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Perchè si va in chiesa?
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Dove abito, c’è in vacanza un prete con accento francese (mi pare una brava persona) che dice Messa nella mia solita chiesa. Domenica, s’è rallegrato e stupito della gente che c’era; in realtà nulla di speciale per la messa delle 10, quella «comoda», quella delle famiglie con bambini: «In Francia non arrivano tante persone. Si vede che qui la crisi della Chiesa è meno grave».

Chissà, mi domando, se clero e gerarchia di Francia e del nord-Europa si sono accorti del perchè la gente non va più a Messa, e da tanti anni vivono in Ecclesia depopulata. Siccome sto rileggendo IOTA UNUM di Romano Amerio (disponibile presso EFFEDIEFFESHOP.com), posso ricordare qualche motivo di questa depopulatio.

Negli anni ‘70, i vescovi di Francia cominciarono a scoraggiare positivamente i fedeli a spostarsi dalla loro parrocchia quando non c’è il prete a celebrare la Messa domenicale, e li incoraggiavano a radunarsi tra loro, senza sacerdote.

«Il Concilio ci ha aiutato a riscoprire che ciò che è primario (ce qui est premier), è il popolo dei battezzati», disse in un’intervista dell’aprile 1976 il vicario del vescovo di Ain: «In questa nuova prospettiva, l’importanza è che il popolo di Dio si raduni». E aggiungeva: «La presa in carico da parte dei cristiani delle loro assemblee porta ad andare oltre la Messa della domenica». Dunque il raduno del popolo senza prete è superiore al sacrificio eucaristico, «va più lontano» (plus loin).

Non era la posizione di un isolato. E’ la posizione che l’episcopato francese al completo ha inserito nel Missel des Dimanches, 1983, con una asserzione mirabolante: «L’eucarestia è senza dubbio il miglior modo di animare un raduno di cristiani, ma non è il solo». Dunque la consacrazione del pane e del vino per farlo diventare corpo e sangue di Cristo, è un elemento di «animazione»; come lo champagne e i coriandoli nei veglioni di Capodanno. Se mancano i coriandoli, pazienza,  l’importante è stare tutti insieme.

Ma così facendo, non manco al precetto domenicale?, si domandava qualche fedele. A questi, il vescovo di Evreu, nell’aprile 1975, fulminava: «Non ci si mette in regola con Dio sottomettendosi a un’obbligazione» (1).

Era una costante di quegli anni: possiamo chiamarlo vitalismo, o soggettivismo vitalistico. Il Missel des dimanches invita a pregare, come per peccatori, per «i credenti che sono tentati di accomodarsi nelle loro certezze» (tentés de s’installer dans leur certitudes). Il cardinal Etchégaray, allora presidente della Conferenza Episcopale Francese, nel commento alla Personae Humanae della congregazione per la dottrina della fede, si riteneva in dovere di smascherare «la morale che si nasconde solo dietro ai principii», perche la morale «non è come una parola che cade dall’alto», ossia da Dio, ma «piuttosto come una che sorge dalla relazione con l’uomo e lo rende co-autore di quella parola». Il cardinale Suenens, alla settimana degli intellettuali cattolici, Parigi 1966, sanciva: «La morale è anzitutto viva, dinamismo vitale, sottomesso quindi a una crescita interiore che evita ogni fissità». Stessa cosa diceva il cardinal Léger: «Senza dubbio l’asserzione secondo cui la Chiesa possiede la verità può risultare giusta, se si fanno le necessarie distinzioni (sic). La conoscenza di Dio, di cui la dottrina esplora il mistero, impedisce l’immobilità intellettuale».

Il cattolico deve diventare cosciente «della perpetua problematicità del soggetto cristiano», ossia di se stesso, rincarava l’Osservatore Romano, 15 gennaio 1971: insomma  la vera fede consiste nel diventare problematici, e ciò in perpetuo. Mai certi di niente, ecco cosa significa essere cristiani.

Soprattutto, non dell’eucarestia. Il culto della Presenza Reale veniva deplorato fra «gli eccessi della controriforma» da Informations Catholiques Internationales nel 15 luglio 1981. Andava a ruba il Catechismo Olandese, che aveva liquidato la «transustanziazione» - la trasformazione del pane e vino in carne e sangue, grazie all’atto consacratorio del sacerdote - sostituendola con «trans-significazione» e «trans-finalizzazione». I termini non erano meno indecifrabili, ma avevano un vantaggio: annullavano il miracolo della consacrazione e la sua sacralità. Il fatto, tremendo e misterioso, per cui le due materie nutritive si mutano in «iconostasi», dietro cui si cela il Cristo reale, il suo vero corpo. Il pane restava pane, solo gli veniva aggiunto un nuovo «significato», una nuova «finalità»: quello con cui l’assemblea «ricordava» l’ultima cena di Cristo. Il fatto ontologico, così imbarazzante per i protestanti fratelli separati, veniva tolto di mezzo.

