>> Login Sostenitori :              | 
header-1

RSS 2.0
menu-1
Il golpe (parte II)
Stampa
  Text size
Da J. M. Keynes a Mario Draghi

John Maynard Keynes
: il martello del liberismo. Ambiguità filosofiche e genio scientifico di un maestro della scienza economica del XX secolo

Di fronte alla crisi in atto, molti stanno riscoprendo il pensiero filosofico ed economico di John Maynard Keynes, l’anti-Hayek. La rivalutazione di Keynes è cosa buona ed opportuna. Tenendo però, cattolicamente, presente alcune riserve, non tanto sui contenuti economici del suo pensiero quanto piuttosto su quelli filosofici. L’economista inglese partiva certamente da un anelito di eticità che egli, giustamente, vedeva assente nel capitalismo. Moralità che Keynes vuole introdurre nel sistema capitalista, correggendolo mediante l’intervento pubblico e senza sfociare in utopie comuniste. Il punto sta nel fatto che Keynes trae la sua esigenza di eticità da un vago e confuso spiritualismo tinto di autosufficienza umanitaria. Se avesse incontrato la fede cattolica ne avrebbe tratto giovamento il suo stesso pensiero scientifico. Ma Keynes non sembra essersi mai interessato alla fede cattolica. Egli si è limitato ad una visione platonica della vita. Il suo obiettivo, nient’affatto disprezzabile, era quello di rendere effettivo il diritto per ciascuno di godere del buon vivere, consistente nella ricerca del sapere filosofico e spirituale, per assicurare il quale, a tutti, è tuttavia indispensabile costruire le condizioni storiche idonee a soddisfare universalmente i bisogni economici primari. Il suo interesse per l’economia muoveva da questa utopia umanitaria, che tuttavia – non sappiamo quanto egli ne fosse cosciente – rivela, pur nello sviamento imitativo, un retroterra di cristianesimo secolarizzato. Questo è, a nostro giudizio, il punto debole del keynesismo classico, tuttora trascurato dagli economisti neo-keynesiani, che in passato ha portato, tra gli anni Trenta e gli anni Settanta del XX secolo, a caricare le politiche di intervento dello Stato e di deficit spending di eccessive attese millenaristiche, ponendo sui bilanci statali il dovere di soddisfare troppi presunti diritti, in uno sfogo di libertarismo relativista, e non più solo quelli primari ed essenziali all’istruzione, al lavoro, alla salute, alla vecchiaia serena che ogni comunità politica degna di tal nome ha l’effettivo dovere di assicurare. Per capirci con un esempio concreto: mentre è sacrosanta e doverosa l’assistenza sanitaria pubblica alla partoriente, non è accettabile economicamente, oltre che inaccettabile moralmente, porre a carico della sanità pubblica i costi finanziari degli aborti. Ancora: mentre è sacrosanta l’edilizia popolare per le famiglie meno abbienti non è affatto accettabile il costo pubblico per costruire alloggi a basso costo per single o gay o coppie fatto. La nostra preferenza per la prospettiva keynesiana rispetto a quella liberista alla Von Hayek ed alla Von Mises, cui arridono invece i catto-conservatori, viene dall’evidenza del fatto che l’impostazione, abbiamo detto, platonica di Keynes offre maggiori aperture alla Trascendenza cristiana che non l’immanentismo puro dei liberisti. I Padri della Chiesa si confrontarono con la cultura neo-platonica dei primi secoli e riuscirono a purificarla alla luce della Fede biblica. Questo perché nel pensiero classico ellenista sussistevano possibili varchi per l’irruzione della Trascendenza cristiana. Ora, il confuso e spurio neoplatonismo keynesiano offre perlomeno una opzione di tipo religiosa, benché vagamente spiritualista.

Keynes affermava che «il capitalismo moderno è assolutamente non religioso». Un cattolico non di sinistra come Augusto Del Noce, e noi con lui, avrebbe sottoscritto senza indugi una tale affermazione. Infatti il grande filosofo cattolico individuava nella società occidentale il luogo storico nel quale si era messa a punto la reificazione completa, sotto forma di mercificazione, dell’uomo. Al contrario, un medesimo anelito ad una morale che non sia quella, che poi vera morale non è, utilitarista non sussiste nell’analisi di Von Hayek, per il quale il mercato è auto-normato da una legge regolatrice intrinseca che ne consente il funzionamento spontaneo, nel libero gioco degli egoismi. Nella visione liberista, il mercato autoregolamentato è lo strumento migliore che l’umanità è riuscita ad individuare, lungo il suo cammino storico, per assicurare, nella dura lotta della specie umana per la sopravvivenza, alla maggior parte dei suoi membri una possibilità di vita mediante la divisione del lavoro, richiesta dall’economia di mercato, che impone ai più di accontentarsi di più bassi redditi rispetto a quelli dei capitalisti, i quali ultimi sono i soli e veri protagonisti del gioco in grado di rendere effettiva la libertà economica individuale. Per Von Hayek, infatti, darwinista convinto, l’orizzonte umano è esclusivamente biologico. Il liberismo in Von Hayek svela apertamente il naturalismo filosofico che ne è la radice spuria. L’idea del mercato auto-regolato risponde in pieno ad una concezione di assoluto immanentismo dai risvolti panteistici. Non è dunque un caso se sia Von Hayek che Von Mises si consideravano a-religiosi, indifferenti ad ogni morale sovra-economica nella quale vedevano, alla pari dell’intervento statuale in economia, un ostacolo abusivo al funzionamento del libero mercato. Ora, se è vero che anche i presupposti filosofici di Keynes, come detto, sono ambigui, rimane il fatto che tra l’assoluto immanentismo immoralistico hayekiano ed il platonismo etico keynesiano, un cattolico, dovendo scegliere, non può che scegliere la seconda prospettiva e sforzarsi, sulla scorta di quanto fecero a suo tempo i Padri della Chiesa, di purificarla dalle sue aporie pseudo-teologiche per meglio fondarne le analisi economiche. San Paolo: «Esaminate tutto, prendete ciò che è buono» (1). Pertanto, al di là delle non trascurabili deficienze filosofiche (sulle quali ritorneremo magari in altre più appropriate occasioni) e di alcuni errori macroeconomici dei keynesiani “millenaristi”, quel che deve oggi interessarci sono le idee economiche di Keynes, le soluzioni da lui, a suo tempo, proposte per far fronte alle inefficienze evidenti del libero mercato nell’assicurare il tendenziale pieno impiego e la pace sociale.

