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La Cina non sostituirà mamma America
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A commento dell’articolo «Pechino domina il centro-Asia», Franco PD pone un problema molto profondo e molto serio:

«Si parlava nei giorni scorsi della fine del secolo americano. L’articolo di oggi ne approfondisce i concetti, estendendoli su altri scenari geopolitici. Ho però delle perplessità diciamo ‘d’insieme’. Che la potenza cinese si manifesti in tutta la sua grandezza, è assolutamente vero. Così come non manca ai cinesi un’abilità tutta orientale nello sviluppare i loro progetti in modo suadente e silenzioso. Il cosiddetto secolo americano non fu però solo un periodo di imperialismo economico, ma anche di profonda colonizzazione culturale, fatta di musica, mode, cinematografia e quant’altro. L’assoggettamento avvenne per questo, in una progressiva adesione a determinati miti, soprattutto da parte delle giovani generazioni. Ma... la Cina cosa può o potrà fare su questo fronte? Scusate se banalizzo, ma rendere popolare la Coca Cola non è stato difficile. Farlo con gli Involtini Primavera mi sembra non facilmente fattibile. E anche quando si provò a farlo con il Libretto rosso di Mao la cosa fu ‘grossa ma mai grande’ e finì confinata nel ridicolo storico. Nel dettaglio, non mi pare che si possa ipotizzare con facilità una transizione da un Secolo Americano ad un Secolo Asiatico solo perchè economicamente gli USA vanno a picco. Penso quindi che gli scenari sociali si svilupperanno in una evoluzione del tutto imprevista e (forse) imprevedibile. Più concretamente, il fatto che il polo di riferimento economico mondiale cambi così radicalmente, quali conseguenze sociali potrebbe avere? Possibile che nessuno ci pensi? E/o non ne parli? Non mi sembra di aver letto nulla in giro su questi ipotetici nuovi scenari, o mi è sfuggito qualcosa?».


Verissimo: «Il così detto secolo americano non fu però solo un periodo di imperialismo economico, ma anche di profonda colonizzazione culturale fatta di musica, mode cinematografia e quant’altro».

Per sessant’anni, l’America è stata vissuta da noi europei come una grande potenza «cordiale», culturalmente nostra figlia e politicamente nostra madre – dunque affine e familiare – che ha inteso il suo impero (fino a un certo segno) come un «chiamare a raccolta genti diverse per fare qualcosa di grande assieme». Ossia non solo nel suo interesse, ma in base a un progetto in cui gli altri (i vinti europei) potevano stare, come soci e alleati e non solo come soggetti e servi.

Ciò è durato finchè è durato l’impero sovietico. Il rischio di guerra atomica (e la morte comune totale) fecero di USA ed Europa una «comunità di destino».

Ora questo è finito. Da almeno un decennio gli USA hanno scavalcato l’Europa e sono diventati una potenza asiatica, in guerra nello heartland postsovietico. «Asiatica» nel senso peggiore, quello di Gengis Khan e non dell’Impero del Mezzo. Da potenza «includente», l’America è diventata una potenza «escludente»: non ci vuole associare, non fa più finta di trattarci da alleati, ci pretende subalterni: «O con noi o contro di noi», minacciò Bush.

E’ una involuzione «israeliana» della politica americana, non a caso messa in atto dai neoconservatori occupati solo di Israele (il resto del mondo crepi), per i quali il razzismo israeliano è un modello, e seguaci di Leo Strauss, il teorico della doppiezza e della violenza come ultima realtà del vivere umano. E i neocon l’avevano anche formulata, questa nuova fase, nel loro think-tank che hanno chiamato «Project for a New American Century», e nel documento, uscito da quel think-tank, che titolava «Rebuilding the american Defense».

Era tutto scritto lì: il nuovo secolo americano suprematista, e la violenza totale suprematista come unico mezzo di convinzione. Niente carote, ormai, solo il bastone.

