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Per una lettura attuale del principio di sussidiarietà
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La consuetudine di spiegare un principio attraverso degli esempi storici, rischia talvolta di legarne la comprensione ad un contesto. Ma se un principio è tale, deve valere sempre, indipendentemente dalle circostanze in cui si applica. Al giorno d’oggi, se non si pone molta attenzione, si rischia di fraintendere questo pilastro della dottrina sociale della Chiesa, in quanto la situazione è drasticamente mutata rispetto ai tempi in cui il principio fu formulato ed era intuitivamente eloquente. Proviamo a datare qualche pietra miliare del magistero ecclesiale, leggendola alla luce del’ambientazione storica, così da avere un riferimento di partenza nell’interpretazione di questi pronunciamenti.

Ad esempio la «Rerum novarum» afferma:

«I governanti dunque debbono in primo luogo concorrervi in maniera generale con tutto il complesso delle leggi e delle istituzioni politiche, ordinando e amministrando lo Stato in modo che ne risulti naturalmente la pubblica e privata prosperità... può dunque lo Stato grandemente concorrere, come al benessere delle altre classi, così a quello dei proletari; e ciò di suo pieno diritto e senza dar sospetto d’indebite ingerenze; giacché provvedere al bene comune è ufficio e competenza dello Stato».


Il che, nel 1891, veniva riferito agli effetti della rivoluzione industriale combinata con la soppressione del «welfare» dell’epoca, costituito in gran parte dalle rendite ecclesiastiche. E Leone XIII aveva potuto constatare come l’abolizione degli ordini religiosi e le confische dei beni della Chiesa, avevano ridotto in miseria intere popolazioni del sud Italia, passate da una mezzadria a fitto agevolato sotto un convento o una parrocchia, a una paga da miseria come braccianti dei latifondisti ed erano state, infine, costrette ad emigrare in massa. Applicate alla situazione corrente, queste parole erano logiche, intuitive e da tutti comprensibili.

Oppure leggiamo nella «Quadragesimo anno»:

«È vero certamente e ben dimostrato dalla storia, che, per la mutazione delle circostanze, molte cose non si possono più compiere se non da grandi associazioni, laddove prima si eseguivano anche delle piccole. Ma deve tuttavia restare saldo il principio importantissimo nella filosofa sociale: che siccome è illecito togliere agli individui ciò che essi possono compiere con le forze e l’industria propria per affidarlo alla comunità, così è ingiusto rimettere a una maggiore e più alta società quello che dalle minori e inferiori comunità si può fare».

Anche queste frasi del 1931 acquistano il loro massimo e più evidente significato se riferite alla Russia bolscevica, dove il collettivismo statalista toglieva agli individui non solo «ciò che potevano compiere con le forze e l’industria propria», ma anche ciò che avevano già compiuto e, con esso, ogni libertà e, spesso, persino la vita.

E infine questa frase di Pio XII:

«Quale è, quindi, la vera nozione di Stato se non quella di un organismo morale fondato sull’ordine morale del mondo? Lo Stato non è una onnipotenza oppressiva di ogni legittima autonomia. La sua funzione, la sua magnifica funzione, è piuttosto di favorire, aiutare, promuovere l’intima coalizione, la cooperazione attiva – nel senso di una unità più alta – dei membri che, rispettando la loro subordinazione ai fini dello Stato, cooperano nel miglior modo possibile al bene della comunità, precisamente in quanto conservano e sviluppano il loro carattere particolare e naturale. Né l’individuo né la famiglia devono essere assorbiti dallo Stato».

Parole che, oltre a reagire allo statalismo oppressivo sovietico, assumevano una chiara tendenza correttiva di fronte alla statolatria patriottica, tipica dei regimi nazista e fascista.