Uno spauracchio funzionale al
dogma monetarista

Pertanto rileggere Keynes è importante in questi nostri tempi nei quali, come si accennava, in nome di un concetto dogmatico di rigore finanziario deflazionista l’Europa si è consegnata ad una BCE modello Bundesbank, non più prestatrice di ultima istanza. Il ruolo della BCE, infatti, non è più, come si diceva, quello di emettere moneta acquistando sul cosiddetto mercato primario titoli pubblici (su quello secondario, ossia come una qualsiasi banca ordinaria, essa in limitati quantitativi all’occorrenza lo fa), per finanziare l’erario degli Stati dell’UE, ma soltanto quello di stabilizzare il valore dell’euro onde assicurare, ai prodotti europei (quelli tedeschi, in particolare), una moneta competitiva nel mercato globale evitando il rischio dell'iperinflazione. Un rischio che, però, oggi più che mai non esiste. L’inflazione, laddove si registra un aumento dei prezzi, è attualmente determinata da altre cause: ad esempio il recente aumento del prezzo della benzina è stato determinato dall’aumento delle accise a seguito dell’ultima manovra finanziaria e non da eccesso del quantitativo di moneta in circolazione. Anzi, il fatto stesso che la BCE abbia di recente abbassato il tasso di sconto e fornito di liquidità le asfittiche banche europee, nella mal riposta speranza che queste finanziassero le imprese, è la dimostrazione che siamo in una situazione di deflazione e non di inflazione. L’economia europea sta morendo di deflazione, sotto i colpi di maglio della speculazione finanziaria. Le Pubbliche Amministrazioni non riescono più a pagare in tempi ragionevoli le imprese appaltatrici perché soffrono di liquidità di cassa. Le banche non fanno più anticipazioni alle imprese, sui crediti da esse vantate nei confronti delle Pubbliche Amministrazioni, perché mancano di capitali ed anche quando ne sono fornite, come di recente da parte della BCE, diffidano nel prestarlo e lo depositano, in garanzia, presso la stessa Banca Centrale Europea. Contro i dogmi monetaristi, siamo tra quelli che ritengono che un certo tasso, tenuto sotto controllo, di inflazione è fisiologico in qualsiasi sistema economico: infatti, per il fatto stesso che viviamo e produciamo creiamo inflazione. Iperinflazione e deflazione sono due mali come l’inondazione e la siccità. Da evitare entrambi. Ma se un po’ di inflazione è perfino benefica all’economia, la deflazione è la morte stessa per glaciazione della vitalità economica di qualsiasi mercato. La critica monetarista per la quale l’inflazione, provocata dagli Stati o dalle Banche Centrali non indipendenti, sarebbe una tassa ingiusta a danno degli operatori del mercato, non è condivisibile nei confronti del normale saggio di inflazione ma solo eventualmente in caso di iperinflazione (2).

Questo perché, in termini morali, se è vero che nel potere di creazione ex nihilo del denaro è insita una tentazione prometeica di dominio alla quale sono soggetti sia gli uomini di Stato sia i banchieri privati, è pur vero che, essendo l’uomo imago Dei nell’immanenza, laddove tale potere sia esercitato nell’Alleanza con Dio, ossia nell’osservanza dell’etica rivelata, che impone l’uso sociale della creazione monetaria e del denaro in circolazione, esso deve essere ritenuto un dono del Creatore alla creatura umana per consentire un sano dinamismo dello Stato e del mercato. Cattolicamente, le teorie di social credit sono in linea con la morale rivelata e con la bimillenaria tradizione ecclesiale di condanna dell’usura e di favore verso una finanza popolare non autoreferenziale ma al servizio del bene comune. Se il potere statuale di creare moneta è usato, con prudenza ed accortezza, senza fanatismi millenaristici e senza ritenere di aver trovato la panacea universale o la gallina dalle uova d’oro (3), per realizzare programmi di politica sociale, tali da correggere le inevitabili, e storicamente sperimentate, disfunzioni ed iniquità del libero mercato, non è possibile ritenere il monopolio pubblico della produzione di moneta in contraddizione con il Magistero Sociale Cattolico, come pretendono i cattolici liberali o conservatori. Anzi…

Nell’ottica liberista, il rimedio alla crisi finanziaria attuale è indicato nel pareggio di bilancio. Ma questa terapia finirà per ammazzare il malato perché pretende di curarlo iniettandogli maggiori dosi del bacillo che lo sta uccidendo. Gli economisti dell’establishment liberista, e globalizzatore, sono come i medici del ‘600 che praticavano salassi a tutta forza, accelerando la dipartita del povero e sventurato malato. Il liberismo è solo una presunta e rozza scienza economica alla stregua della barbarica medicina seicentesca. Chi – ad esempio Tremonti – ricorda con orgoglio che il pareggio di bilancio fu ottenuto una sola volta in Italia, con il governo liberale della destra storica di Quintino Sella, dovrebbe anche ricordare che quel pareggio fu ottenuto imponendo la tassa sul macinato, ossia sul pane della povera gente, e quindi scatenando una distruttiva carestia ed un tremendo conflitto sociale.