Non accadeva solo in Francia. Nel Congresso Eucaristico di Milano (1983) i «Documenti di lavoro» asserivano quanto segue: «Il pane e il vino in se stessi, nè come realtà nè come segno, neppure dopo la consacrazione, hanno titolo alcuno per sostenere e rivelare l’equazione posta da Cristo».  L’equazione posta da Cristo è: «Questo è veramente (enim) il mio corpo». No, il pane non ha titolo. Nemmeno dopo la consacrazione, sicchè - se ne deve dedurre - le parole consacratorie del sacerdote sono inefficaci.

Ora capisco meglio un fatto: a Milano, a fianco del Duomo, in una piccola chiesa barocca (San Raffaele) c’era l’adorazione perpetua del Santissimo. L’ostensorio con l’ostia consacrata era  perenemente sull’altare, alla vista di chi entrava un momento a pregare o a salutare Gesù; pie donne lo adoravano a turno. Il cardinal Martini, divenuto arcivescovo di Milano, vietò questa pratica. A San Raffaele non c’era più il Santissimo da incontrare. Perchè? I maligni dicevano: perchè Martini vuole che tutti vadano in Duomo alla sua Messa, ad adorare le sue omelie. Ora capisco meglio: c’era dietro la credenza, dice Amerio, che levata la mensa della Messa, «non resti più nulla di divino nel tabernacolo». Il Cristo, o qualcosa di Lui, esiste solo finchè l’assemblea è lì e lo celebra, poi basta.

«La Messa è frazione del pane, cioè spartizione di amicizia, di affetto, di aiuto», sosteneva  il rettore della Lateranense, F. Biffi, nel 1980. Non un cenno alla presenza di Gesù. E il solito Missel des Dimanches: «la Messa non è che fare memoria dell’unico sacrificio già compiuto»: qui la presenza reale ad ogni atto consacratorio, è esplicitamente negata. Il sacrificio è quello di 2000 anni fa, solo ne viene ravvivata la memoria.

E infatti, soprattutto in Francia e Olanda ma non solo, si scoraggiava la genuflessione prima di ricevere l’ostia; si scoraggiava il culto extraliturgico dell’eucarestia, l’adorazione, le visite, le esposizioni solenni, la processione del Corpus Domini.

Calato anche, drammaticamente, il «prepararsi» alla Comunione e il «ringraziare»: la mamma di  don Bosco, quando il bambino doveva fare la comunione, gli vietava i giochi per tre giorni, come  «preparazione». Recentemente ho visto un film francese, «Le invasioni barbariche», dove una suora  in abiti laici porta la Comunione ai degenti: questi prendono l’ostia e se la mettono in bocca, come fosse una pastiglia, mentre guardano la TV. Non credo ci sia immagine più disperante della perdita della fede in Cristo presente.

E’ questo il vero motivo per cui il tabernacolo è stato messo da parte in quasi tutte le chiese, seminascosto, in modo che il fedele non lo veda al suo entrare. Da qui i casi frequenti allora (non so oggi) in cui i fedeli «consacravano» tutti insieme il pane e il vino, ripetendo la formula col sacerdote, o anche senza il sacerdote.

Ovvio che il sacerdozio sia in crisi: sta diventando supefluo. Ovvio che la gente non vada più in chiesa, soprattutto in Francia. Non si andava in chiesa per vedere gente, ma per vedere Cristo. Ci si stufa, alla lunga, dell’assemblea che celebra se stessa. E oltretutto, da questi raduni non si ottengono frutti spirituali. Fogazzaro stesso diceva: l’insufficienza del frutto della Comunione (l’ottenimento grazie, sostegno alla nostra debolezza) viene dal non prepararsi abbastanza a riceverla.

Per completezza d’informazione, dirò che Paolo VI, in un discorso ai vescovi di Francia, aprile 1977, ricordò: «La celebrazione dell’Eucarestia si pone ben al di là d’un incontro fraterno e d’una condivisione di vita».

Ma mi chiedo: tutti quei cardinali, vescovi teologi che predicavano tali cose, si sono mai ravveduti? Sono stati messi da parte, oppure hanno continuato a diffondere le loro, diciamo, dottrine? Non  mi pare. Mi pare solo che le loro «dottrine» si siano col tempo usurate, attutite; ma restino nel fondo, nè censurate nè condannate formalmente.

La crisi della Chiesa, conclude Amerio, è crisi dell’eucarestia; dal non credere, dal non vedere la Presenza Reale deriva tutto lo spopolamento, l’abbandono dei sacerdoti, la «problematicità», la perdita fede, la povertà di conversioni. Si va alla Chiesa per Cristo, per il suo corpo.




1) L’attacco al precetto domenicale era già partito al Concilio (Congregazioni CIX e CX), dal vescovo indiano La Rivoire e dal patriarca Maximos IV, per i quali «è difficile trovare ragionevoli il precetto festivo sotto pena di peccato, nessuno ci crede e gli increduli ce ne sbeffeggiano».



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