Come si nota dagli esempi che abbiamo fatto, il nucleo centrale di tutte queste affermazioni del magistero concerne i rapporti tra la persona e lo Stato. Affinché le dichiarazioni di principio conservino il loro significato, è necessario che anche i termini coinvolti, cioè «persona» e «Stato» mantengano lo stesso significato con cui erano stati adoperati nell’esposizione dei principii. Ma la situazione attuale ci mostra che non è più così: in particolare lo stato sembra aver mutato drasticamente le sue funzioni, al punto da chiederci se sia ancora la stessa cosa di cui parlavano Pio XI, e gli altri pontefici. Consideriamo gli attributi che i classici dichiaravano essere di pertinenza del regno: lo scettro, la toga, la spada e la moneta, simboleggianti il potere legislativo-esecutivo, la giustizia, l’esercito e le finanze. Ebbene, queste sono sempre state le prerogative dello Stato, sia che a esercitare questi poteri fosse un unico monarca, sia che fossero distribuiti secondo la divisione degli organi legislativi, esecutivi e giudiziari, tipica delle repubbliche costituzionali. Ovvero, per «Stato» si intendeva l’organismo che esercitasse unitariamente questi poteri, in un modo o nell’altro, per mezzo di un sovrano, di un parlamento elettivo, o qualunque altro sistema che fosse chiaramente istituzionale e rappresentativo dei cittadini che governava. Dobbiamo prendere atto che oggi non è più così, ma che le tradizionali prerogative dello Stato sono in fase avanzata di trasferimento in altre sedi.

Il primo privilegio perduto, in ordine di tempo, è stato quello della moneta, dato che l’apparato statale non emette più la moneta come in passato, ma la prende a prestito, indebitandosi a interesse.
Il fatto non è di poco conto, perché indebolisce tutte le funzioni dello Stato, che possono sì esercitarsi liberamente in teoria, ma in sede di attuazione vengono a dipendere dalla disponibilità dei creditori. L’avevano capito perfettamente gli usurai che speculavano contro gli Stati fin dal 1700, come risulta dalla dichiarazione di Mayer Amschel Rothschild, contraddistinta dal feroce cinismo tipico di questa schiatta di avventurieri: «Datemi il controllo per la creazione della moneta per una nazione e non mi importa nulla di chi fa le leggi».

E naturalmente lo aveva capito anche Papa Ratti, (ben consigliato dal suo amico, il beato Giuseppe Toniolo) che, sempre nella «Quadragesimo anno», scriveva:

«E in primo luogo ciò che ferisce gli occhi è che ai nostri tempi non vi è solo concentrazione della ricchezza, ma l’accumularsi altresì di una potenza enorme, di una dispotica padronanza dell’economia in mano di pochi, e questi sovente neppure proprietari, ma solo depositari e amministratori del capitale, di cui essi però dispongono a loro grado e piacimento. Questo potere diviene più che mai dispotico in quelli che, tenendo in pugno il danaro, la fanno da padroni; onde sono in qualche modo i distributori del sangue stesso, di cui vive l’organismo economico, e hanno in mano, per così dire, l’anima dell’economia, sicché nessuno, contro la loro volontà, potrebbe nemmeno respirare» (par. 105-106).


Questa rinuncia alla sovranità monetaria si traduce in un forte ostacolo alle attività sussidiarie da parte dello Stato, che non ha le risorse per intervenire né a favore dell'’occupazione, né per colmare eventuali vuoti produttivi in settori strategici dell’economia. L’ostacolo diventa poi iniquo quando è riferito alle azioni di solidarietà. Si consideri che la dottrina sociale della Chiesa afferma che non è sussidiarietà lasciare che la società si occupi di volontariato e assistenza caritativa, per rimediare alle lacune dello Stato. Ebbene, in un regime di denaro-debito, quando lo Stato interviene in opere assistenziali, deve prendere a prestito le somme necessarie e poi, per ripagare il proprio debito, recuperarle, accresciute degli interessi, sotto forma di tasse, cosicché per i cittadini sarebbe meno oneroso pagare gli interventi di solidarietà di tasca propria, piuttosto che lasciarli svolgere allo Stato, come vorrebbero i testi del Magistero.

