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Dopo Darwin: le sorprese della scienza post-moderna
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In un nostro precedente articolo (1) abbiamo fatto riferimento alla consueta datazione della comparsa dell’uomo di specie Sapiens che è fatta risalire a circa 100 mila anni fa. Alcune recenti scoperte sembrano invece retrodatare di centinaia di migliaia di anni la comparsa del Sapiens, fino ad almeno 700/800 mila anni fa. Si tratta di scoperte passate sotto silenzio nei media benché esse stiano provocando un vero e proprio terremoto negli ambienti scientifici, nonostante anche in essi si cerchi da parte dei difensori dell’ortodossia darwinista di sminuirle o nasconderle. La ragione di tutto questo nascondimento sta nel fatto che queste ricerche hanno messo in crisi la scala gradualista dell’evoluzione come supposta da Darwin e sulla base della quale ancora oggi si fa credere che il Sapiens sia il discendente di altri più primitivi ominidi.

Sembra ormai chiaro che invece non esiste alcuna continuità tra l’austrolopiteco, l’homo Erectus, l’homo Ergaster, l’homo Heidelbergensis, il Neanderthal ed, infine, il Sapiens. Non vanno posti, come ancora si fa erroneamente vedere nei libri di scuola, in sequenza «evolutiva». In realtà andrebbero posti come linee collaterali o parallele perché si trattava di specie diverse il cui DNA era completamente dissimile e pertanto, quando contemporanee come il Neanderthal ed il Sapiens, impossibilitate ad accoppiarsi tra loro. Dunque il problema di fondo è: come e da dove compare, all’improvviso, il Sapiens, l’unico che ci interessa direttamente perché si tratta della nostra stessa specie? La storia dell’uomo inizia solo con il Sapiens mentre gli altri presunti «ominidi» risultano appartenere ad altre specie, con altre caratteristiche e soprattutto senza una vera spiritualità benché, come sembra, fossero dotati, analogicamente agli animali, di una elementare capacità astrattiva («pensiero discorsivo», anche primitivo, e «spirito», ossia in altri termini livello ontologico spirituale o «capacità di Dio», non sono affatto la stessa cosa ed è lo «spirito», l’«anima spirituale», il «ruach» di cui parla il Genesi, infuso direttamente da Dio in Adam, a distinguere l’uomo dagli animali). Non stiamo naturalmente ipotizzando una ricostruzione sulla base di una di lettura letterale della Scrittura, che lasciamo volentieri alla sub-cultura dei fondamentalisti protestanti americani. Ci rifacciamo semplicemente a notizie di carattere scientifico di recente diffusione, che abbiamo tratto da Maurizio Blondet il quale a sua volta cita «Science», 19 gennaio 1996, pagina 277 (2).

Si tratta di una «sconvolgente» e recente scoperta effettuata nel 1994 in Spagna, ad Atapuerca, presso Burgos, da un gruppo di paleontologi guidati da Antonio Rosas, direttore del Museo di Scienze naturali di Madrid: i resti, il cranio ed altre ossa, di alcuni esseri umani, di età adolescenziale, vissuti circa 800 mila anni fa. La scoperta sconvolge tutto il bel quadretto darwiniano, perché si tratta di esseri umani «di fattezze moderne. Precisamente uguali a noi», come ha ammesso, a caldo, il professor Rosas. La scoperta è una ulteriore conferma della crisi del darwinismo ufficiale, già in crisi dal punto di vista della genetica, anche sotto il profilo paleontologico. Essa, infatti, inserisce «fuori tempo», nella sequenza temporale darwinista, un esemplare umano antico di 800 mila anni ma di fattezze moderne, in sostanza un Sapiens. Secondo la sequenza temporale del darwinismo i primi ominidi, finora ritenuti forme arcaiche di Homo Sapiens - note appunto come Erectus, Ergaster, Heidelbergensis - sarebbero i presunti discendenti delle celebri australopitecine, le scimmie camminatrici (gambe da savana, non da arboricolo), e si sarebbero mossi dall’Africa per popolare l’Europa 1,8 milioni di anni fa. In realtà le stesse australopitecine, alla luce di recenti studi, sembrano essere state nient’altro che una specie ormai estinta di scimmie senza alcun collegamento evolutivo con i predetti «ominidi», supposti ascendenti del Sapiens. Ora, i primi fossili europei di quegli uomini primitivi (Erectus, Ergaster, Heidelbergensis) si trovano in Europa solo da mezzo milione di anni fa, uguali a uomini similmente primitivi vissuti, contemporanei, in Africa. Fra il momento della presunta emigrazione dall’Africa (1,8 milioni di anni fa) e i primi resti umani in Europa (500 mila anni fa) c’è dunque uno iato enorme, vuoto di fossili. In questo immenso vuoto temporale, la scoperta di Atapuerca pone un Sapiens antico di 800 mila anni già bello che formato. In tal modo, la sequenza darwiniana ne rimane sconvolta perché l’Homo di Atapuerca è più moderno dei suoi presunti discendenti Ergaster, Erectus, Heidelbergensis. L’Homo di Atapuerca è caratterizzato dai segni di «eruzione dentale ritardata», propria dei bambini moderni nonché dalla faccia che scende verticalmente. Non vi appare, cioè, il brutale prognatismo, la proiezione orizzontale in avanti dei nostri presunti antenati fossili: non è un muso che sta diventando una faccia, è una faccia vera e propria, «di topografia pienamente moderna», ha attestato Juan Luis Arsagua, paleoantropologo dell’Università Complutense di Madrid. Una faccia dove apparivano sentimenti ed emozioni e soprattutto i segni espressivi della spiritualità. Uno dei tre reperti spagnoli appartiene ad una bambina in età pre-adolescenziale che reca le tracce di una grave osteite ed il fatto che essa sia sopravvissuta oltre i primi mesi di vita attesta «amorevoli cure parentali» senza le quali la bambina non avrebbe potuto nutrirsi da sola. Dallo studio della scatola cranica si è desunto che il volume dell’encefalo rientra perfettamente nei canoni del moderno Homo Sapiens (tra i 900 e gli oltre mille centimetri cubici). Secondo la sequenza temporale dell’ortodossia darwinista, il primitivo Homo Heidelbergensis è «l’antenato comune» di noi Sapiens e del nostro cugino di Neanderthal. Ma sempre ad Atapuerca sono stati trovati resti di Heidelbergensis vissuti 300 mila anni fa ossia successivi temporalmente al Sapiens ritrovato nel 1994 ed antico, come detto, di 800 mila anni. Gli scopritori dell’Homo di Atapuerca nel tentativo di salvare la teoria darwiniana hanno cercato in tutti i modi, facendo leva su qualche connotato primitivo (arcate sopraccigliari alquanto prominenti, premolari con radici plurime), di inserire il loro reperto tra gli Heidelbergensis. Ma, alla fine, il professor Arsagua ha dovuto ammettere che sono «tanto diversi che è stato impossibile». Si è dunque, supposto, sempre nel tentativo di salvare una teoria che ormai fa acqua da tutte le parti, che l’Homo di Atapuerca fosse l’antenato comune di noi Sapiens, dell’Heidelbergensis e del Neanderthal. Insomma, l’uomo di Atapuerca deve, per forza, essere una nuova specie. Si è così anche coniato un nome alternativo al nostro uomo «fuori tempo» ed è stato chiamato Homo Antecessor. Tutto, dunque, purché non si parli di Homo Sapiens più antico degli «ominidi» suoi presunti antecedenti. Ma, questo tentativo, alquanto ideologico e maldestro, finisce per spingere l’Erectus e l’Heidelbergensis, dall’asse centrale dell’albero genealogico, dove il darwinismo li aveva posti come nostri progenitori diretti, alla posizione meno onorevole di rami collaterali. «Linee separate che si sono estinte senza discendenti». L’albero evolutivo darwiniano è ora diventato un ridicolo cespuglio dopo essere già stato, in passato, ampiamente sfrondato dalla scoperta della impossibile discendenza diretta tra Sapiens e Neanderthal.