Noi europei non l’abbiamo capito in tempo. La «democrazia» americanista mondiale s’è involuta sotto i nostri occhi in un «segregazionismo» ostile, esattamente come quello praticato da Israele nella sua area: Israele, per la sua ideologia razzista, non sa e non vuole «comandare» – perchè il comando è sempre associazione, integrazione, chiamata dell’avversario di oggi a «fare qualcosa di grande assieme» – ma solo intimidire, punire, tenere sotto il terrore delle armi superiori.

E’ una involuzione terminale, di cui sia Israele sia gli USA pagheranno un prezzo altissimo, presto o tardi. Non a caso chiunque cerchi di indurre Israele ad accordi di pace verso i Paesi musulmani, o a riconoscere i diritti dei palestinesi all’interno, viene accusato di «volere la fine di Israele come Stato ebraico».

La frase è rivelatrice. E’ come se Hitler avesse accusato i suoi nemici di «volere la fine della Germania come Stato ariano». Il razzismo, come ideologia di Stato, porta allo stesso errore: non offrire agli altri un «ordine» in cui possano convivere (Hitler commise questo errore con gli slavi), significa farsi nemici permanenti, che un giorno si coalizzeranno per ridurti alla ragione.

E noi europei?

Come scrive Franco, siamo orfani del mito americano, che ha rivelato tutta la sua impostura. Bisognerà adattarsi. Certo la Cina non sostituirà in questo l’America. Non credo sia interessata a instillarci le sue mode culturali e i suoi miti includenti. Lo farà, se lo farà, nella sola area che le interessa egemonizzare, quella dei popoli «gialli». I quali – lo so per diretta esperienza dei miei viaggi e incontri in estremo Oriente – già da secoli riconoscono nella Cina la loro madre culturale.

E’ stata per me una sorpresa sentire alti funzionari giapponesi o sud-coreani dire, ai tempi del maoismo, frasi come «La Cina merita comunque il nostro rispetto perchè ci ha dato la scrittura», e intendevano la cultura nel suo insieme. In Giappone, un intellettuale è tanto più colto e sapiente, quanti più ideogrammi cinesi inserisce nei suoi scritti. Un testo composto di ideogrammi cinesi evoca, nei giapponesi e nei coreani, la «classicità». Come per noi la Grecia; ma non una Grecia morta, non una Grecia del passato: una Grecia che è qui e domina nel presente.

Ma la Cina sarà Grecia per gli asiatici, non per noi. Per noi, non lo sarà mai. Anche se un giorno Pechino nutrisse l’ambizione (che secondo me non riuscirà mai a concepire) di estendere il suo «comando» all’Occidente, noi lo vivremmo sempre come dominio, come servaggio ad un’entità estranea, da rigettare.

La Grecia respinse come sappiamo, a Salamina e alle Termopili, il «comando» della Persia, che pure era tanto affine. Roma e gli italici rigettarono, senza badare al prezzo altissimo in sangue, Cartagine e Annibale. L’Europa rigettò il comando musulmano, a Poitiers, a Lepanto e secoli dopo a Vienna. Ed è straordinario come la Spagna alto-medievale, rustica e arretrata, sotto la splendida civiltà islamica di allora, non volle stare; la rigettò con uno sforzo durato un millennio, metro dopo metro. E chiamò questo sforzo, condotto con ostinazione da generazioni di contadini analfabeti a liberare le aride mesetas, «reconquista».In realtà fu la reazione di rigetto di un corpo biologico verso un ospite estraneo, condotta con ostinata frizione vegetale, lenta, sub-razionale, ma inesorabile.


Non posso immaginare che gli europei d’oggi, benchè degradati all’inverosimile, siano scesi ad una tale assenza di anticorpi – siano così intaccati dall’AIDS della civilizzazione globale – da accettare di buon grado il «comando» della Cina, di partecipare al progetto asiatico. Non chiedetemi perchè. Diciamo solo che c’è una differenza irriducibile nell’idea stessa di «comando» com’è intesa in Asia, e come in Occidente. Diciamo che le grandi civiltà non sono chimicamente solubili l’una nell’altra.