La spada è stato il secondo privilegio uscito dalle mani dello Stato, per finire in altre non ben precisate. Se ci riferiamo, come per il primo punto, alla situazione italiana in particolare e a quella occidentale in generale, notiamo che dopo la Seconda Guerra Mondiale la direzione degli apparati bellici si è allontanata sempre più dal cittadino e dal controllo istituzionale. Infatti, a causa della guerra fredda, è stata formata l’alleanza difensiva della NATO, costituita, in modo naturale, sotto la guida degli Stati Uniti, unica superpotenza in grado di opporsi militarmente all’Unione Sovietica. Tuttavia, dopo il crollo del blocco comunista, sarebbe stato lecito attendersi un allentamento del Patto Atlantico e il ritorno a un sistema di forze multipolare, essendo cessata l’emergenza difensiva che giustificava una simile concentrazione di poteri militari. Invece così non è avvenuto, e lo Stato ha continuato a delegare alla NATO, e con essa agli Stati Uniti, la direzione delle forze armate. Il fatto non si è ridotto a una disquisizione accademica sugli equilibri costituzionali, ma ha avuto conseguenze pratiche piuttosto gravi. Infatti il governo statunitense appalta, di fatto, la politica estera a un organismo privato, denominato Council of Foreign Relations, (la cui importanza si può capire dal fatto che, a partire dalla sua fondazione, tutti i presidenti americani eccetto Ronald Reagan ne erano stati membri prima della loro elezione), per cui una minoranza privata è nella posizione di esercitare un’influenza decisiva su tutte le strategie militari dell’Occidente.

Con l’avvento del nuovo millennio abbiamo assistito a una svolta decisamente aggressiva di questi enti direttivi, svolta concretatasi in guerre di predominio geopolitico, ingaggiate sotto i fantasiosi pretesti del rischio catastrofico (siccome il mio competitore potrebbe attaccarmi io attacco lui, siccome potrebbe avere armi di distruzione di massa, io uso simili armi contro di lui), grazie all’ipocrisia dei «bombardamenti umanitari» e infine in nome dell’assurdo conclamato. È il caso della guerra neocoloniale in Libia, a cui l’Italia ha dovuto partecipare, contro i propri interessi e a favore di quelli franco-britannici. È chiaro, per un osservatore disincantato, che queste iniziative non hanno nulla di etico, solidale o sussidiario, ma rientrano nella stucchevole logica della brama di potere, le cui radici si perdono nella notte dei tempi.

Il terzo privilegio, in ordine di tempo, che lo Stato sta perdendo è quello della toga. Apparentemente la magistratura è ancora cosa pubblica, ma è il concetto stesso di giustizia che ha subito una svolta centrifuga. Infatti, all’inizio degli anni ‘90, anche in Italia è stato introdotto il processo penale di parte. Il significato di tale procedura è il seguente: chi crede di aver subito un torto può ingaggiare una guerra legale col suo avversario e, a tal fine, lo Stato mette a disposizione dei tecnici che fungeranno da arbitri di questo agone. Quindi non è più la verità (seppur limitata ai suoi aspetti documentabili), di cui lo Stato si costituiva garante imparziale, il criterio conduttore del giudizio legale, ma sono le forze dei contendenti a risultare determinanti ai fini dell’esito del processo.

Negli Stati Uniti, dove questi concetti sono estremizzati, non è raro che a vincere sia il più ricco (indipendentemente dal fatto che abbia torto o ragione), perché può pagare gli avvocati migliori o, addirittura, perché prolungando il procedimento, il suo avversario non potrà più sostenerne le spese e perderà per abbandono, quasi si trattasse di un incontro sportivo. A conferma che, purtroppo, anche in Italia sia questo l’intendimento del processo di parte, sta il fatto che prove e testimonianze, per essere valide, vanno esibite «qui» e «ora», nell’atto del dibattere la contesa, essendo quindi adoperate come armi contro l’avversario e non come strumenti per far emergere una verità dei fatti, valutabile dal collegio giudicante.

Un altro elemento che tende a distaccare la magistratura dal corpo dello Stato è l’uso di adottare come precedente validante le sentenze della Cassazione. Si comprenderà facilmente che tutte le interpretazioni chiare e normali della legge non hanno bisogno di nessun supporto per essere adottate. Il ricorso al precedente lo si fa per giustificare interpretazioni estreme, per sottigliezza, complicazione e anti-intuitività. In pratica, se la Cassazione sbaglia una sentenza, è proprio tale sentenza errata a costituire norma, generando un conflitto latente col potere legislativo, creando confusione e dissonanza tra gli organismi regolatori e quindi lavorando secondo un principio opposto a quello di sussidiarietà.