Quando quest’ultimo, il Neanderthal, fu scoperto, nel secolo scorso, fu immediatamente classificato come l’anello mancante fra l’uomo e la scimmia, il nostro progenitore diretto. Sembrava il candidato ideale a fare da nonno del Sapiens. Il Neanderthal ha fatto la sua comparsa circa 400 mila anni fa. Quindi i conti tornavano dal momento che il Sapiens, cioè noi, fino alla scoperta dell’Antecessor, si riteneva apparso circa 100 mila anni fa. Essendosi poi, il Neanderthal, estinto intorno ai 27 mila anni prima di Cristo, la possibilità che si fosse incrociato con le sue stesse forme in via di trasformazione verso il Sapiens, «miracolosamente» azzeccando sempre la combinazione vincente, era ritenuta ampiamente provata (il fatto che il casualismo darwinista è una sfida al calcolo delle probabilità e che dunque ha una pretesa di «miracolosità» pressoché totale, perché l’improbabile combinazione fortuita non solo dovrebbe essersi ripetuta più volte ma anche contemporaneamente e nello stesso luogo e in soggetti sessualmente diversi, maschio e femmina, non è mai seriamente presa in considerazione dai darwinisti che si dimostrano così dei perfetti «fideisti» irrazionalisti). Il Neanderthal era abbastanza brutale da recitare bene, secondo la dogmatica darwinista, la sua parte di «fase intermedia» fra l’uomo e le scimmie. Ma ormai, da tempo, il Neanderthal ha subito un declassamento da antenato a «collaterale e contemporaneo» dell’Homo Sapiens. Due recenti ricerche genetiche ne hanno fornito la prova decisiva. Entrambe sono citate da Maurizio Blondet nel suo ottimo saggio di divulgazione al quale ci stiamo riferendo. La prima è il «‘Neanderthal DNA», pubblicato su Cell 90:19/30 nel 1997 da Kring, Stone, Schmitz, Kranitski e altri. La seconda è il  «Neanderthal DNA from norther Caucasus», è apparso su Nature 404:490/3 del 2000, ad opera di Ovchinnikov, Gotherstrom, Romanovak e altri. Si tratta di due studi condotti, separatamente, su due scheletri neandertaliani, uno tedesco e l’altro caucasico. E’ stato estratto il DNA neandertaliano e si è scoperto che esso rivela differenze genetiche disperanti rispetto al nostro DNA. Il Neanderthal non può essere il nostro antenato perché non poteva incrociarsi sessualmente col Sapiens. L’Homo Sapiens, cioè noi, e il Neanderthal non si sono incrociati sessualmente, non hanno mai fatto figli insieme. Non potevano, geneticamente, generare prole. Il Neanderthal era tuttavia un uomo. Aveva una sua dimensione psichica, seppelliva i suoi morti, effettuava riti propiziatori per la caccia, fabbricava oggetti rudimentali (attenzione però: il seppellimento dei morti non evidenzia alcuna forma di «spiritualità trascendente» ma solo l’idea del riassorbimento della vita individuale nel grembo indistinto della terra «grande madre»; così come i riti di caccia erano soltanto propiziatori dell’esito della caccia nel tentativo, proprio del culto «animistico», di ammansire gli «spiriti vitali» delle prede da uccidere o uccise) (3). Il suo encefalo aveva misure superiori al nostro. Era un uomo ma non semplicemente di una razza diversa ma un uomo di «altra specie». Infatti le differenze fra le razze umane, come quelle fra le razze animali, non sono differenze  geneticamente rilevanti come quelle che determinano la diversità tra le specie. Si tratta di diversità irrilevanti rispetto alla comune capacità d’incrocio sessuale intraspecifica. Quelle tra razze sono mere variazioni intraspecifiche, non dunque interspecifiche. Infatti, l’unico «trasformismo» attestato in natura è quello intraspecifico: quello ad esempio che distingue il negro dal bianco che però rimangono sempre della stessa specie «homo», oppure quello che distingue un barboncino da un pastore tedesco, che però rimangono sempre cani.