Nella Cina, dunque, noi europei non avremo mai la sostituta della grande mamma americana. Il che significa che dobbiamo diventare adulti, in un mondo senza miti confezionati. Un  mondo di realpolitik, dove conteranno i «grandi insiemi» e le «comunità di destino», e nuovi antagonismi continentali. Espliciti e, al bisogno, brutali.

La domanda dunque diventa questa: saremo capaci, noi europei, di diventare adulti, di restare sulla scena del mondo senza tutori, con un minimo di dignità, oltre che di consapevolezza e di intelligenza?

Ci sono ragioni per dubitarne, visto che gli europei d’oggi si cullano in due opposti infantilismi: il ripiegamento etnicistico e «identitario», e quello che chiamerò l’illusione dei «grandi universali».

Sul primo c’è poco da dire, perchè ne abbiamo parecchie manifestazioni farsesche e incivili in Italia: ronde padane, «padroni in casa nostra», razzismi di quartiere e di periferia  romanesca, tifoserie calcistiche e pseudo-politiche, Napoli sotto la Camorra, il «governo» della mafia in Sicilia, sono tutti riflessi identitari. Nella ex-Jugoslavia, e recentemente in Georgia, ne abbiamo visto gli esiti sanguinosi. Sono tutti fenomeni politicamente regressivi, nel senso che li ispira la paura e la diffidenza anzichè la «cordiale» volontà espansiva da cui nascono i grandi insiemi; manifestano, nonostante tutta la loro arroganza, una profonda insicurezza della propria «identità»; sono rifugi nel dialettale e nel locale, e non possono mai costituire uno Stato, perchè anche uno «Stato nazionale» è in realtà fondato sul diritto e la cittadinanza (a cui chiamano altri per vivere assieme), non sull’etnia e la comunanza di sangue; e solo Stati sovrani e giuridicamente stabiliti possono unirsi ad altri Stati in alleanze e nei grandi insiemi di cui avremo assoluto bisogno. Figurarsi poi se quell’etnia è fasulla, come «la Padania» e «i celti». Sono il contrario di ciò che la storia attuale richiede, il contrario di regimi «inclusivi» e romanamente «cordiali». Ciò che producono questi riflessi è solo un infinito manifestarsi di particolarismi, di secessionismi anarchici sempre più microscopici o – nel Sud – di «autonomie» che sono soggezioni per lo più volontarie alla criminalità, ossia al mero potere elementare della forza bruta.

Dirò di più: sono fenomeni del tutto passeggeri. Pullulano e sembrano tanto vitali quanto lo sono i vermi in un cadavere: poichè il gran corpo è morto – poichè nel mondo, in questa fase, nessuno «comanda» in modo legittimo il verminaio identitario fa festa, si nutre, e i capi-verme si impancano a fare la lezione: «comandiamo noi, adesso»; «Ordiniamo di parlare in dialetto», «Insegnanti solo del Nord». In Ucraina e Georgia (e in Polonia, Lettonia, Lituania) comandano i vermi, sul gran corpo morto dell’impero sovietico; hanno formato dei pretesi «Stati» che, appena nati, invocano una nuova soggezione, agli americani.

Insomma: gli etnicismi ammettono di non poter esistere senza un tutore, e al massimo possono scegliere di sottomettersi ad un tutore o invece che all’altro. Quando vigerà un nuovo «comando del mondo», il verminaio ammutolirà, e magari marcerà a passo dell’oca agli ordini del tutore.

E veniamo al secondo infantilismo. E’ l’illusione che l’eclisse dell’impero americano dopo quello sovietico renda maturo il tempo in cui le «società civili» si governeranno senza  bisogno dello Stato, in cui «l’interdipendenza economica» unirà tutta l’umanità in una pace perpetua, abolendo le frontiere; un tempo felice in cui i conflitti saranno appianati da un Tribunale mondiale, di cui la corte dell’Aja è un embrione, o dall’ONU, in nome di un diritto che non avrà bisogno di essere presidiato dalla forza, perchè da tutti condiviso. Un diritto universale e consensuale, chiaro ad europei e cinesi, a musulmani «illuminati» e indù, ai kazaki e ai russi.

