17 Giugno 2010
Diversi lettori mi hanno segnalato, non so se allarmati o speranzosi, questa notizia (tradotta da un nostro lettore direttamente dalla stampa inglese QUI):«Ue, Barroso: Grecia, Spagna e Portogallo rischiano la dittatura - Roma, 15 giugno - La democrazia in Grecia, Spagna e Portogallo potrebbe crollare aprendo la strada a insurrezioni popolari o a colpi di Stato militari. E’ quanto teme possa accadere il presidente della Commissione Europea, José Manuel Barroso, secondo cui i governi più colpiti dalla crisi potrebbero crollare in seguito alla bancarotta causata da debiti inestinguibili, taglio dei servizi sociali e tassi d’interesse alle stelle. Barroso avrebbe espresso questi timori venerdì scorso durante il confronto con il leader della confederazione sindacale inglese (TUC, Trades Union Congress, ndr) John Monks. E’ stato proprio Monks a rivelare oggi il contenuto della conversazione con il capo dell’esecutivo europeo, proprio in concomitanza con le prime indiscrezioni secondo cui i partner dell’Eurozona avrebbero già approntato un piano di salvataggio per la Spagna, la cui eventuale bancarotta avrebbe conseguenze incalcolabili per l’Unione Europea. ‘Se questi Paesi non riescono a varare misure di austerity potrebbero virtualmente scomparire nella forma democratica che conosciamo oggi’, avrebbe detto Barroso, aggiungendo che ‘non hanno scelta’. Monks ha ammesso di essere rimasto scioccato dalla preoccupazione di Barroso e dalla sua ‘apocalittica visione del collasso delle democrazie in Europa a causa dei debiti’. Grecia, Spagna e Portogallo sono uscite dalla dittatura solo negli anni Settanta e - osserva il Daily Mail che ha riportato le rivelazioni del sindacalista - un colpo di Stato militare non costituirebbe una novità nella loro storia».
Che dire? Gli speranzosi si disilludano: popoli vecchi e senza gioventù, con una gioventù spappolata che non fa più il servizio militare (afidato a mercenari), nè è più chiamata a difendere la patria, non fanno insurrezioni, nè assalti ai Palazzi d’Inverno. Se saranno instaurate dittature militari nei Paesi in collasso debitorio, lo saranno con il beneplacito dell’Unione Europea (e del Bilderberg, e dei banchieri che la guidano) per assicurare che i popoli sottostanti continuino, per forza, a pagare il debito pubblico (1).
Piuttosto è da notare lo slittamento dei concetti politici. Barroso, che non è mai stato eletto da nessuna cittadinanza, teme per quella che definisce «democrazia». E chiama preventivamente «dittatura» un eventuale esercizio esplosivo della volontà popolare, qualunque rivolta dal basso contro il malgoverno, le oligarchie e il parassitismo pubblico.
Non è solo una vacua questione terminologica. La parola «democrazia» contiene una potenza legittimante, che è una forza reale. Una forza che rende difficile abbattere regimi come quelli sotto cui soffriamo, in quanto si dichiarano formalmente «democratici».
L’esempio italiano è patente. Il governo cerca di ridurre le spese pubbliche, e prova a tagliare là dove sono gli sprechi e i privilegi più scandalosi, ossia nel settore che chiamiamo «La Casta». Tagli selettivi in questo campo possono facilmente recuperare i miliardi che servono (solo nello spreco sanitario, secondo il Cern, si possono recuperare 11 dei 24 miliardi del «taglio-Tremonti»). Ma il vago tentativo di abolire le provincie, o almeno alcune, è stato liquidato dopo i primi proclami.
Ogni provincia ha un parlamentino e un governuzzo: dunque sono la quintessenza della «democrazia formale». E chi si mette contro «la democrazia», deciso fino in fondo a smantellarne uno degli organi?
Le regioni, sono altrettanto democratiche in quanto hanno una giunta di governo e un parlamento diviso in maggioranza e opposizione, che abbiamo pure votato, dunque per definizione «legittimo». Ed ora accade che le regioni virtuose (che relativamente spendono meno e sono più efficienti), difendono anche le regioni viziose (Sicilia, Calabria, Campania, Lazio) che invece pagano i loro assessori 450 mila euro l’anno, assumono picciotti mafiosi per servizi pubblici che non forniscono, e sprecano e malversano a man bassa.
E’ una difesa corporativa? Guardatevi bene dal dirlo: siete contro la «democrazia» e per giunta, contro le «autonomie locali» e contro il «federalismo». Allora volete lo «Stato centralizzato»; in breve, volete «la dittatura». Eccovi bell’e delegittimati.