Il «trasformismo» interspecifico, ossia il passaggio da una specie ad un’altra, non ha nessuna vera e decisiva prova né genetica, perché è ormai invece accertato che il DNA è essenzialmente «conservatore» e che le sue rarissime mutazioni sono o neutre o addirittura sfavorevoli alla sopravvivenza della specie, né paleontologica, perché tra le presunte forme evolutive della medesima specie non esistono a livello di fossili, né per l’uomo né per le altre specie, i cosiddetti «anelli mancanti» e quelli che, dall’ideologia darwinista tali sono ritenuti, puntualmente si rivelano, a studi più approfonditi, soltanto specie diverse, che sono state allineate dai darwinisti, sulla base di un’idea preventiva, ma non provata, di successione temporale. Spesso poi, come nel caso del cosiddetto «uomo di Piltdown», nel tentativo di accreditare il passaggio interspecifico, del quale non si riescono a trovare prove autentiche, i darwinisti hanno costruito veri e propri falsi unendo fossili ominidi o pezzi di scimmia con ossa di uomini moderni. Il Neanderthal, dunque, ma anche l’Erectus, l’Ergaster, l’Heilderbergensis, sono uomini di altra specie.«Altre umanità» ormai estintesi perché si trattava di specie troppo specializzate, rispetto alla «originarietà» del Sapiens. Oggi, infatti, si ritiene, ad esempio, che il senso primario del Neanderthal fosse l’odorato. Quello del Sapiens, il nostro, è invece la vista. Questo spiega il fatto che, a differenza del Sapiens, che è onnivoro, il Neanderthal fosse esclusivamente carnivoro. Questa caratteristica è però una specializzazione e, come tutte le specializzazioni eccessive, comporta un destino stretto, legato esclusivamente ad un particolare ambiente, precludendo possibilità vitali più vaste ed implicando minaccia di estinzione al semplice variare dell’unico ambiente vitale. La scomparsa delle prede e del «vitto» carnivoro comportò l’estinzione del Neanderthal perché troppo specializzato per passare o adattarsi ad una dieta alternativa.

La scoperta che i vari «ominidi» sono specie diverse e che ciascuna di esse era troppo specializzata per sopravvivere ai mutamenti ambientali, ha permesso di prendere finalmente in considerazione l’esistenza di umanità plurime, geneticamente diverse e inconciliabili, che possono aver percorso la terra nei tempi antichi. Gli Ergaster, gli Erectus, gli Heidelbergensis, di cui per il momento non leggiamo ancora perfettamente il DNA, potrebbero essere stati uomini di altra specie, come il Neanderthal, forniti di strumenti sensoriali per afferrare il mondo differenti dai nostri. E troppo specializzati. Il Sapiens, benché abbia come senso prevalente la vista, a differenza degli altri tipi di uomini, non ha però specializzato questa a discapito degli altri quattro sensi. Anzi nel Sapiens vi sono una armonia ed un equilibrio sensoriale che non è dato riscontrare in nessuna altra specie, né «umana» né animale. Questo gli permette non solo un approccio integrale al mondo esterno, tale da consentirgli, cosa che non è consentita alle altre specie, la «consapevolezza» della sua alterità rispetto al mondo circostante. Consapevolezza dell’alterità «io-mondo», «io-tu», «soggetto-oggetto» che è il fondamento della nostra propria «autoconsapevolezza», ossia di ciò che altrimenti è definito come «io» o «coscienza» o «auto-coscienza». Ed anche, a differenza delle altre specie, comprese quelle degli ominidi estinti delle epoche arcaiche, la consapevolezza della morte, che manca a qualunque altro essere vivente.