Bisognerebbe capire anzitutto che questo sogno o utopia – che ha corso sotto etichette di «pacifismo», ecologismo e no-global globalista apparentemente anti-americano – è esso stesso il prodotto di maggior successo della propaganda americanista. Sono state le grandi centrali affaristiche americane come il Bilderberg e la Trilaterale, le multinazionali in cerca di mercati planetari e la grande finanza anglo-americana a promuovere la globalizzazione terminale; e ce l’hanno venduta con la promessa che gli Stati sovrani – accusati di essere fomentatori di continue guerre – si sarebbero spontaneamente disciolti nei «grandi universali del mercato e della democrazia planetaria». Mercato e democrazia venivano presentati come poteri neutri, apolitici, che proprio perchè non appartengono a nessuno, possono essere di tutti.

In realtà, nulla è stato meno spontaneo. Il «mercato» deve essere sorvegliato dalle sanzioni punitive dell’Organizzazione Mondiale del Commercio e dal Fondo Monetario, o per noi europei dalle multe e dalle «regolamentazioni» emanate dietro le quinte di Bruxelles. La «democrazia» si è rivelata bisognosa di propagarsi con organizzatissime «rivoluzioni colorate», ed alla fin fine si fonda sul potere di oligarchie che badano bene di non sottoporsi al voto popolare in nessun caso, preferendo decidere in riunioni segrete nel Bilderberg, e poi istruire i loro giornali e i loro politici sul come attuare le loro direttive. Le apparenti «regole approvate da tutti» che si fanno passare per diritto, e che ci promettevano una specie di «società civile degli Stati» privati della loro sovranità per il bene della «pace», appaiono per quel che sono: il progetto di governo mondiale dei banchieri, la forma più sosfisticata ed ulteriore dell’imperialismo britannico; e la privazione della sovranità degli Stati coincide con la privazione dei diritti politici reali dei cittadini, la trasformazione dei cittadini in consumatori-contribuenti, e – se provano ad opporsi a questo sogno post-politico – magari in «terroristi». Candidati alle torture di Guantanamo e Abu Ghraib (con tanti saluti ai «diritti umani» sanciti dall’ONU), o alle persecuzioni che patiscono i palestinesi. Nella bella utopia mondialista, non c’è spazio legittimo per nessuna opposizione.

I «grandi principii» stilati nelle convenzioni e nella carte internazionali, da cui troppi di noi si credono protetti – i diritti umani ad esempio – si dimostrano pieghevoli come plastilina: la Corte dell’Aja ha processato Karadzic in base a quei principi, ma Tzipi Livni, Ehud Barak e i generali israeliani massacratori denunciati dal Rapporto Goldstone restano impuniti; e se qualcuno li denuncia quando mettono piede in Europa, ricevono pure tanto di scuse. Gli svizzeri sono deplorati per il referendum contro i minareti; l’unico Stato giuridicamente fondato sulla razza (Israele) non viene accusato di «discriminazione». E che dire della «democrazia»? I reclusi di Gaza hanno massicciamente votato per Hamas: gli si è spiegato con le brutte che sono collettivamente colpevoli di «terrorismo», e che non riceveranno nemmeno il pane fino a quando non voterano Fatah.

Il «diritto universale» si piega costantemente alla forza dell’arroganza e della prepotenza. E’ dunque un’illusione, che gli eventi del futuro smentiranno ogni giorno di più.


Il che dimostra due cose: anzitutto, che «l’ordine occidentale» che ci siamo illusi coincidesse con la civiltà, viene calpestato senza ritegno, e non ha più corso. Secondo, che un «diritto senza Stato» è una contraddizione in termini; privati dello Stato sovrano, siamo privati dei diritti (quelli veri: ci danno il «diritto» alla droga e alle nozze gay, ma non quello di votare per la cosiddetta costituzione europea, di sceglierci i governanti sovrannazionali); e che in definitiva i grandi principii generali e collettivi poggiano sulla potenza militare dell’unica superpotenza rimasta, dolcificata da una quantità di propaganda pacifista, democratica o ecologista.

