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Ancora sull’attendibilità della Scrittura
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Vorrei proseguire il discorso finora affrontato solo in maniera frammentaria e non sistematica, legato all’attendibilità delle fonti cristiane. Esiste infatti una verità profonda che non può essere sottaciuta e su cui occorre riflettere: se i santi Vangeli sono davvero storia, se si occupano di narrare un fatto realmente accaduto davanti a testimoni oculari, allora la «sfida» della fede non può lasciare indifferenti. L’idea di un fatto che permei la sostanza dell’adesione personale ad una Verità rivelata, pone il cristianesimo in una prospettiva necessariamente differente rispetto alle altre credenze e tradizioni religiose; è una pretesa, che, se vera, ci porta davanti ad un bivio: assolutamente vero o assolutamente falso.

Il lettore saprà per certo che il supporto per la scrittura maggiormente utilizzato nell’antichità è stato il papiro. Esso è ottenuto dal midollo ricavato dal fusto triangolare della pianta di papiro, dal quale tolta la corteccia si ottenevano tante strisce molto sottili, tagliate nel senso della lunghezza del tronco. Le strisce ottenute venivano poi poste a bagno (lavate) e lasciate macerare, per favorire la fuoriuscita del succo della pianta, il quale così produce una sorta di colla capace di tenere assieme le varie strisce, poste l’una affianco all’altra. Le foglie venivano quindi fatte essiccare, erano pressate e se del caso levigate con pietre. Le tecniche di lavorazione sono tuttavia differenti, come distinte sono le qualità di papiro rinvenuto.

Esistevano sostanzialmente due metodi per mettere insieme i fogli di papiro: il primo consisteva nell’incollare un foglio accanto all’altro, in modo da ottenere un rotolo, avvolto appunto alle estremità ad un bastoncino. Il lato sul quale veniva scritto il rotolo si chiamava «recto» (che poi finiva all’interno del rotolo), l’altro «verso» (all’esterno del rotolo stesso); raro è il rotolo «opistografo», scritto su entrambi i lati. La lettura era consentita srotolando il rotolo con una mano da un lato e riavvolgendolo dall’altro con l’altra mano. Solitamente il testo era scritto suddiviso in colonne affiancate. La tecnica di lavorazione del papiro incideva notevolmente sui costi; per questo gli scribi cercavano di «guadagnare spazio» utilizzando la cosiddetta scriptio continua e senza accenti o segni di interpunzione; questo (il costo di lavorazione) fu anche uno dei motivi che indusse a passare  dal «rotolo» al «codice» (il secondo metodo; siamo sul finire del I secolo dopo Cristo).

Il codice somiglia molto ad un libro; la lettura si faceva sfogliando e non srotolando: era scritto fronte/retro su fogli rettangolari che venivano poi piegati in due o quattro parti; essi venivano poi cuciti assieme a formare appunto il codice. E’ importante sottolineare che il cristianesimo primitivo comprenderà immediatamente l’utilità del codice; sarà infatti il primo a lasciare da parte il rotolo. Sebbene sia possibile affermare che il rotolo abbia avuto un utilizzo a partire dal primo secolo, il suo abbandono per passare al codice fu lento (i frammenti più antichi in assoluto sono: P.Yale 1, papiraceo, scritto tra l’80 e il 100 dopo Cristo e P.Oxy. I 30 codice pergamenaceo in latino scritto attorno al 100 dopo Cristo circa: il primo è un passo della Genesi, l’altro, un’opera latina non nota).

Il cristianesimo precorrerà i tempi, forse anche perché, come sostiene lo studioso Skeat, si ebbe la necessità sia di congelare il canone del Nuovo Testamento (in particolare dei 4 Vangeli) sia di poterlo trasportare con maggiore facilità (altrimenti sarebbe stato necessario avere rotoli di oltre 30 metri, limitandoci ai soli Vangeli).

Per onore del vero, occorre dire che esistevano altre versioni papiracee di documenti: i palinsesti. Si tratta di un manoscritto che è stato scritto sopra un testo preesistente, cancellato in qualche modo. Il motivo della sovrapposizione è forse legato a questioni economiche (si andava al risparmio, pensando bene magari di poter sacrificare opere pagane a vantaggio di un’opera cristiana da sovrascrivere: ma siamo nel campo delle ipotesi).

Tra la fine del III secolo dopo Cristo e l’inizio del IV secolo dopo Cristo, cambia il supporto materiale utilizzato dalla scrittura: dal papiro gradualmente si passerà alla pergamena (il cui uso è comunque attestato sin dal VI secolo avanti Cristo), ricavata dalle pelli degli animali (il trattamento delle pelli prevedeva rasatura, pulitura, essiccazione, levigatura e trattamento sbiancante con calce). Essa si preferì al papiro in particolare per la migliore durata.

Fatta questa doverosa premessa, entriamo «in re». Non esistono testi antichi a noi pervenuti nella forma dell’«originale». Esso è ricavabile soltanto mediante il confronto tra le diverse versioni testuali pervenuteci. Esiste a questo punto già un dato straordinario per il cristianesimo: i documenti originali, risalenti al primo secolo, risultano già, anche se in parte e in modo frammentario, documentati con papiri in forma di codice del I secolo o della prima metà del II secolo. Nessun altro testo dell’antichità può vantare una prossimità tale di documentazione manoscritta.