L
equivoca ricezione catto-conservatrice del monetarismo

Abbiamo detto che da quando, a causa degli abusi clientelari che sviarono il keynesismo del dopoguerra, provocandone la crisi, ha ripreso quota il liberismo, si è innescato un processo che ci ha riportato in una situazione simile a quella degli anni Trenta. È necessario, però, per onestà intellettuale, precisare la questione. Milton Friedmann, padre del monetarismo, è un contestatore del central-banchismo. È, in questo, l’erede della Scuola viennese di Von Hayek e Von Mises. Questa scuola, sulla presunzione (della quale i suoi estimatori della destra catto-conservatrice non colgono la radice filosofica) marxiana, della assoluta capacità auto-regolatrice del mercato, ha messo in evidenza certi abusi perpetuati dalle Banche Centrali, quando erano monopoliste, non ancora del tutto indipendenti, del potere di creazione monetaria. Tuttavia la scolastica liberista viennese sconta l’evidentissimo limite, teologico e filosofico, di un atteggiamento anti-politico. In altri termini, i viennesi, e succedanei, non accettano il principio della priorità teoretica e storica del Politico, della Comunità Politica, sulla società civile e sul mercato. Nonostante questa mancanza di prospettiva teologico-politica, il catto-conservatorismo ha fatto propria la visione economica della scuola di Vienna in nome dell’antistatualismo e della sussidiarietà (confondendo però quella verticale, raccomandata dal Magistero, con quella orizzontale, contrattualista e reticolare, propugnata dal liberalismo). Questo esito catto-conservatore è il triste prodotto del grande incidente storico che oppose le monarchie assolutiste, protestanti ed hegeliano-liberali, alla Chiesa tra XVIII e XIX secolo. Un incidente storico che ha fatto dimenticare le magnifiche pagine dell’Aquinate sulla comunità politica di natura, più tardi riprese dai maestri della seconda scolastica (prima che i succedanei seicenteschi di questi ultimi, influenzati dai protestanti Grozio e Pufendorff, rileggessero il naturalismo politico tomista, ordinato al soprannaturalismo della Grazia, in chiave contrattualista e razionalista). Il tomismo, sulla scorta della scoperta aristotelica della ontologica politicità dell’uomo (anèr zoòn politikòn), non ha mai avuto un atteggiamento anti-politico o anti-statuale. Anti-totalitario, intendendo per totalitarismo la degenerazione giacobina della legittima Autorità politica, sì: ma questo è un altro discorso che non può aprire varchi, anche se purtroppo per insipienza di parte cattolica è avvenuto, ad ammiccamenti catto-liberali.

Statizzazione delle Banche Centrali e deficit spending


Chiariti gli equivoci dottrinari del catto-conservatorismo liberista, la questione che deve ora interessarci è l’incidenza del monetarismo nel contesto attuale. Quel che del monetarismo, di eredità viennese, ha fatto scuola, a seguito della accennato crisi anni ‘70 del keynesismo, è stata la lezione sul rigore finanziario e la contrazione, al minimo possibile, della odiata spesa pubblica.

Le Banche Centrali non sono state eliminate come auspicavano i viennesi ma sono diventate gli agenti del monetarismo. Infatti, mentre diventavano sempre più indipendenti dal Politico, i loro governatori hanno fatto propria la lezione rigorista della scolastica viennese. Anzi, si può certamente affermare che lo stesso processo di graduale autonomizzazione delle Banche Centrali dalla Comunità Politica è il prodotto della vittoria ideologica del monetarismo neoliberista. Con il risultato, come detto, di ritrovarci allo stesso punto nel quale si innescò la crisi degli anni Trenta. In mancanza di una Banca Centrale che monetizza i bisogni finanziari degli Stati (in termini tecnici si dice finanziamento gratuito del debito pubblico), questi ultimi, che non possono più essi stessi stampare moneta, sono caduti nelle mani dei money manager e dei fondi speculativi di investimento i quali, per acquistare titoli di Stato, chiedono interessi a tassi usuraici, strozzando i popoli, soprattutto se trattasi di Stati che non godono dello scientifico gradimento delle agenzie di rating (società i cui azionisti sono gli stessi fondi speculativi e le grandi banche d’affari: limpido esempio della trasparenza del libero mercato!). Ecco perché siamo, nella attuale situazione di crisi globale, dalla parte di coloro che, al di là di qualsiasi appartenenza politico-culturale (la questione infatti è diventata del tutto trasversale), invocano al più presto una riforma della BCE. Essa deve diventare, come un tempo le Banche Centrali nazionali, prestatrice di ultima istanza per l’UE e gli Stati aderenti e deve essere trasformata in una banca interamente pubblica. Anzi l’intero sistema bancario dovrebbe essere pubblicizzato, ossia sottoposto a rigido controllo statuale, come fece il fascismo con la Legge bancaria del 1936 che restò, in Italia, il fondamento normativo del settore fino agli anni Novanta, quando iniziò l’ondata privatrizzatrice che ha anche aperto lo spazio giuridico per la trasformazione delle ordinarie banche commerciali in banche dedite alla speculazione finanziaria, esponendo i loro stessi clienti ai rischi più gravi. La BCE è oggi concepita come una federazione delle Banche Centrali nazionali, del tutto indipendenti, l’una e le altre, da qualsiasi controllo o necessità di rendiconto politico verso i governi ed i parlamenti espressi dalla volontà popolare. In quanto federazione delle Banche Centrali nazionali, che sono società anonime partecipate dalle banche private e dalle assicurazioni, la BCE è a sua volta una società anonima privata. Se la BCE fosse interamente pubblica e se si introducessero gli eurobond, il debito sovrano dell’UE, e dei suoi Stati, diventerebbe un debito fittizio. Perché, in tal caso, all’atto dell’emissione di moneta a fronte dell’acquisto dei titoli pubblici europei o degli Stati dell’UE, debitore e creditore coinciderebbero dal momento che, pur nella sussistenza di una distinzione delle personalità giuridiche pubbliche, sia la BCE che l’UE e gli Stati aderenti graviterebbero in un’area giuridica ed economica pubblicizzata.