A Copenhagen s’è visto chiaro: l’America-Britannia indebolita non è riuscita ad imporre la sua ultima versione del controllo mondiale per allarmismo climatico, benchè, grazie alla propaganda, sia di moda fra le masse preoccuparsi del «riscaldamento globale» e dell’«inquinamento», e guidare auto a «emissioni zero».

E’ urgente che ci svegliamo da questi doppi infantilismi, in cui noi europei ci siamo abbandonati irresponsabilmente, disertando le nostre responsabilità e affidandoci ad irresponsabili che non meritano il «comando». Nè l’etnicismo identitario nè l’illusione dei «grandi universali» sono soluzioni possibili per l’epoca che è sorta, e che già sta imponendoci la sua dura realtà – fra l’altro, con l’emigrazione dei nostri posti di lavoro in Cina, o con l’obbligo di mandare i «nostri ragazzi» in guerre (pardon, «operazioni di pace») imposte da un’America che si prova a diventare grande potenza asiatica al modo di Attila.

«Diventare adulti», per noi europei che ci siamo accomodati a 60 anni di subordinazione, ed abbiamo demandato agli USA il compito di «pensare» politicamente per noi, significa riconquistare certe elementari nozioni politiche. Ne siamo tanto digiuni, che ci manca persino un luogo in cui tali questioni possano essere, non si dice affrontate, ma nemmmeno poste.

Nella UE, abbiamo scambiato «l’integrazione» con l’ordine politico. Ma sono invece due fenomeni di natura diversa, e irriducibili. I mercati comuni promettono e portano prosperità, ma la prosperità non compensa l’impossibilità di vivere assieme, e non ne recano mai il desiderio. Un esempio lampante è ovviamente l’ex Jugoslavia; un altro, anche più strano perchè pacifico, è la frantumazione della Cecoslovacchia, Stato creato artificialmente in funzione anti-tedesca dai   vincitori: la prospettiva della povertà non ha impedito agli slovacchi di volersi separare dai cechi. E che dire dell’Ucraina, economicamente integrata nel sistema economico panrusso, culla stessa della Russia, la «Rus di Kiev»? E della Catalogna, e dei baschi?

Non c’è alcuna ragione per cui gli interessi uniscano in modo durevole, se manca il senso di una comunità di destino. E, esattamente come per essere uomini nulla sostituisce il carattere, e come i diritti politici ci sono stati via via sottratti perchè non abbiamo carattere, perchè li abbiamo creduti «diritti acquisiti», mentre sono stati strappati ai nostri padri con lotte e sangue, così nulla sostituisce la politica. Quella vera, mica la sceneggiata che passa con questo nome in TV.

La politica vera che non è anzitutto la «scienza del potere», ma l’arte di vivere assieme, e di far vivere assieme genti diverse e originiariamente ostili, per compiere qualcosa insieme. Nessuna  integrazione, economica, commerciale o ecologica planetaria sostituisce l’invenzione di un destino comune, che è appunto l’essenza della politica.

Da sempre, solo gli Stati legittimi e sovrani sono stati capaci di questo. Ma ora in un numero crescente di Paesi, gli Stati non incarnano più il senso comune per i cittadini; rischio estremo, sia perchè in questa condizione dilagano il cinismo, la rabbiosa insubordinazione e la corruzione dei politici  (ciò che chiamiamo «individualismo» nella sua virulenta versione post-moderna), e  nei casi peggiori, la guerra.

Lungi dall’aver abolito la guerra, l’indebolimento degli Stati ne produce di un nuovo tipo: le «guerre di legittimità», che esprimono l’impossibilità radicale di vivere insieme, da parte di gruppi che prima vivevano insieme: minoranze contro maggioranze, autoctoni contro immigrati, «nazioni» contro Stati. Privata del tutore, l’Europa rischia di cadere in questa situazione.

Che fare?

Bisognerà parlare della «comunità di destino», e dell’ultima volta che l’abbiamo avuta. Proverò a farlo in un prossimo articolo.



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