Seconda riflessione importante: nessun testo antico è in grado di vantare una forma canonicamente ben definita (pensate ai poemi omerici, per esempio, o ai trattati di filosofia: per essi si dovrà attendere il medioevo: Tacito, Svetonio, Dione Cassio, Flavio Giuseppe, Filone Alessandrino e altri sono documentabili nella loro opera completa solo dopo il X secolo!!!), come invece succede per la Sacra Bibbia (che già nel IV secolo dopo Cristo presenta ben due codici completi: il Codex Vaticanus (B)17 e il Codex Sinaiticus (a).

Questo accadde proprio perché il dato testuale era trattato con sacralità e quindi rigorosamente rispettato (riportato e scritto più volte). Se questo è vero, al contrario è assolutamente falso pensare che la penuria di altra documentazione sia stata determinata dal fatto che la cristianità si preoccupò di cancellare la produzione dei testi pagani precedenti; è vero il contrario. La cultura cristiana salvò testi antichissimi e li riprodusse; tale asserzione trova facile riscontro se si getta lo sguardo in estremo Oriente (India, Cina) oppure nelle Americhe precolombiane, dove il cristianesimo era assente: l’attività di amanuense resta precipuamente cristiana.

Passiamo ora in rassegna le testimonianze papiracee di maggiore interesse.

Particolarmente interessante è lo studio portato avanti sui rotoli del Mar Morto da parte del gesuita Josè O’Callaghan, docente presso il Pontificio Istituto Biblico. Costui si disse in grado di provare la piena rispondenza di alcuni frammenti rinvenuti nelle grotte di Qumran; parliamo in particolare del quinto frammento della grotta settima: 7Q5, identificato con Marco 6,52-53; e del quarto frammento: 7Q4, identificato, solo in parte, con 1Tm 3,16-4,1.3 (tuttavia, a ben vedere, egli aveva identificato come testi neotestamentari anche diversi altri frammenti appartenenti alla grotta settima: 7Q8=Giac 1,23-24; 7Q6=Atti 27,38; 7Q7=Marco 12,17; 7Q9=Romani 5,11-12; 7Q10=2Pt 1,15; 7Q15=Marco 6,48).

La datazione certa del primo frammento 7Q5 risale al 50 dopo Cristo. La comunità scientifica è divisa; una parte nega pieno valore alle tesi del gesuita (ma come può essere altrimenti! Si negherebbe anche l’evidenza da parte di nemici della verità). Origene testimonia che il primo Vangelo ad essere scritto fu quello di Matteo (la cui prima versione fu in ebraico), non quello di Marco!, quindi la datazione dell’inizio della stesura del Nuovo Testamento si avvicina di molto alla crocifissione, morte e risurrezione di Cristo. Questo rende tali scritti assolutamente attendibili.

I papiri di Magdalen (P64)

Lo studioso Peter Thiede, seguendo un approccio paleografico standard - mediante confronto tra lo stile di scrittura del P64 e quello di altri papiri di datazione più sicura in particolare quelli di Qumran (stop archeologico al 68-70 dopo Cristo) e quelli di Ercolano (stop archeologico al 79 dopo Cristo - eruzione del Vesuvio) - ed avvalendosi di strumenti tecnologicamente all’avanguardia, come la microscopia elettronica, concluse che il frammento P64 sarebbe addirittura databile al I secolo dopo Cristo, scritto attorno al 50 dopo Cristo (prima della guerra giudaica). L’ipotesi non è accettata uniformemente in dottrina, ma certamente costringe a ripensare - retrodatando - l’epoca della prima stesura, evitando di collocarla molto lontano nel tempo.

Il Papiro di Rylands (P52)
frammenti del Vangelo secondo Giovanni (Giovanni 18,31-33. 37-38)

V’è uniformità da parte della comunità scientifica nel datare questi frammenti intorno al 125 dopo Cristo; il codice, scritto in greco (scriptio continua), riguarda un passo del Vangelo di San Giovanni: riguarda la narrazione del dialogo tra Gesù e Pilato, la cui effettiva esistenza storica è stata di recente confermata (1961) dal ritrovamento (a Cesarea Marittima) di una lapide del I secolo in cui si legge chiaramente il nome di Pilato. Il 125 dopo Cristo obbliga ad una riflessione importante: tra l’originale di Giovanni (certamente della fine del I secolo) e questo pezzo di papiro sarebbero passati meno di 30 anni: nessuna altra opera dell’antichità ha reperti manoscritti così vicini all’originale. Il Papiro Chester Beatty II (P46), inizialmente datato al 180-200 dopo Cristo (fine del II secolo) contenente resti delle lettere di Paolo, ha visto una nuova ipotesi di datazione ad opera del papirologo Young Kyu Kim, il quale ha proposto che questo papiro venga retro datato addirittura alla fine I secolo.

Papiro Egerton

La datazione per la stesura del papiro è collocata attorno al 140-160 dopo Cristo, farebbe di esso un frammento greco molto antico, dell'inizio del II secolo.

Non esiste, non soltanto una fede, ma neppure una storia che abbia tanto credito e tanto spazio documentale. Voler non credere sulla base di una propria asserita scientificità costituisce sempre più un atto falso, irrazionale e paradossalmente non scientifico.

Stefano Maria Chiari



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