In tal modo il debito sovrano, creato dall’emissione di titoli di Stati o di eurobond a corrispettivo della creazione monetaria da parte della Banca Centrale, sarebbe, appunto, soltanto fittizio e tutta l’operazione della emissione monetaria soltanto un mero gioco contabile allo scopo di produrre moneta per le necessità della Comunità Politica, ossia degli Stati e/o dell’UE. Questa prospettiva terrorizza i monetaristi ed i liberisti dogmatici di ogni risma. Ad iniziare dalla Merkel, la protestante tedesca, ex funzionaria del Partito Comunista della DDR, oggi a capo della destra conservatrice germanica, affiliata ad un Partito Popolare Europeo che di popolare ormai non ha più nulla.

L’accusa avanzata dai monetaristi è che una riforma come quella sopra suggerita ci riporterebbe all’inflazione galoppante. I rigoristi dogmatici dimenticano però di dire che i Paesi a moneta sovrana, come Argentina e Brasile, crescono oggi al ritmo del 7% l’anno anche se sopportano una inflazione che si aggira tra il 4% ed il 5%.

L’eccesso di inflazione si può evitare accompagnando la statizzazione della Banca Centrale con opportune cautele normative per regolare la funzione dell’emissione monetaria, essendo la moneta un bene comune tra i più importanti. Lo Stato o l’Unione di Stati o la Banca Centrale di Stato devono essere vincolati costituzionalmente a parametri tali da evitare non l’inflazione, quella normale e fisiologica a qualsiasi sistema, ma l’iperinflazione, provocata dall’eccesso di spesa pubblica non produttiva. L’emissione di moneta di Stato o da parte della Banca Centrale di Stato deve essere effettuata in prevalenza, anche se non esclusivamente, per sostenere le spese pubbliche di investimento, ossia produttive di ricchezza, mentre la spesa pubblica corrente, da contenere, deve essere in prevalenza – benché anche qui non esclusivamente soprattutto dove necessita di sostenere, in periodi di recessione, la spesa sociale – finanziata con l’introito fiscale. Questo, naturalmente, in Italia deve comportare la rottura dello scellerato patto stabilitosi, per clientele politiche a partire dagli anni ‘70, tra uno Stato che chiede ai cittadini di chiudere un occhio sulle sue inefficienze a fronte di una larga tolleranza dell’evasione fiscale. Finanziando con la creazione monetaria in prevalenza la spesa pubblica produttiva, si evita – senza privare l’UE e gli Stati della propria sovranità monetaria e senza penalizzare il Welfare – l’eccesso di inflazione, tenendola sotto stretto controllo, perché il rapporto tra quantità di beni e servizi, ossia tra produzione di ricchezza, e quantità di moneta in circolazione sarebbe sempre pressoché in tendenziale equilibrio. L’emissione monetaria per spesa di investimento da un lato rende possibile la produzione di nuova ricchezza, stimolandola, e dall’altro non altera, a consuntivo, l’equilibrio tra massa di beni e massa monetaria. Del resto Keynes, quando parlava di deficit spending, si riferiva espressamente alla spesa pubblica di investimento e non alla spesa corrente. Egli è stato, poi, frainteso dalle caste politiche, nel dopoguerra, che, per motivi di clientela, hanno applicato, storpiandola, la sua ricetta, finanziando eccessivamente la spesa corrente, improduttiva, ed innescando l’iperinflazione (stagflazione) degli anni ‘70 (anche se, come detto, in verità a questa contribuì soprattutto la crisi petrolifera causata dalla guerra arabo-israeliana del 1967, con la restrizione della fornitura di greggio all’Occidente e il conseguente aumento dei prezzi delle materie prime e dei beni di produzione industriale).

