, asserisce il contrario: «Con questa distinzione (tra alleanza abramitica e alleanza mosaica) viene meno la rigida contrapposizione tra Antica e Nuova Alleanza e si esplicita l’unità (…) della storia della salvezza, in cui nelle diverse alleanze si realizza l’unica Alleanza», onde l’ebraismo odierno, benché incredulo, sarebbe tuttora in Alleanza eterna con Dio tramite Abramo (e non Mosè). Ma anche ciò è falso, benché Ratzinger cerchi - distinguendo tra Mosè ed Abramo - di dare un fondamento più solido alla teoria di Giovanni Paolo II dell’«Antica Alleanza mai revocata» (Mainz, 1981).

Da notare che per Ratzinger non solo l’alleanza di Dio con gli israeliti in Abramo, ma anche l’alleanza di Dio con tutti gli uomini in Gesù Cristo è «incondizionata» cioè non «legata alla condotta degli uomini» perché «Dio, per la sua stessa essenza, non può lasciar cadere l’alleanza, per quanto essa venga rotta»  e perciò dinanzi all’infedeltà degli israeliti, così come dinanzi all’infedeltà dei «cristiani, Egli la «rinnova» nel senso che «l’alleanza condizionata, che dipende dalla fedeltà dell’uomo alla Legge e che per questo è stata spezzata, viene sostituita dall’alleanza incondizionata in cui Dio s’impegna irrevocabilmente». Questo «rinnovamento dell’ alleanza» è, per i Cristiani, la Santa Messa. «Deus non deserit nisi prius deseratur» («Dio non abbandona, se prima non è abbandonato») dice Sant’Agostino, ripreso dal Concilio di Trento. Anche la Nuova ed Eterna Alleanza (come già l’Alleanza abramitica) è un patto bilaterale condizionato. Essa è eterna ed irrevocabile solo con la Chiesa di Roma; ma non con ogni uomo: i doni di Dio «sono irrevocabili» a condizione che l’uomo Gli resti fedele. Per Fede sappiamo che «le porte dell’Inferno non prevarranno» contro la Chiesa; ma nessun uomo sa «se sia degno di odio o di amore», ossia la perseveranza finale è qualcosa che non è garantita a nessun uomo in particolare: se rompe con Dio, egli è abbandonato da Dio. La Chiesa soltanto, nata dal costato di Cristo, ha la promessa formale dell’indefettibilità e della perseveranza usque ad finem, in virtù del Sangue di Cristo, ma non ha questa promessa Israele in virtù dei meriti di Abramo. In realtà, Ratzinger (come dottore privato) fonda, purtroppo, la sua distinzione su Martin Lutero. Infatti, per lui, la nuova ed eterna alleanza «risulta nuova» appunto perché «non si tratta di un patto a certe condizioni, ma del dono dell’amicizia (di Dio) che viene irrevocabilmente offerta. Al posto della Legge subentra la grazia. La riscoperta della teologia paolina nella Riforma (luterana) ha posto particolarmente l’accento su questo aspetto: non le opere ma la fede; non ciò che l’uomo fa, ma il libero disporre della bontà di Dio. (…). Le espressioni riferite all’esclusività dell’azione di Dio, vale a dire quelle contenente l’aggettivo solus (solus Deus, solus Christus), sono da intendersi in questo contesto».

Peccato, però, che San Giacomo ha scritto, sotto divina ispirazione: «la Fede senza le Opere è morta» (II, 26) e che il Concilio di Trento ha definito questa verità de Fide catholica! (Sessione VI, cc. 6-7). La «teologia» di Lutero è la negazione e la distruzione della vera Religione (da religare ossia unire l’uomo a Dio), dacché Lutero diceva «pecca fortiter, sed fortius crede», ma il peccato separa da Dio e non unisce a Lui. La «speranza sfiduciale» luterana è la «presunzione di salvarsi senza meriti», che porta all’«impenitenza finale» ed è un «peccato contro lo Spirito Santo». San Paolo non ha mai voluto insegnare l’inutilità delle «Opere buone» (ossia osservare i 10 Comandamenti), anzi insegna che la carità o stato di grazia è conditio sine qua non per entrare in Cielo: «Se avessi la Fede che sposta le montagne, ma non ho la carità sono un nulla» (1 Corinti, 13, 2). L’Apostolo, quando insegna che la giustificazione non si consegue con le opere della Legge, ma per la fede in Cristo (confronta Galati 2,3), parla non della Legge divina, ma delle osservanze rituali, delle prescrizioni legali e cerimoniali della legislazione mosaica, riservate al popolo ebreo per prepararlo a Cristo («pedagogo a Cristo»), ma per le quali il fariseismo imperante si lusingava di poter raggiungere la salvezza senza la fede in Cristo e senza la Sua grazia.