«Ma l’evoluzionismo - scrive Maurizio Blondet - si tiene stretto alla sua visione: continua a disporre questi ominidi… nel nostro albero genealogico, insiste a fare di questi sconosciuti nostri antenati, o almeno fratelli discesi da un ‘antenato comune’ - che continua a mancare all’appello. Anche se i reperti fossili via via scoperti appaiono sempre più diversi e complicano il panorama genealogico, fino a renderlo enigmatico. Così di fronte al fossile spagnolo di 800 mila anni fa, l’Homo Antecessor (e che se fosse stato trovato in un cimitero moderno nessuno avrebbe esitato a chiamare ‘Sapiens’), gli evoluzionisti si difendono come sanno e possono, ossia ripetendo i luoghi comuni della loro scolastica. L’antropologo francese Jean Jacques Hublin, del CNRS, si prova a obiettare che i caratteri ‘moderni’ dell’antichissimo ragazzo di Atapuerca potrebbero essere ‘caratteri giovanili’, destinati a scomparire nell’adulto. Difatti l’uomo moderno ha la curiosa caratteristica (detta neotenia) di conservare i caratteri di un cucciolo anche in età adulta (fronte convessa, scarsa pelosità, denti deboli, lineamenti più fini) (si tratta di un altro carattere del Sapiens che ne attesta la ‘non specializzazione’ ossia l’originarietà, nda). Lo scienziato francese insinua insomma che, da adulto, l’Antecessor possa essere stato assai più somigliante a un Erectus, a un Heidelbergensis che all’Homo Sapiens cui somigliava da piccolo. Ma proprio i resti di Heidelbergensis giovani ritrovati ad Atapuerca non mostrano affatto i caratteri ‘più giovanili’ rispetto agli Heidelbergensis adulti tornati alla luce in altri siti. E il professor Rosas ricorda che un umano trovato in Kenia,  forse un Homo Ergaster, vissuto 1,6 milioni di anni fa e noto all’ambiente scientifico come il ‘Ragazzo di Nariotokome’ perché morì all’età di 13 anni, non presenta i tratti ‘moderni’ (o infantili) del ragazzo di Atapuerca. La polemica scatenata dalla scoperta del ragazzo spagnolo, e dalla sua assegnazione a una specie distinta e mai prima sospettata (Antecessor), rivela già di per sé quanto poco gli evoluzionisti siano sicuri di quel che asseriscono di sapere» (4).

Alcune ulteriori considerazioni si impongono a margine di quanto abbiamo fin qui esposto. Innanzitutto va osservato che un dato come la maggior grandezza dell’encefalo del Neanderthal rispetto al Sapiens, dimostra che non è la quantità, la massa, del cervello, e neanche il cervello in sé, a determinare l’intelligenza e, soprattutto, la spiritualità: per quest’ultima, in particolare, ma anche per la prima, bisogna guardare, come suggeriscono tutte le tradizioni religiose, al «cuore». Di recente, alcuni scienziati hanno scoperto che il muscolo cardiaco umano non solo è intessuto di cellule di tipo cerebrale ma anche che, per via di questa attività «neuronale» cardiaca, il cuore svolge una vera e propria funzione di centro non solo psichico ma addirittura spirituale. Cosa che le antiche tradizioni hanno sempre attestato e che oggi la psicologia postmoderna, come quella trans-personale o «umanistica», ha riscoperto con dovizia di argomentazioni scientifiche (il che pone seri interrogativi sulla presunzione di far coincidere la morte della persona con la sola «morte cerebrale», come vogliono i fautori dell’eutanasia e del prelievo degli organi «a cuor battente»). In secondo luogo, il fatto, ormai accertato, della diversità non di razza ma di specie tra il Sapiens e gli altri ominidi attesta che la nostra specie, il Sapiens, compare indipendentemente dalle altre «umanità» e questo, in sede epistemologica, porta a ritenere che è proprio e solo nel Sapiens che l’«Archetipo», la «Parola», che presiede al programma di passaggio delle «rationes seminales» dal Trascendente all’immanente, dalla potenza all’atto, dall’esistenza esclusivamente ideale all’esistenza anche materiale, ha «impresso» la Sua immagine perfetta. Solo con il Sapiens fa la sua comparsa nel mondo, nell’immanenza, l’immagine stessa dell’«Archetipo» divino, dell’«Adam Kadmon» della tradizione cabalista pura, ossia non gnostica (esiste un cabalismo gnostico, spurio, da rigettare, ed uno invece del tutto conforme alla Rivelazione ebraico-cristiana), di Colui, il Verbo dell’incipit giovanneo, al quale San Paolo si riferisce nell’inno cristologico di Col. 1, 15-20, Colui che sempre San Paolo chiama «Secondo Adamo» venuto nella carne a redimere il «primo Adamo». In tal senso, l’«originarietà», la «non specializzazione», del Sapiens, quella che fa di lui, come dicono gli scienziati, il «Peter Pan» tra i viventi, attesta la sua maggior vicinanza all’«Archetipo» trascendente, all’Autore di tutte le forme viventi. Le quali, perciò, fatta salva l’assoluta alterità analogica e non panteista tra Trascendenza ed immanenza, possono, in un certo senso, dirsi tutte «derivate» dall’«Archetipo» e dunque tutte in misura maggiore o minore dotate di una «impronta» ontologica archetipica («Egli è prima di tutte le cose e tutte sussistono in Lui» Col. 1, 17). Benché nessuna di esse possiede tale «impronta» al modo dell’uomo, ossia essenzialmente e perfettamente.