Il vicolo cieco della ricetta economica liberista


Fu l’errore di politiche keynesiane troppo funzionali alla spesa pubblica corrente, insieme alla tolleranza del forte tasso di evasione fiscale (l’eccessiva monetizzazione central-bancaria della spesa pubblica corrente serviva, infatti, alla politica proprio per permettere l’evasione fiscale) a rimettere in gioco il liberismo, che aveva perso di ogni credibilità scientifica dai tempi della grande depressione del 1929. Il neoliberismo ha riproposto tutti i veteroconcetti della scuola classica, ad iniziare dal contenimento salariale (da leggersi, in termini attuali, come precarizzazione del lavoro e facilità di licenziamento) quale unico stimolo per le imprese ad assumere. Il diktat liberista suona così: la causa della disoccupazione è l’eccessiva pretesa di aumenti salariali e di tutele da parte dei lavoratori, i quali se si accontentassero di bassi salari e di minori tutele circa il posto di lavoro faciliterebbero le assunzioni da parte degli imprenditori. Non solo: l’aumento salariale – dicono i liberisti, rispolverando la vecchia ed insufficiente legge del Say – comportando maggior quantità di moneta in circolazione provoca inflazione e quindi abbassa il valore effettivo del salario reale anche laddove quello nominale aumentasse (4). Jean Baptiste Say, vissuto a cavallo tra XVIII e XIX secolo, fu nella Francia rivoluzionaria e napoleonica entusiasta seguace di Adam Smith ed alfiere del laissez faire. Nel suo Trattato di economia politica (1803), sulla scorta di una visione riduzionista dell’economia che la interpretava in chiave di fisiologia sociale, formulò la sua legge per la quale «è lofferta a creare la domanda», rovesciando la visione fino ad allora tradizionale per la quale sono i bisogni umani a creare l’offerta. Di fronte all’incapacità della scuola classica liberista a spiegare le motivazioni profonde della persistente disoccupazione nell’economia capitalista avanzata e della devastante depressione del 1929, Keynes si convinse che la legge del Say non era in grado di interpretare l’effettivo funzionamento di una moderna economia di mercato. Nel Trattato generale delloccupazione, dellinteresse e della moneta (1936) Keynes rivoluzionò l’interpretazione delle dinamiche economiche del sistema capitalista. Nella interpretazione liberista, fondata sulla legge del Say, il livello di attività economica è determinato dall’incontro tra domanda ed offerta di lavoro espresse in funzione del salario reale. Quindi l’equilibrio sarebbe raggiunto in corrispondenza di un salario reale, generalmente basso, al quale tutti coloro che vogliono lavorare possono farlo. Secondo tale paradigma, dunque, la disoccupazione involontaria è impossibile ed i lavoratori disoccupati sono tali solo per loro colpa in quanto pretendono, con l’ausilio dei sindacati, salari più alti di quello reale determinato dal libero gioco del mercato e dalla contrattazione individuale tra datore di lavoro e lavoratore. Il tentativo di costringere il datore di lavoro a contrattazioni collettive è di per sé un ostacolo al raggiungimento dell’equilibrio salariale stabilito dal mercato. Non è un caso se Jean Baptiste Say fosse un contemporaneo di Isaac René Guy Le Chapellier il noto rivoluzionario, prima giacobino e poi fogliante ossia moderato, il quale nel 1791 fece promulgare la legge, che prese il suo nome, con la quale venivano abolite le corporazioni di arti e mestieri, l’apprendistato ed i compagnonaggi (ossia i proto-sindacati) in nome della rousseviana Volontà Generale (un altro idolo filosofico panteista come il libero mercato) con il fine di porre l’uno di fronte all’altro senza alcuna mediazione il singolo e lo Stato, imponendo il divieto di coalizione penalmente sanzionato. Può dirsi, in un certo senso, che tutto il sindacalismo moderno altro non è che una denuncia delle leggi di Le Chapellier e del Say, partorite dalla Rivoluzione anticristiana del 1789.

Keynes contrappose al paradigma liberista, risalente alle teorie del Say, uno schema interpretativo molto più scientificamente capace di spiegare la realtà di un moderno sistema capitalista. Per Keynes, infatti, il prodotto nazionale dipende dal livello della «domanda aggregata», che è costituita dalle autonome decisioni di spesa delle famiglie (i consumi), delle imprese (gli investimenti), della pubblica amministrazione (la spesa pubblica al netto delle imposte), e dell’estero (le esportazioni al netto delle importazioni). Il livello di occupazione è, quindi, quello corrispondente al livello del prodotto nazionale come determinato dalla domanda aggregata, sicché il salario reale, al quale le imprese sono disposte ad assumere, è in funzione del livello del prodotto nazionale. Ma dal momento che i lavoratori a disposizione possono essere molti di più del livello di produzione nazionale in un dato periodo storico, l’ipotesi della disoccupazione involontaria, a differenza di quanto sostengono i liberisti, è del tutto plausibile. Per eliminare la disoccupazione e tendere al pieno impiego è dunque necessario aumentare la domanda aggregata. Keynes ha, in sostanza, dimostrato che non è possibile assorbire la disoccupazione diminuendo i salari in quanto tale diminuzione indurrà un peggioramento delle aspettative di domanda delle imprese e, di conseguenza, degli investimenti. La caduta degli investimenti provoca, poi, una contrazione della produzione dalla quale deriva inevitabilmente un abbassamento dei prezzi, a causa della recessione conseguente all’aumento di disoccupazione, fino ad annullare lo stimolo alle assunzioni indotto, per i liberisti, dalla riduzione dei salari. L’unica via sicura, secondo Keynes, per ridurre la disoccupazione sono politiche mirate ad aumentare la domanda aggregata, ad iniziare dal deficit spending. Il diktat liberista sul contenimento dei salari e della spesa pubblica, in funzione anti-inflazionista, non tiene per niente conto dei maggiori costi, anche per le imprese, che comportano le tensioni sociali, dentro e fuori le fabbriche, laddove invece la pace sociale è un bene comune sia per il capitale che per il lavoro. Le ricette restrittive del liberismo se all’inizio appaiono efficaci nel contenere la pressione inflazionista, alla lunga provocano deflazione, alta disoccupazione e spreco di risorse pubbliche e private per il mantenimento dell’ordine civico a fronte delle inevitabili tensioni sociali. Quello dell’inflazione fu l’aspetto meno considerato, ma solo relativamente, da Keynes. Egli partiva dal condivisibile assunto per il quale il mercato è fondamentalmente incapace di auto correggersi. Questo significa che il laissez faire porta ad un equilibrio di sottoccupazione senza generare automaticamente ulteriori aggiustamenti tali da riassorbire l’eccesso di manodopera. Si rendono così necessarie politiche di intervento governativo per stimolare l’economia. A partire dagli anni Trenta e per tutto il dopoguerra, almeno fino agli anni ‘70, le politiche keynesiane hanno avuto ampio successo permettendo il grande sviluppo post-bellico dell’Occidente ed il quasi pieno impiego.