Tutta la teologia ratzingeriana è un tentativo di conciliare l’inconciliabile nell’ottica cusana della coincidentia oppositorum; metaforicamente essa è l’ossimoro o l’ircocervo di Pera e Croce (vedi «Ratzinger: un enigma risolto») e le «convergenze parallele» di Aldo Moro. Infatti nella parte finale del suo libro Ratzinger cita esattamente il «De pace Fidei» di Niccolò da Cusa (1453), in cui «Cristo come logos universale [confronta il «Cristo cosmico» di Teilhard de Chardin, nda] convoca un concilio celeste (confronta il Concilio Vaticano II, nda), perché lo scandalo della molteplicità delle religioni sulla terra è divenuto intollerabile». Lo stesso Ratzinger spiega che il cammino del movimento ecumenico cominciò nel secolo XIX presso i protestanti, poi vi si avvicinò l’ortodossia e infine «l’avvicinamento della Chiesa cattolica cominciò da alcuni gruppi di Paesi in cui si soffriva maggiormente la divisione tra le Chiese, finché il concilio Vaticano II aprì le porte della Chiesa alla ricerca dell’unità di tutti i cristiani». Onde, per Ratzinger (1997) - oggettivamente - tra Concilio e Tradizione non vi è continuità, ma rottura, anche se - soggettivamente o ermeneuticamente - Benedetto XVI (2005) ce la vuol vedere. Come si evince da quanto sopra, la teologia del giudeo-cristianesimo è congenere a Ratzinger e a Benedetto XVI (come dottore privato). Per capire la sua reazione davanti alla montatura del «caso Williamson» non si deve guardare alla persona del monsignore «incriminato», ma alla dottrina giudaizzante del Pontefice modernizzante. Ci sembra, pertanto, inutile, se non pericoloso, andare a dialogare con lui (o chi per lui) e a tal fine «gettare a mare Giona».
 
2) Teologia della storia e gioachimismo in Ratzinger

Sempre con lo stesso professore Sönghen il giovane Ratzinger fece la sua Tesi di laurea su San Bonaventura (che era di Viterbo e non di «Fiuggi») nel 1956-1957, appena dieci anni dopo la svolta di Auschwitz, tesi in cui appare la sua concezione di Dio e del dogma, considerati non oggettivamente, ma storicamente e soggettivamente e per di più visti (confronta articolo citato) in un’ottica tendenzialmente e moderatamente millenarista. Questa tesi è stata rieditata dalle Edizioni Porziuncola sotto il titolo «San Bonaventura /La teologia della storia». Secondo il nostro, San Bonaventura studia Gioacchino da Fiore come Generale dell’Ordine francescano, «che era quasi giunto al suo punto di rottura a causa della questione gioachimita», più che come teologo privato, ma, nonostante ciò, «Gioacchino viene interpretato all’interno della tradizione, mentre i gioachimiti lo interpretarono contro la tradizione. Bonaventura non rifiuta totalmente Gioacchino (come aveva fatto Tommaso): egli lo interpreta piuttosto in modo ecclesiale, creando così un’alternativa ai gioachimiti radicali» . Come si vede l’idea della «ermeneutica della continuità» è congenere anch’essa al giovane e al vecchio Ratzinger (1956-2005). Ratzinger riconosce che «l’ idea di un nuovo ordine, in cui l’ecclesia contemplativa degli ultimi tempi deve trovare la sua vera e definitiva forma d’esistenza, viene chiaramente espressa in Gioacchino da Fiore. Il concetto di ‘ordine’ acquista così un nuovo significato e ‘novus ordo’ (…) potrebbe tradursi allora come ‘nuovo ordine salvifico’ e ‘nuovo ordine religioso della società’. (…) Si potrebbe forse rendere ‘novus ordo’ persino come ‘nuovo popolo di Dio’ ». Insomma se San Tommaso ha confutato radicalmente la teologia della storia di Gioacchino, «il Dottor Serafico (ha, secondo Ratzinger) un atteggiamento più positivo nei confronti della teologia gioachimita della storia».
 