Diversi scienziati, come il genetista Giuseppe Sermonti, ritengono che l’antenato comune tra uomo e scimmia, sempre che vi sia mai stato, non si trova perché esso non era, come pensano i darwinisti, più simile alla scimmia, ma al contrario più simile all’uomo. L’antenato comune era in realtà un «più che uomo». Un uomo spiritualmente fatto per esprimere nell’immanenza l’immagine essenziale e perfetta dell’«Archetipo», della «Parola» trascendente. Il Sapiens attuale dunque sarebbe un gradino più in basso dell’«antenato comune» e quel gradino sarebbe stato disceso a causa del venir parzialmente meno dell’originaria ed integra spiritualità. Insomma, non di evoluzione dovrebbe parlarsi per il Sapiens attuale ma di involuzione. Processo involutivo che avrebbe dunque prodotto, per un evento scientificamente insondabile ed indeterminabile, la degradazione spirituale della specie umana originaria. Se tale ipotesi dovesse trovare un qualche riscontro se ne dovrebbe addirittura dedurre che, a ben considerare, perlomeno il Neanderthal, che è comparso circa 400 mila anni fa, potrebbe essere, se il Sapiens ha fatto la sua comparsa addirittura 800 mila anni fa, il risultato di questo processo involutivo, una «fase intermedia» tra il Sapiens e certi primati «superiori» come il gorilla o lo scimpanzé. Questa eventualità, essendo, come detto, il Neanderthal un uomo di specie diversa, implicherebbe che almeno in un caso si sarebbe avuta una sorta di «trasformismo interspecifico». Il che non sarebbe affatto in contraddizione con la generale mancanza di trasformismo in natura, in quanto il caso in questione sarebbe, laddove fosse provato, del tutto particolare in quanto connesso a valenze di ordine spirituale, che la scienza può solo intuire ma non dimostrare. Come ha spiegato il noto scienziato Lima de Faria (nella sua opera «Evoluzione senza selezione»), l’intero universo può concepirsi come modulato, dal punto di vista morfologico, sulla base di vere e proprie «forme archetipiche». Ad esempio, la forma archetipica a spirale che «governa» una galassia e quella che «governa» una conchiglia è in sostanza la stessa. Quella che da espressione all’alveo di un fiume e quella che da espressione al tronco respiratorio umano è la stessa. E gli esempi potrebbero moltiplicarsi. Certamente il limite del de Faria è che egli inserisce il suo discorso scientifico nella cornice di un «monismo olistico» di tipo neo-platonico, che dunque finisce per ricadere nell’immanenza, benché non più intesa in senso meccanicistico o materialistico.

Il limite del discorso del de Faria sta nell’escludere, a priori (vi è nel personaggio un qualcosa, caratteriale, di anti-metafisico che rivela un pregiudizio anti-cristiano), la vera Sorgente delle «forme archetipiche» che è il Verbo trascendente. Ma, alla luce dei rilievi del de Faria, non potrebbe affatto sorprendere che nel caso dell’uomo, il quale del Verbo trascendente è immagine nell’immanenza, un evento spirituale, come quello che il Genesi chiama «peccato originale», possa avere avuto ripercussioni persino sul piano psico-fisico e comportare un progressivo deturpamento anche psicologico e corporeo-morfologico con la conseguenza, «trasformista», del passaggio involutivo dalla specie Sapiens alla specie Neanderthal fino alle specie delle scimmie superiori ancora attualmente esistenti. Un caso unico, dunque, perché connesso con la dimensione spirituale (che è differente e superiore a quella meramente psichica), la quale dimensione è, non a caso, mancante in ogni altra creatura. La progressiva perdita totale di tale dimensione avrebbe potuto comportare in certi gruppi di Sapiens, particolarmente toccati dall’evento spirituale causa della degradazione, uno scivolamento ancora più in basso, fino all’animalesco. Del resto, sappiamo dalla Rivelazione che vi è una stretta correlazione tra il peccato adamitico e la stessa «deformazione» della struttura del creato («maledetto sia il suolo per causa tua!«; Genesi 3,17).

E’ interessante osservare come le scoperte scientifiche di cui abbiamo trattato nonché le nostre considerazioni epistemologiche, ad esse relative, trovano, su un altro e ben più alto piano, ampia conferma in una rivelazione privata della Vergine Maria, riconosciuta dalla Chiesa. Riportiamo quanto la Vergine ha rivelato alla veggente in questione con le modalità, ben note agli studiosi di mistica, tipiche della cosiddetta «locuzione interiore»:

«… Dio ama l’uomo e, tutto quanto ha creato, l’ha fatto per amore. Dio basta a se stesso; mentre gli uomini non possono neanche pronunciare il suo santo nome senza un intervento divino (…). Dio infatti è l’amore e la gloria e basta a se stesso, perché io ho visto l’universo prima che si formasse, e ho visto pure come la santissima Trinità bastasse a se stessa, senza avere bisogno né di angeli, né di uomini. Tuttavia, per un grande amore che travalica ogni limite e supera ogni comprensione umana, nacque nella mente del Creatore l’idea di fare partecipi di tanti privilegi gli spiriti celesti e gli uomini. E quindi il mio Dio e Signore creò l’universo e tutto quanto in esso è contenuto (…). Se… l’anima riesce a porsi in atteggiamento sottomesso ed ossequiente a Dio, capirà come Dio abbia pensato all’uomo fin dagli albori dei secoli, e l’abbia concepito con tanto amore e tenera premura, da volerlo creare a sua immagine e somiglianza. Con tale sublime pensiero, il Signore nostro Dio ha dato avvio alla perfetta opera della creazione (…). E Dio disse: ‘facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza, …’. Dio ora mirava compiaciuto la perfetta opera delle sue mani. L’uomo. Perché, pur avendolo fatto poco meno degli angeli, pure ‘di gloria e di onore lo hai coronato’. Dio creò l’uomo dal fango della terra, gli infuse un soffio vitale e lo chiamò Adamo. Gli diede un corpo perfetto, proporzionato e bello, simile a quello che avrebbe poi avuto Gesù, Dio fatto uomo, e un’anima a immagine e somiglianza di Dio medesimo. E allo stesso modo creò Eva, con un corpo perfetto, ideale di bellezza e di grazia, che nessun pittore nella sua bravura è capace di riprodurre identico o anche solo simile al modello della donna, destinata per privilegio divino ad essere madre del Salvatore, e la sua anima plasmata a immagine e somiglianza del Dio vivo (…). Uscì quindi dalle mani del Creatore l’opera perfetta, l’uomo. E fu ciò che il suo Creatore volle che fosse, signore e padrone di tutto quanto Egli aveva creato, perché era al suo servizio come dominatore e reggitore, in quanto fra tutti era l’HOMO SAPIENS. Respingete quindi,  figli carissimi, le correnti avverse, che mirano a confondere e svalutare l’opera del Creatore. L’uomo fu sin dalle sue origini ciò che è ancora adesso: un uomo perfetto e superiore a tutti gli altri esseri creati, e come essere perfetto non aveva bisogno di passare per tappe evolutive. Una delle perfezioni che più nobilitano quest’opera meravigliosa dell’intera creazione è la libertà di cui Dio dotò l’uomo: dono stupendo, frutto dell’amore divino. L’uomo non solo era padrone e signore di tutto il creato, ma era inoltre padrone e signore di se stesso, capace di discernere il bene dal male e di fare una libera scelta. Qui si rivela apertamente il grande amore nutrito da Dio verso le sue creature. Esso è impossibile da comprendere e difficile da spiegare; (…). A me,  figlia carissima, da sempre ciò ha incantato l’anima, e i miei occhi sono rimasti come estasiati a contemplare tanta bellezza. E mi ha lasciata colma di meraviglia la Provvidenza, ossia la premurosa e amorevole cura che Dio prodiga all’intero creato» (5).