L’ultimo elemento da cui lo Stato si sta distaccando è quello simboleggiato dallo scettro. Infatti con l’avvento dell’Unione Europea, segnatamente dalla ratifica del trattato di Lisbona, i parlamenti nazionali si sono vincolati a recepire le direttive comunitarie, il che, con belle parole, non significa altro che obbedire, scodinzolando come un cagnolino. Anche in questo caso il trasferimento di sovranità è avvenuto a favore di enti dalla natura equivoca. Esistono infatti un parlamento e un governo europei (quest’ultimo chiamato «commissione») che però non sono il corrispettivo degli analoghi enti nazionali, poiché l’equilibrio dei poteri detenuti è fortemente sbilanciato a favore della commissione. Il parlamento europeo può discutere e infine votare le leggi, ma non può crearle. Anche la possibilità di introdurre emendamenti è limitata dalla richiesta di una doppia maggioranza: maggioranza semplice per proporli in assemblea plenaria e assoluta per approvarli. Ampi poteri e discrezionalità sono invece riservati alla commissione, che però è composta da membri non eletti (a differenza degli europarlamentari) e non si sa né da chi siano scelti né in base a quali criteri, per cui, in definitiva non si capisce neppure davanti a chi rispondano del loro operato. In queste condizioni lo Stato non appare più sovrano e neppure ministro. Il paragone più appropriato è quello di Stato-pubblicano, ridottosi a fare l’esattore delle gabelle per conto altrui.

Al termine di questa disamina sulla condizione attuale dello Stato, ci tocca registrare gli atteggiamenti degli intellettuali cattolici e le loro applicazioni della dottrina sociale della Chiesa.
Questi atteggiamenti sono sostanzialmente tre, che potremmo definire dormiente, semidesto e sveglio.

I dormienti sono coloro che non si sono accorti dei mutamenti epocali già avvenuti o in corso d’opera e continuano a ripetere come pappagalli che lo Stato non deve togliere spazio ai privati nell’esercizio delle loro funzioni, comprese quelle che hanno rilevanza pubblica. Tale affermazione, ineccepibile in astratto, diventa grottesca se calata nella realtà concreta contemporanea, dominata da società private multinazionali più ricche, estese e potenti di interi Stati, capaci di dettare agende operative a governi democraticamente eletti, i quali, al loro confronto, non sono che corpi intermedi dal modesto potere contrattuale. Anzi questo genere di affermazioni fanno gongolare i grandi speculatori che, tramite la «privatizzazione» delle attività dello Stato, cercano di assicurarsi i monopoli dei servizi indispensabili, da gestire con il massimo profitto, socializzando le perdite e privatizzando gli utili.

I semidesti, invece, sono coloro che hanno colto i trasferimenti di funzione dallo Stato ad altre entità e si risolvono, perciò, a raccomandare a questi enti terzi, ciò che nelle affermazioni del Magistero veniva detto dello Stato. Purtroppo anche questi appelli non possono che essere patetici; si pensi ad esempio alla supplica, ultimamente più volte ripetuta, rivolta ai mercati affinché agiscano eticamente. Come se un mercato, che non è una persona, ma un’astrazione, una media statistica del comportamento economico-finanziario di un nugolo di operatori, potesse avere una coscienza! E quand’anche esistesse una sensibilità di questo tipo negli operatori finanziari, essi penserebbero di agire più che correttamente, fintanto che nelle università si insegna la retriva e falsa teoria di Adam Smith, secondo cui il massimo profitto personale coincide con il massimo bene economico universale. O si può anche immaginare quale effetto sortiscano le raccomandazioni di «agire con responsabilità» rivolte ai comandi internazionali che stanno preparando un’invasione o ai servizi segreti che stanno organizzando un golpe in un Paese straniero!