Confutazione tomistica del Gioachimismo

San Tommaso d’Aquino confuta meglio di ogni altro gli errori millenaristi e tendenzialmente giudaizzanti di Gioacchino e della sua scuola. Nella Somma Teologica dimostra che la Nuova Alleanza durerà sino alla fine del mondo (S. Th., I-II, q. 106, a. 4). Infatti, la Nuova Alleanza è succeduta alla Vecchia, come il più perfetto al meno perfetto. Ora, nello stato della vita umana in questo mondo, nulla può essere più perfetto di Cristo e della Nuova Legge, poiché qualcosa è perfetto in quanto si avvicina al suo fine. Ora, Cristo ci introduce - grazie alla sua Incarnazione e morte - in Cielo. Quindi, non vi può essere - su questa terra - nulla di più perfetto di Gesù e della sua Chiesa. Per quanto riguarda lo Spirito Santo come perfezionatore dell’opera della Redenzione di Cristo, Esso è inviato proprio da Cristo per confessare Cristo stesso, che ha promesso formalmente ai suoi Apostoli: «Lo Spirito Santo che Io vi manderò, procedendo dal Padre, renderà testimonianza di Me». Quindi il Paraclito non è l’iniziatore di una terza èra, come vorrebbe il gioachimismo, ma testimonia e spiega Cristo agli uomini e li rafforza per poterlo imitare. Onde, dopo l’Antica e la Nuova Legge, su questa terra non vi sarà una terza Alleanza, ma il terzo stato sarà quello dell’eternità, sempre felice del Cielo o sempre infelice nell’Inferno. Gioacchino erra nel trasportare la realtà ultramondana o eterna su questa terra. Il Regno, di cui parla l’abate da Fiore, non riguarda questo mondo, ma l’aldilà. Infatti lo Spirito Santo ha spiegato agli Apostoli, (il giorno di Pentecoste del 33 dopo Cristo) tutta la verità che Cristo aveva predicato e che loro non avevano ancora capito appieno. Il Paraclito non deve insegnare una nuovissima Legge o un altro Vangelo più spirituale di quello di Cristo, ma deve solo illuminare e dar forza per ben conoscere e ben vivere la dottrina cristiana, che ha perfezionata quella mosaica (S. Th., I-II, q. 106, a. 4). Inoltre come la Vecchia Legge non fu solo del Padre, ma anche del Figlio (prefigurato da Mosè); così pure la Nuova Legge non fu solo del Figlio, ma anche dello Spirito promesso e inviato da Cristo ai suoi Apostoli. La Legge di Cristo scritta nei nostri cuori (Geremia) è la Grazia dello Spirito Santo, che illumina, vivifica e irrobustisce per potere osservare la Legge divina. Così come già nell’Antico Testamento era la grazia dello Spirito Santo ad illuminare e corroborare i Patriarchi e i Profeti, i quali, pur vivendo sotto la Vecchia Legge, avevano già lo spirito della Nuova e la vivevano eroicamente.

Quando Gesù insegna agli Apostoli che «Il Regno dei Cieli è vicino», non si riferisce - spiega San Tommaso - solo alla distruzione di Gerusalemme come termine definitivo della Vecchia Alleanza e inizio formale della Nuova, ma anche alla fine del mondo (S. Th., I-II, q. 6, a. 4, ad 4; III, q. 34, a. 1, ad 1; III, q. 7, a. 4, ad 3-4). Infatti il Vangelo di Cristo è la «Buona Novella» del Regno (ancora imperfetto) della «Chiesa militante» su questa terra; e del Regno (oramai e per sempre perfetto) della «Chiesa trionfante» nei Cieli. Inoltre, nel Commento a Matteo sul discorso escatologico di Gesù (XXIV, 36), San Tommaso postilla: «Qualcuno potrebbe credere che questo discorso di Cristo, riguardi solo la fine di Gerusalemme…; però sarebbe un grosso errore riferire tutto quanto è stato detto solo alla distruzione della Città santa e quindi la spiegazione è diversa, … cioè che tutti gli uomini e i fedeli in Cristo sono una sola generazione e che il genere umano e la fede cristiana durerà sino alla fine del mondo» (Expos. In Matth. c. XXIV, 34). L’Angelico si basa su tale testo per confutare l’errore gioachimita, secondo il quale la Nuova Alleanza o la Chiesa di Cristo non durerà sino alla fine di tempi; egli riprende l’insegnamento patristico (specialmente del Crisostomo e di San Gregorio Magno) e lo sviluppa anche nella Somma Teologica (I-II, q. 106, a. 4, sed contra): il Cristianesimo durerà sino alla fine del mondo, e perciò non ci sarà bisogno di una «terza Alleanza pneumatica e universale» (Catolikòs), ma la Chiesa di Cristo è già il Regno del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo (con buona pace di Gioacchino e seguaci). Non occorre sognare il rimpiazzamento del cristianesimo, basta solo viverlo sempre più intensamente.
 
da SISINONO, Anno XXXV numero 6, del 31 Marzo 2009



Pera e la filosofia della massoneria
(Appendice)

Nel 1987, il professor Giuliano Di Bernardo pubblicò con la Marsilio di Venezia un libro molto istruttivo, intitolato «Filosofia della Massoneria». In esso il cattedratico, nonché allora gran maestro della massoneria italiana, spiegava quali sono i principi filosofici essoterici (cioè non segreti) della massoneria.