La biologia attuale, nonostante il «probabilismo» ormai assunto come proprio statuto dalla scienza post-moderna, che ha finalmente ed umilmente rinunciato da tempo all’impresa di stabilire «verità immanenti immodificabili», sembra tra tutte le scienze quella che è rimasta più indietro, ancora ancorata alla insostenibile sicumera scientista stile XIX secolo, e che è incapace di accettarsi come, appunto, soltanto probabilista. La causa di questo atteggiamento retrivo e non scientifico deve essere individuato proprio nel dogmatismo darwinista, ossia nell’ideologia che lo sostiene che è quella della negazione ateistica dell’origine trascendente della vita. La biologia, benché ormai anche nel suo ambito valenti, ma per il momento ancora minoritari, scienziati vanno demolendo i miti scientisti, resta legata ad un determinismo, quello che neo-darwinianamente pontifica di «gene egoista», che, non deluso dal fallimento delle teorie lombrosiane del XIX secolo, ripropone anche oggi, in forme in apparenza inedite ma in realtà essenzialmente eguali, la pretesa ideologica della totale riduzione dell’uomo alla chimica del DNA. Tuttavia sta sempre di più apparendo chiaro agli stessi biologi, non affetti dal dogmatismo darwinista e determinista, che non è nei geni il segreto della vita, e tanto meno il fondamento dell’uomo. Sta ormai diventando evidente che davvero fondamentale non è la chimica genetica quanto piuttosto l’«informazione», la «parola», portata, o veicolata ossia mediata, dai geni. Stiamo assistendo, da qualche decina d’anni, ad un vero e proprio ritorno della genetica al platonismo. Infatti, è ormai assodato che le differenze quantitative tra i patrimoni genetici delle diverse specie, benché sufficienti a fissare le barriere di specie, ossia la «specificità» che distingue una specie da un’altra, sono, d’altra parte, del tutto infinitesimali e quindi irrilevanti per spiegare le differenze qualitative, ovvero ontologiche, e quelle morfologiche tra le specie. Tra il patrimonio genetico di una mosca e quello di un elefante la differenza in termini quantitativi è meno dell’1%. Quella tra una zanzara ed un cavallo non più dell’1,5%. Dello stesso ordine, 1% massimo 1,5%, è la differenza quantitativa del patrimonio genetico dell’uomo rispetto a quello dello scimpanzé. Ed allora la domanda che si pone è la seguente: perché la mosca non è un elefante, la zanzara un cavallo, l’uomo uno scimpanzé, e viceversa? I geni sono poi, in tutte le specie, costituiti dal medesimo «materiale» di base, ossia il DNA. E’ l’ordinata sequenza delle componenti basiche del DNA ad imprimere i caratteri fenotipici di ciascuna specie e nell’ambito di essa di ciascun individuo. Le componeti basiche del DNA agiscono come le lettere dell’alfabeto che combinandosi tra loro danno origine a diverse parole dalle quali possono nascere anche intere opere letterarie. Tra l’altro, questa origine del fenotipo dalla combinazione di non più di quattro «lettere» basiche richiama molto da vicino l’idea cabalista della creazione come combinazione che Dio fa delle lettere dell’albero sephirotico. Il nostro riferimento è, naturalmente, al cabalismo puro e non gnostico, ossia compatibile con la Rivelazione cristiana, che, a differenza di quello spurio e gnostico, pone tra le prime Tre sephirot, corrispondenti alla Santissima Trinità, e le rimanenti sette uno iato di alterità/partecipazione, corrispondente a quella che la Rivelazione pone tra Trascendenza ed immanenza (6). Dunque, se il «materiale» è lo stesso e le differenze quantitative di detto materiale nelle diverse specie sono trascurabili e comunque non sono tali da spiegare efficacemente la diversità qualitativo-ontologica e morfologica tra di esse, è evidente che la differenza va cercata piuttosto nell’idea che Colui che ha plasmato la «medesima cera», il medesimo «materiale genetico», perseguiva all’atto della modellazione delle specie. La differenza qualitativo-ontologica e morfologica tra le specie è nell’«idea» impressa nella materia, ossia nella combinazione delle «lettere» fondamentali, ovvero nelle «rationes seminales» comunicate dal Verbo alla materia informe dallo stesso creata ab origine (l’universo subito dopo il Big Bang, era materia in forma di energia in via di condensazione sulla base delle quattro leggi fondamentali che ne hanno regolato e ne regolano l’espansione e che la fisica oggi ritiene essere comparse al momento stesso dell’esplosione iniziale).