Infine vi sono i desti, coloro che hanno capito che per rientrare nella dialettica sussidiaria, la persona deve essere trattata da persona, ma anche lo Stato deve tornare a fare lo Stato, non di nome, ma di fatto. Questa legittima istanza, che viene confusa da alcuni come uno statalismo di ritorno, è invece la premessa affinché le singole persone e le famiglie possano riappropriarsi in concreto dei propri spazi di iniziativa e di libertà. Aldo Moro, quaranta anni fa, metteva in guardia contro i predicatori delle libertà individuali, perché tali libertà restano il più delle volte un’astrazione, in quanto per la realizzazione dei propri progetti il singolo dipende dagli altri. Soprattutto, senza enti regolatori, il singolo sarebbe soggetto alla legge della jungla, e conseguentemente costretto a piegarsi al più forte. Quindi la vera libertà comprende le opzioni di associazione e la disponibilità dei mezzi concreti occorrenti a raggiungere i fini che le associazioni si propongono, secondo il noto adagio che recita: «Libertà è partecipazione». E quale associazione è più necessaria dello Stato, come ente regolatore, nato per superare la legge del più forte con la legge di diritto, che esiste per tutelare i deboli e assicurare pari condizioni a tutti in vista del conseguimento di una vita dignitosa e rispettabile?

Il fatto che certi Stati si comportino male, non significa però che lo Stato in sé sia inutile o dannoso e soprattutto i cattolici (per quanto penalizzati in riferimento al trattamento delle scuole private) dovrebbero capirlo, sfuggendo alla falsa equazione che ha preso piede negli ultimi decenni: «Privato buono, statale cattivo». Provino a pensare, di contro, agli emiri orientali, ai sultani proprietari di tutti i beni della propria nazione; i cristiani civilizzati non giudicano questa situazione orripilante? Ebbene in Occidente esistono dei privati proprietari di beni e ricchezze superiori a quelli dei rajah, che ne fanno quel che vogliono, irresponsabilmente, perché «tanto è roba loro», e questo, per qualche strana ragione non fa scandalo. Di fronte a questi colossi, multinazionali e sovrannazionali, lo Stato rappresenta proprio quella libera associazione di cittadini, capace di frenarne l’invadenza e di tutelare le iniziative che nascono dal basso. Lo Stato, che un tempo era visto come leviatano sempre pronto a insidiare la libera iniziativa, oggi ne rappresenta il baluardo, unico corpo sociale ad avere la forza e l’autorità per frenare i colossi privati, guidati da oligarchie tecnocratiche e amorali.

Per questo, al giorno d’oggi, dovrebbe essere scontato che i cattolici, proprio guidati dal principio di sussidiarietà, appoggino quei movimenti o partiti (1) che vogliano restituire allo Stato e, con esso, ai cittadini le perdute sovranità. In concreto le vie da seguire potrebbero essere due: l’una, utopistica, di riformare la BCE, la NATO e la UE, l’altra, più realistica, di abbandonarle, a cominciare dall’euro, che tanto male ha fatto ai popoli europei.

Andrea Cavalleri




1) Chi scrive si è impegnato nel partito «Io amo l’Italia» di Magdi Cristiano Allam, che indica come primo punto del proprio programma il riscatto della sovranità monetaria e prosegue con la difesa dei principii non negoziabili, che comprendono la salvaguardia della vita fin dal concepimento e iniziative per salvare gli italiani dal suicidio demografico. Per la riforma delle istituzioni propone una repubblica presidenziale, il monocameralismo e il federalismo dei Comuni (eliminando del tutto senato, regioni e province). A Bruxelles Magdi Cristiano lavora nel gruppo parlamentare «Europa della libertà e della democrazia», guidato da Nigel Farage, pronunciandosi contro l’ESM, il Fiscal Compact e denunciando i pericoli che incombono sui cittadini europei: la schiavitù finanziaria e la dittatura del relativismo. La sua storia personale lo ha portato ad un duro scontro con l’Islam integralista, in particolare con i «Fratelli Musulmani»; per questa ragione ha sviluppato, quasi per ripicca, una sorta di filosionismo (unico neo che ho potuto riscontrare in mezzo a tante virtù), che tuttavia è rivolto a pretendere il riconoscimento dello Stato di Israele da parte dei Paesi islamici e non altro. Avendo conosciuto il suo staff, posso testimoniare che è circondato da persone che conoscono bene la situazione mediorientale e che mantengono la giusta distanza tanto dall’islamismo, quanto dal sionismo. In ogni caso è persona intelligente e onesta, ha già cambiato parere su tanti argomenti, a suo tempo potrà cambiare anche questo. Del resto la prova della sua buona fede consiste nel fatto di essere stato censurato dai media, non appena ha intrapreso questa sua battaglia politica, i cui ideali ricordano da vicino quelli dell’ungherese Orban.


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