1) La massoneria è una concezione dell’uomo non necessariamente religiosa, nel senso che non considera forzatamente l’uomo creato da un Dio personale e trascendente (ibidem, pagina 3). Ma neppure essa è necessariamente a-religiosa, ossia il singolo massone può, se vuole, credere soggettivamente che per lui Dio è creatore dell’uomo, purché non pretenda che questa sia una verità oggettiva e reale.
2) La massoneria è laica nel senso che «la natura dell’uomo viene definita a prescindere da tale rapporto col divino» (ivi) cioè senza escluderlo o negarlo per principio.
3) Il formale della filosofia massonica in sé considerata, e anche del singolo massone, è il non-esclusivismo, ossia il pluralismo o soggettivismo liberale (pagina 4). Infatti, se la massoneria in quanto tale è laica e non religiosa (anche se non esclusivamente) il singolo massone può essere religioso, ma non deve essere «esclusivista» ossia non deve ritenere che Dio, la religione, l’aldilà siano realtà oggettive e necessarie. I concetti pubblici fondamentali della filosofia essoterica massonica sono i seguenti:

a) La tolleranza, che significa «respingere, in linea di principio, un modo di pensare ritenuto erroneo, (anche se in pratica) lo si lascia sussistere per un motivo di rispetto verso la libertà degli altri» (pagina 27). Quindi, massonicamente, tolleranza non è indifferenza o mancanza di opinioni proprie, anzi la massoneria ha la sua propria filosofia; tuttavia «riconosce che vi sono modi di pensare diversi dal proprio» e «assume nei loro riguardi un atteggiamento di rispetto (…). La massoneria non è tutto e il contrario di tutto» (ivi). Il Di Bernardo continua: «il principio di tolleranza è per definizione la negazione di ogni forma di integralismo» (pagina 94).
b) La fratellanza: «quando io ammetto che altri uomini possano professare idee differenti dalle mie (…), nel far ciò li considero fratelli» (pagina 29).
c) Quanto al problema della Trascendenza, Di Bernardo spiega che può essere intesa
ά) in senso reale, se la Causa prima supera e trascende infinitamente il mondo e l’uomo realmente e oggettivamente;
β) oppure in senso regolativo, se io non riconosco al Dio trascendente un’esistenza reale e oggettiva, ma Lo riconosco solo come esistente nel mio intelletto o volontà (proprio come Kant e Pera). Tale idea è detta «regolativa», poiché ci aiuta a vivere meglio e a perfezionarci eticamente (ivi). Tuttavia «la massoneria non ritiene Dio come ideale puramente (o esclusivamente) regolativo (…) affermare ciò (…) verrebbe ad escludere che il concetto di ideale regolativo possa essere integrato con qualche accezione più forte della divinità» (pagina 91). Onde Di Bernardo parla di regolativismo non esclusivo (pagina 92), vale a dire che non esclude che il singolo massone possa credere (soggettivamente) in un Dio reale e oggettivamente trascendente.
d) Per quanto riguarda il rapporto tra immanenza e Trascendenza, Di Bernardo scrive: «La trascendenza regola l’immanente mentre l’immanente tende verso la trascendenza: è questo un continuo processo in cui l’immanente non fagocita il trascendente, ma realizza in sé il massimo della trascendenza» (pagina 37). Tale principio corrisponde perfettamente a ciò che aveva scritto Giovanni Paolo II nell’enciclica «Dives in misericordia» (1981): «Quanto più la missione della Chiesa (conciliare) è antropocentrica, tanto più essa deve realizzarsi teocentricamente (…). E questo è uno dei principi fondamentali, e forse il più importante dell’ultimo concilio».

Non deve, dunque, meravigliarci se Benedetto XVI ha approvato il libro di Pera «Perché dobbiamo dirci cristiani/Il liberalismo, l’Europa, l’etica». Il panteismo, ossia la identificazione degli opposti (trascendenza e immanenza), è il cuore del Vaticano II e del post-concilio. L’ossimoro e l’ircocervo, ben prima di Pera-Ratzinger, sono stati realizzati dal Vaticano II e da Giovanni Paolo II. Il libro di Di Bernardo ci aiuta a capire meglio quello di Pera, accreditato da Ratzinger, cioè come possiamo e «dobbiamo dirci cristiani per cultura» anche se non crediamo per Fede in Gesù Cristo. Sembra una contraddizione nei termini, e oggettivamente lo è. Ma in un’ottica kantiana e soggettivista, non-esclusivista, liberale ed essotericamente massonica tutto si concilia nella perpetua evoluzione all’infinito. Come si vede liberalismo, kantismo e massonismo formano un tutt’uno con le «novità» del Vaticano II, il quale, come il modernismo dei suoi ispiratori, appare «la cloaca e il collettore di tutte le eresie» (San Pio X, Pascendi, 1907).

D. R. (da Si Si No No, Anno XXXV numero 6, del 31 marzo 2009)


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