Senza indugiare nei letteralismi protestanti o nei facili ed ingenui concordismi, diventa però sempre più palese che la scienza post-moderna, fattasi umile e probabilistica, sta riaprendo ad una visione più spirituale, più tradizionale, del mondo. Certamente tale riapertura può essere anche giocata in senso neo-platonico. Ed in tal senso la giocano tanti scienziati che, in più o meno buona fede, non conoscono la fede cristiana. Con termine oggi usuale si potrebbe dire che la scienza post-moderna ha un approccio di tipo «olistico» al mondo. Essa ha assunto come proprio paradigma fondamentale una concezione globale del Tutto chiuso, come una sfera, su se stesso e spiega le interconnessioni e le corrispondenze fenomeniche mediante il rinvio ad un «quid» che viene raffigurato come un’unica sostanza agente ed immota nascosta dietro la realtà manifesta ed apparente. Ma in tal modo essa, la scienza post-moderna, non può sfuggire alle medesime aporie nelle quali incappavano gli antichi, prima della Rivelazione cristiana. Innanzitutto a quella di come il mondo, anche laddove lo si voglia ritenere eterno ab origine, possa aver autonomamente posto se stesso, dal momento l’ipotesi dell’autocreazione, che in astrofisica, in alternativa alla teoria del «Big Bang» di Lemaitre, ampiamente comprovata, è pur stata avanzata con la teoria dell’«universo stazionario» di Hoyle, che ha recentemente trovato ampia smentita, è un controsenso perché l’essere richiede sempre e comunque intelligenza e coscienza di sé e se tale intelligente coscienza non è propria, ossia non è immanente al mondo, e non lo è, la struttura razionale del mondo da qualche parte, o da Qualcuno, deve pur averla derivata. Il mondo non è affatto auto-cosciente, neanche se lo si pensa agito da un’anima mundi che, per essere tale, ossia «anima del mondo», sarebbe inevitabilmente impersonale. Allo stesso modo non si potrebbe olisticamente spiegare la finalità, la progettualità, insita nell’universo e della quale la scienza post-moderna, sia cosmologica che sub-atomica, va sempre più scoprendo le evidentissime tracce. Ciò che è incosciente non può dare origine alla coscienza né al finalismo. Ciò che non è cosciente non può finalizzare alcunché, né auto-finalizzarsi, a nessun esito. Per progettare in vista di uno scopo, di un fine, è necessaria la coscienza e l’intelligenza. L’universo, anche olisticamente concepito, non è dotato né dell’una né dell’altra. Dunque da dove viene il finalismo pur riscontrabile in esso?

Queste aporie sono risolvibili solo se si fa un ulteriore passo in avanti: dall’olismo alla Trascendenza, o da un olismo chiuso alla Trascendenza ad un olismo ad Essa aperto. E’ necessario riconoscere che la sfera del cosmo non è assolutamente chiusa tautologicamente su se stessa ma che essa è imperniata sull’Asse verticale che la sorregge. Il panorama culturale e spirituale in questa nostra epoca di passaggio tra il moderno ed il postmoderno è incredibilmente simile a quello dei primi secoli cristiani, quando la Rivelazione cristiana universalizzandosi incontrò e si scontrò non tanto con il paganesimo politeista, già ridottosi a mera religione civile ed a culto di Stato, quanto con il neoplatonismo (Plotino, Proclo, l’alessandrinismo), quella sorta di monismo pagano derivato, benché con essa non coincidente, dalla filosofia platonica (in tal senso Ratzinger giustamente ricorda l’esistenza di un «Plato anti-christianus» accanto al «Plato christianus»), che contese l’egemonia spirituale alla fede in Cristo e che con Giuliano l’Apostata provò persino ad istituzionalizzarsi in una sorta di «chiesa imperiale», organizzata gerarchicamente ad imitazione di quella cattolica. Esattamente come in quei secoli i Padri della Chiesa riuscirono a disinnescare il neoplatonismo, non limitandosi però ad un preconcetto rigetto ma al contrario affrontandolo, forti dalla fede nella Rivelazione, sul suo stesso terreno, riuscendo in tal modo a salvare di esso quella parziale verità che pur vi era insita, anche oggi è più che mai necessario che l’intelligenza cattolica si adoperi, nel confronto con la scienza post-moderna ed i suoi risultati, a riaprire al disperato uomo nichilista di questo Occidente apostata le vie divine della Trascendenza.