Ma dagli anni ‘70 insorse il problema dell’inflazione che fu causata da un eccesso di spesa pubblica corrente ma, soprattutto, dagli effetti della crisi petrolifera di quel decennio. L’analisi del problema dell’inflazione non era affatto assente nella Teoria di Keynes, ma le politiche keynesiane avevano sottovalutato questo aspetto. Da quel momento, sotto la spinta delle risorgenti idee liberiste, nella nuova forma del monetarismo di Milton Freidmann, furono messe in atto politiche di aumento dei tassi di interesse e di aumento della pressione fiscale, allo scopo di ridurre la quantità di moneta in circolazione per stabilizzarne il valore e quindi combattere l’inflazione. Il risultato di tali politiche, nel medio e lungo periodo, è stato quello di contrarre produzione ed occupazione. Anche la cosiddetta politica dei redditi, finalizzata a guidare l’andamento dei salari e dei prezzi, non ha dato risultati straordinari. La questione, forse, sta molto semplicemente nel fatto che, non essendo nelle umane possibilità la realizzazione del paradiso in terra, ogni tentativo, che pur è stato incautamente effettuato, di addossare al keynesismo attese millenaristiche è errato. Il pieno impiego non è mai ottenibile senza scontare una deformazione inflazionista. Ma la scelta contraria è quella, socialmente cinica e cristianamente immorale, della accettazione come inevitabile di un certo tasso, generalmente alto, di disoccupazione. La disoccupazione, in altri termini, per il monetarismo è fisiologica al sistema, normale e da accettarsi affinché il valore della moneta non sia alterato a svantaggio dei profitti capitalistici e degli investimenti. In questi ultimi quarant’anni di graduale trionfo del monetarismo, l’aumento dei profitti del capitale a danno della remunerazione del lavoro non ha affatto comportato aumento di investimenti, e quindi di occupazione come promettevano i liberisti, salvo quelli connessi alla delocalizzazione, consentita dalla globalizzazione, verso i Paesi emergenti a basso salario. Questo perché i maggiori profitti del capitale si sono indirizzati, secondo la logica egoistica del laissez faire, verso la speculazione finanziaria. L’unica risposta, socialmente e cristianamente coerente, al diktat immorale del neoliberismo monetarista è quella per cui, salvo impedire ad essa di uscire dal controllo e di diventare iperinflazione, un tasso ragionevolmente contenuto di inflazione è normale al funzionamento di un capitalismo sociale e resta comunque – dovendo scegliere tra tendenziale pieno impiego e sicura disoccupazione di massa – il minore dei mali, rispetto alla ben più distruttiva deflazione. Certamente un eccesso di rivendicazioni, soprattutto se demagogiche, da parte dei lavoratori, come ogni eccesso, è distruttivo. Marx però, almeno in questo, aveva visto giusto: il capitalismo imponendo l’aumento costante del saggio di profitto imprenditoriale non può che comprimere i salari, che sono il costo principale della produzione, ma così facendo provoca l’abbassamento del potere d’acquisto, le merci prodotte di conseguenza restano invendute ed, alla lunga, sopraggiunge la caduta del saggio di profitto che pur si voleva aumentare, innescando una china recessiva che porta al fallimento del libero mercato.

Proprio perché riconosceva giusta questa analisi economica di Marx ma, poi, non ne approvava le soluzioni comuniste né le attese palingenetiche, Keynes guardava all’intervento dello Stato, mediante il deficit spending, come l’unica possibilità di salvare ciò che di buono vi è nell’economia capitalista, coniugandola con le prioritarie esigenze sociali ed etiche, imposte dalla legge di natura e chiaramente avvertite dalla coscienza umana, che facendo leva sulle tendenze comuniste trovano un fertile terreno di coltura per diffondersi.

Esiste, a nostro giudizio, una via per evitare estensioni improprie della prospettiva keynesiana: quelle che caricandola di impossibili attese escatologiche spingono verso un eccesso di inflazione per soddisfare presunti bisogni – in realtà capricci relativistici – che non sono affatto tali né tanto meno primari. È la soluzione caldeggiata dalla Dottrina Sociale Cattolica ossia la soluzione partecipativa che, per ottenere migliori retribuzioni per i lavoratori senza penalizzare il profitto delle imprese e senza spingere troppo in là la pressione inflazionista, auspica il riavvicinamento – fino, dove possibile, alla fusione – tra lavoro e capitale, mediante ogni mezzo a ciò adatto: dalla partecipazione agli utili, al salario di produttività, alla cogestione aziendale e via dicendo.

Il liberismo – oggi come già accadde negli anni Trenta del secolo scorso –  ci sta riportando, inevitabilmente, in una situazione di sovra-produzione che è un termine eufemistico per intendere deflazione ossia mancanza, da parte dei lavoratori, di potere d’acquisto sufficiente ad assorbire la produzione.

La sovra-produzione da deflazione comporta, di conseguenza, l’abbassamento del saggio di profitto, che ha sua volta comporta un costante aumento dei licenziamenti, cui conseguono ancora minori consumi e, a catena, un ulteriore riduzione dei profitti e maggiori contrazioni dei salari e dell’occupazione. Le politiche liberiste, in altri termini, alla lunga innescano sempre una perversa spirale recessiva che alla fine sfocia nella depressione globale. Keynes, dunque, aveva visto giusto quando affermava che il mercato non possiede affatto quei presunti meccanismi automatici tali da renderlo equo e foriero di benessere, pace e felicità universali come il millenarismo liberista pretende (tra l’altro chiamando «equilibrio» e «felicità» la abissale disuguaglianza che il liberismo produce inevitabilmente). Per uscire dal vicolo cieco nel quale il liberismo ha, di nuovo, condotto l’economia occidentale, occorre, come insegnava Keynes, anche oggi l’intervento pubblico di investimento che, unito ad una riforma del sistema central-bancario (da riportare sotto imperio pubblico e politico) ed a una regolazione su scala globale dei mercati finanziari, per imporre alla finanza, attualmente autoreferenziale, parassitaria e speculativa, il servizio all’economia reale, restituirebbe fiducia ai popoli nel proprio avvenire. Una idea buona, nella direzione di una maggiore e seria regolamentazione della finanza, è senza dubbio quella di Maurice Allais, premio Nobel ed economista viennese pentito, consistente nel vietare al sistema bancario di effettuare prestiti a medio-lungo termine in proporzione superiore agli effettivi depositi bancari disponibili, per evitare in tal modo il prodursi della causa prima di tutte le bolle speculative ossia la creazione ex nihilo di moneta bancaria senza sottostante reale.