Questa è, in fondo, la strada che sta indicando Benedetto XVI quando parla della necessità di riunire Fede e ragione in quell’armonia che fu propria delle epoche migliori del pensiero cristiano, quando esso non aveva affatto timore della sana autonomia della ragione perché, in realtà, lo scontro tra l’una e l’altra intervenne soltanto, artefice il solito Lutero, con l’irrigidimento «fideistico» della fede, da un lato, e l’irrigidimento razionalistico della ragione dall’altro. Caduta attualmente la pretesa totalizzante del passato scientismo ed abbandonato il «fideismo» moderno, il discorso ed il confronto tra fede e scienza può essere riavviato con beneficio per l’una e per l’altra e per l’umanità tutta. A differenza di quanto accadeva nel XIX secolo, quando la scienza era chiusa in un dogmatismo scientista e positivista che aveva costruito attorno al povero uomo moderno una vera e propria gabbia d’acciaio, illusoriamente promettendogli la felicità e l’emancipazione, oggi si può riavviare dall’una e dall’altra parte un confronto sereno ed onesto con maggior cognizione di causa, anche sul piano epistemologico e scientifico.                                                                                                                  

Luigi Copertino




1) Confronta Luigi Copertino «Darwin e la gnosi» in www.effedieffe.com, 7 luglio 2009.
2) Confronta Maurizio Blondet «L’uccellosauro ed altri animali - la catastrofe del darwinismo» (EFFEDIEFFE, Milano, 2002, pagine 100-106.
3) Il fatto che le specie umane non Sapiens abbiamo avuto un tipo di religiosità panteista ed animista, mentre la «spiritualità trascendente», il culto del Dio personale e trascendente, appaia, stando alla Rivelazione, soltanto con l’Homo Sapiens, dotato, a differenza degli altri uomini non Sapiens, affinché potesse tale culto praticare, di «anima spirituale», dovrebbe anche aprire uno squarcio, se non sull’essenza, quantomeno sull’esito del «peccato originale» dell’Adam/Sapiens. L’Adamo originale, dopo il peccato, cade progressivamente nella dimenticanza del culto del Nome dell’Altissimo (si vedano i primi capitoli del Genesi). Il che significa, in altri termini, che l’umanità adamitica originaria, salvo alcune eccezioni, abbandona progressivamente l’originale culto di adorazione al Dio Trascendente e Creatore della Rivelazione sostituendolo con culti di tipo «tellurico», ossia animistici e panteistici (quelli ancor oggi praticati da diverse popolazioni «primitive»). Gli stessi che, prima di lui, praticavano le altre specie umane non Sapiens, uomini cioè senza «spiritualità trascendente» e dunque non creati per il destino celeste riservato al Sapiens (e che pertanto non erano neanche dotati di una integrale percezione spirituale di auto-soggettività e soprattutto, pur possedendo una vita meramente psichica, non erano dotati, come non sono dotati gli animali, della percezione tragica della morte e della sofferenza). Adamo era stato fatto per il Culto Perenne del Nome Santo dell’Altissimo ed ha peccato iniziando a praticare culti idolatrici e «tellurici» che promettevano l’auto-deificazione e l’immortalità mediante l’abbandonarsi al flusso ininterotto del vitalismo animale, naturale, al bios. Sono i culti pagani, spesso matriarcali, della fertilità. Ma si trattava di una menzogna, perché la «deificazione» e l’«immortalità» promessa da detti culti aveva come contropartita il prezzo del dissolvimento della personalità spirituale nell’«indistinto cosmico» ritenuto eterno. E’ la menzogna dell’«eritis sicut Dei» cui consegue la morte. L’offerta di Caino, non gradita da Dio, sta probabilmente ad indicare, non solo e non tanto il conflitto tra nomadi e sedentari, quanto piuttosto il carattere «tellurico» del culto di Caino. Mentre l’offerta del mite Abele adombrando il Sacrificio del venturo «Agnus Dei» era gradita all’Altissimo perché rimaneva connessa al culto originario del Suo Santo Nome. Vero è poi che questo culto originario non si è mai spento del tutto, passando da Adamo ad Abele fino a Noé e a Melchisedek e quindi ad Abramo e Mosé ritrovando piena e definitiva restaurazione in Nostro Signore Gesù Cristo e nel Santo Sacrificio Perenne della Croce, che si rinnova ad ogni Eucarestia. In tal modo, anche Caino viene perdonato e salvato e gli stessi frutti della terra, prima rifiutati, sono ora da Dio, prima in Melchisedek, che di Cristo è figura, e poi definitivamente in Cristo, accetti e graditi nelle specie eucaristiche del Pane e del Vino, Presenza del Cuore e del Sangue del Redentore.
4) Confronta Maurizio Blondet «L’uccellosauro …», opera citata.
5) Confronta Consuelo «Maria porta del Cielo», Ancora, Milano, 1991, pagine 31-35, con imprimatur ecclesiastico. Consuelo è lo pseudonimo di una semplice madre di famiglia spagnola che vuole rimanere ignota e che è destinataria, da anni, di apparizioni e locuzione della Vergine Maria. Dell’esperienza che sta vivendo, ella tutto ha rimesso al giudizio del proprio vescovo, tra i pochi a conoscerne l’identità, e della Chiesa. Giudizio che finora è stato ampiamente positivo tanto da consentire la pubblicazione del libro da noi citato, scritto su dettatura della Vergine. Un fenomeno questo non nuovo nella mistica cristiana. Santa Teresa d’Avila scriveva, in estasi (dunque in una condizione di «coscienza sublimata» e non di «non coscienza medianica»), lettere dettatele direttamente da Cristo in Persona.
6) Rimandiamo, a proposito della differenza tra il cabalismo puro, conforme alla Rivelazione cristiana, e quello spurio, gnostico, al primo capitolo dell’opera di Julio Meinvielle «Influsso dello gnosticismo ebraico in ambiente cristiano», Sacra Fraternitas Aurigarum, Roma, 1995 (a cura di don Ennio Innocenti).


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