Keynes
, il borgomastro di Wörgl e Silvio Gesell

Ai talebani del rigorismo liberista che, paventando il pericolo dell’inflazione come una sorta di Al Qaida economica, continuano, come faceva la nomenclatura sovietica mentre il sistema cadeva a pezzi, nell’imporre politiche monetarie e finanziarie restrittive, che ci stanno uccidendo, bisogna opporre esempi storici di come sia possibile allo Stato governare l’emissione di moneta in modo da fermarsi laddove iniziano a mostrarsi segni di eccesso inflattivo o da restringere la quantità di moneta circolante mediante opportune tassazioni una tantum senza reinvestimento pubblico delle entrate erariali. Un esempio può essere dato da come si comportò, saggiamente, il sindaco della cittadina austriaca di Wörgl, all’indomani del primo conflitto mondiale. Quel Comune era con le casse vuote. Il suo borgomastro applicò le teorie di Silvio Gesell (un geniale eterodosso dell’economia, socialista proudhoniano e, a suo tempo, ministro della repubblica socialista bavarese) sulla cosiddetta «moneta prescrittibile» e stampò moneta comunale che scontava ogni mese un bollino da apporre sulle banconote stesse affinché esse non perdessero valore per un dodicesimo del totale. Il ricavato dell’acquisto dei bollini entrava nella casse comunali. In tal modo quel sindaco aumentò del 12% le entrate erariali, senza aumentare le tasse e favorendo al contempo il benefico aumento della circolazione, ora non più rarefatta, di moneta nel circondario e nei circondari vicini. L’esperimento durò fino a quando una delle banconote di Wörgl capitò in uno sportello della Banca Centrale austriaca che intervenne imponendo la fine dell’esperimento (5).

Ebbene, quel borgomastro, che, tramite la sua moneta geselliana, riuscì ad riavviare l’economia locale ed a realizzare un vasto programma di opere pubbliche, quando si rese conto che la produzione di moneta stava diventando eccessiva la fermò onde consentire al mercato di riassorbire la massa monetaria in eccesso e di riequilibrare il rapporto tra moneta e produzione. Come si vede, non sta scritto da nessuna parte che un politico non possa essere un saggio amministratore e dunque anche un saggio gestore del monopolio pubblico dell’emissione monetaria. È una questione di etica religiosa e politica. Certo, se invece di uomini degni, si eleggono nani e ballerine non si può essere sicuri di un uso oculato e socialmente benefico di quel potere, salvo vincolarlo a precise norme cogenti finalizzate ad imporre un comportamento come quello del sindaco di Wörgl laddove iniziano a sorgere segni di inflazione eccessiva.

Diceva Ezra Pound che «Il tesoro di una nazione è la sua onestà». Il grande poeta americano intendeva dire che laddove si registra un cedimento valoriale ed antropologico dell’umanità, come è accaduto nell’Occidente nichilista post-cristiano, nessuna politica o riforma monetaria può dare frutti di bene comune. Keynes – sia detto en passant – era un estimatore, sebbene critico, di Silvio Gesell. L’economista inglese cita espressamente Gesell nella sua Teoria generale del 1936 dandone una valutazione lusinghiera benché metta in luce anche certe debolezze scientifiche dell’idea della moneta prescrittibile. Ciononostante Keynes riconobbe a Gesell (ed in misura minore al Maggiore Douglass, un altro economista eterodosso degli anni Trenta, di indirizzo populista e teorico di una forma di social credit, che riteneva un dilettante) il merito di aver individuato le ragioni, che agli economisti ortodossi ossia liberisti, sfuggivano dell’incapacità del mercato ad assicurare il tendenziale pieno impiego. In un mondo ove ormai esistono le basi tecnologiche per assicurare una vita dignitosa a tutti – dice Keynes a riguardo di Gesell – egli si era avventurato in campi della scienza economica ignorati dalla saccenza dell’ortodossia ufficiale, ancora dogmaticamente ancorata alla legge del Say, cercando di dare una risposta, non priva di elementi di verità scientifica, allo spettacolo del persistere della disoccupazione e di enormi sacche di povertà in mezzo all’abbondanza ed alla sovra-produzione di beni che, per mancanza deflattiva di potere d’acquisto, rimangono invenduti nell’insoddisfazione, anti-umana ed anti-economica, dei bisogni vitali.

In altri termini, qui Keynes, il quale poi svilupperà su basi più scientifiche quell’intuizione, riconosce a Gesell il merito di aver intuito che alla radice del mancato incontro tra domanda effettiva ed offerta sta il problema della moneta, intorno al quale ruota tutta l’economia. Come abbiamo detto Keynes non ha mai dimostrato interesse verso il Cattolicesimo, eppure egli, forse senza saperlo, finisce per attingere alla sapienza biblica proprio quando dimostra che la moneta è strumento, benefico o malefico a seconda di come lo si usa (e questo, detto per inciso, dipende dalla filosofia monetaria di riferimento e quindi dalle scelte etiche e spirituali che vengono pre-opzionalmente fatte), da cui dipende il bene sociale o la rovina della comunità. «Faceva sì che tutti, piccoli e grandi, ricchi e poveri, liberi e schiavi, ricevessero un marchio sulla mano destra e sulla fronte; e che nessuno potesse comprare o vendere senza avere tale marchio» (Apocalisse 13, 16-17).

(fine seconda parte di 4)

Luigi Copertino


Il Golpe (parte I)
Il Golpe (parte III)
Il Golpe (parte IV)





1
) Sulle radici spurie dei presupposti teologici e filosofici di Keynes e di Von Hayek si veda l’ottimo saggio del professor Adriano Nardi Il fermento gnostico nelle dottrine economiche del XX secolo, in Ennio Innocenti, La gnosi spuriail 900, pagine 411-419, Sacra Fraternitas Aurigarum in Urbe, Roma, 2011.
2
) Sulla critica monetarista al monopolio statuale e central-bancario del potere di emissione della moneta si veda il tentativo di leggerla in chiave cattolica – un tentativo a nostro giudizio maldestro ed ideologicamente inquinato in senso filoliberista – di cui al testo di J. G, Hülsmann L’etica della produzione di moneta, Solfanelli, Chieti, 2011.
3
) La tentazione millenarista, ossia quella di aver trovato la risposta definitiva ai problemi economici dell’umanità, è, a nostro giudizio, l’errore di un divulgatore, come Paolo Barnard, della interessante Nuova Teoria Monetaria dell’economista americano neokeynesiano Randall Wray. Una teoria, quella citata, che ha moltissimi elementi di verità. Si deve, però, come è stato fatto per la teoria di Keynes, evitare di caricarla di attese palingenetiche che, laddove essa trovasse realizzazione concreta, porterebbero inevitabilmente ad abusare in modo improprio, ossia per soddisfare iper-inflazionisticamente non i veri bisogni umani ma i presunti diritti postulati da certa cultura liberal, dello strumento monetario, prestando il fianco alla rivincita del liberismo tale da travolgere anche le politiche sociali o di social credit.
4
) Si noti che è su questa base che, a partire dai governi socialisti di Craxi, si è inaugurata in Italia, parallelamente a quanto accadeva in tutto l’Occidente sulla scorta della reaganomics, la cosiddetta politica dei redditi consistente nel contenimento, presuntivamente anti-inflattivo, dei salari, nell’intenzione di favorire l’accumulo del capitale per aumentare gli investimenti. In realtà, l’accumulo di capitale non fu poi giocato nell’economia reale, sottoforma di investimenti, ma dirottato, dal libero gioco dellinteresse privato verso i paradisi artificiali della finanza speculativa. È naturale che in assenza di un’Autorità Politica che indirizzi, mediante opportune politiche di instradamento, il capitale verso esiti sociali, gli interessi privati finanziari, per definizione indifferenti alla realtà comunitaria di appartenenza, si rivolgano laddove i profitti sono maggiori a minor costi.
5
) Un esperimento simile è stato messo in atto, con altrettanto benefici risultati per la strozzata economia locale, da Giacinto Auriti, docente di Teoria Generale del Diritto all’Università di Teramo, nel 2000 a Guardiagrele, in provincia di Chieti, con l’emissione di una moneta locale denominata Simec (Simbolo Econometrico). Inutile dire che anche in tal caso l’interveto della Banca d’Italia pose fine all’esperimento, che tuttavia destò notevole interesse in tutto il mondo tanto che nella cittadina abruzzese si precipitarono persino le telecamere della CNN e gli inviati di notissime testate giornalistiche e televisive nazionali ed internazionali.



L'associazione culturale editoriale EFFEDIEFFE, diffida dal copiare su altri siti, blog, forum e mailing list i suddetti contenuti, in ciò affidandosi alle leggi che tutelano il copyright.   


 
Nessun commento per questo articolo

Aggiungi commento


La Dittatura Terapeutica
L’unica ed estrema forma di difesa da questo imminente, sottovalutato, tragico pericolo particolarmente grave per l’Italia, è la presa di coscienza
Contra factum non datur argomentum
George Orwell con geniale e profetico intuito, previde l’oscuramento delle coscienze, il tramonto della civiltà, l’impostura e apostasia dalla verità che viviamo, quando scrisse “nel tempo...
Libreria Ritorno al Reale

EFFEDIEFFESHOP.com
La libreria on-line di EFFEDIEFFE: una selezione di oltre 1300 testi, molti introvabili, in linea con lo spirito editoriale che ci contraddistingue.

Servizi online EFFEDIEFFE.com

Archivio EFFEDIEFFE : Cerca nell'archivio
EFFEDIEFFE tutti i nostri articoli dal
2004 in poi.

Lettere alla redazione : Scrivi a
EFFEDIEFFE.com

Iscriviti alla Newsletter : Resta
aggiornato con gli eventi e le novita'
editorali EFFEDIEFFE

Chi Siamo : Per conoscere la nostra missione, la fede e gli ideali che animano il nostro lavoro.



Redazione : Conoscete tutti i collaboratori EFFEDIEFFE.com

Contatta EFFEDIEFFE : Come
raggiungerci e come contattarci
per telefono e email.

RSS : Rimani aggiornato con i nostri Web feeds

effedieffe Il sito www.effedieffe.com.non è un "prodotto editoriale diffuso al pubblico con periodicità regolare e contraddistinto da una testata", come richiede la legge numero 62 del 7 marzo 2001. Gli aggiornamenti vengono effettuati senza alcuna scadenza fissa e/o periodicità