Il difetto sta nel manico, ossia nel Parlamento. Ho già scritto spesso che il parlamento nacque, storicamente, come «antagonista» e contrappeso del potere esecutivo, ossia del governo, quando il governo era in mano a un monarca ereditario. Il parlamento, espressione della volontà popolare, sorvegliava soprattutto che il monarca non imponesse tasse eccessive per fare guerre di prestigio, o per mantenere la corte di Versailles, o per qualunque altro motivo non approvato dalla cittadinanza che, alla fine, doveva pagare il conto.
Oggi l’antagonismo fra governo e parlamento è abolito, ed anzi tende a rovesciarsi: è il governo (esecutivo) che tenta debolmente di ridurre la spesa del settore pubblico – questo è il senso dei tagli di Tremonti – contro l’opposizione massiccia del parlamento, dei consigli regionali, provinciali, comunali. I deputati e i senatori si assegnano lo stipendio e le prebende che vogliono, senza controllo di un ente esterno, proprio perchè in quanto presunti rappresentanti del popolo, sono sovrani.
I deputati hanno più o meno dichiarato di voler fare la loro parte di sacrifici, tagliandosi qualcosa dell’emolumento. Al di là dell’annuncio, non l’hanno fatto. Non solo: l’emolumento di 5 mila euro mensili (da cui accetterebbero di detrarsi il 10%, più probabilmente il 5%) è notoriamente solo un terzo delle contribuzioni e diarie che si sono dati come rimborso-spese e contributi, e che dunque non vengono toccate.
I deputati ricevono 4 mila euro a testa ogni mese per abitare a Roma: 50 mila euro l’anno a testa, a nostre spese, per pagarsi un appartementino o un pied-à-terre.
Ora si apprende, da un articolo di Franco Bechis su Libero, che questo non è nemmeno un terzo delle spese immobiliari che sosteniamo per i nostri «rappresentanti». Dai tempi in cui Violante detenne la presidenza della Camera (che si occupa di queste cose), i parlamentari hanno anche «diritto» a un ufficio nelle vicinanze, completo di computer, arredi, telefoni e personale di servizio: che costa 11.400 euro al mese. Solo per questi uffici (lo spazio alla Camera non basta loro, poveretti) ogni parlamentare ci costa altri 11.400 euro mensili, 136.863 euro all’anno a testa. Da aggiungere a tutti gli altri emolumenti e diarie e ammenicoli che si aggirano sui 15 mila mensili.
Sono uffici costosissimi, anche perchè ad affittarli al parlamento è sostanzialmente un’unica società immobiliare, la «Milano 90» di tale Sergio Scarpellini, che compra immobili costosissimi perchè sa di poterli poi riaffittare al parlamento ancor più cari. Nel 2010, questo Scarpellini si prenderà la maggior parte degli 84 milioni di euro stanziati dalla presidenza Fini per gli uffici dei deputati. Un costo tale, che conveniva comprare gli immobili, che almeno sarebbero rimasti a patrimonio pubblico. E inoltre, perchè non c’è gara di appalto, e solo Milano 90 di Scarpellini è ammessa a questo lucroso e sfarzoso appalto pubblico?
L’aggiudicazione per gara non è più obbligatoria. Il presidente della Camera ha una insindacabilità totale sulle spese interne. Tanto che il presidente in carica, il kippà, ha scelto come fotografo della Camera un suo amico, certo Para, fotografo ufficiale del Secolo d’Italia, che prima era anche fotografo ufficiale della Regione Lazio con Storace. Per il 2010, il fotografo ufficiale Para immortalerà eventi vari a Montecitorio «per l’archivio interno» al prezzo di 307.002 euro. Se basteranno, perchè per il solo mese di gennaio, il fotografo di corte ha fatturato 75.328 euro.
Magari, con un concorso, si trovava un fotografo che si accontentava di meno. Ma Fini esercita il diritto sovrano che gli deriva dalla «democrazia».
Ogni giorno giornali, libri, inchieste televisive denunciano simili costosi arbitrii sprechi, clientelismi a spese di noi contribuenti. L’effetto sui parlamentari è nullo. Nessuno di loro si precipita a dichiarare all’opinione pubblica che si darà da fare per ridurre le spese, che rinuncerà all’ufficio che costa a noi 11.400 euro e se ne troverà uno più economico. Anzi, i non più rieletti si tengono gli uffici invece di sloggiare, sicchè i nuovi eletti, non potendo occupare quegli uffici, pretendono i loro, e presto altri uffici saranno affittati a peso d’oro a nostre spese. E sordi ad ogni protesta, ogni volta si aumentano lo stipendio e i benefici.
In una parola: se ne infischiano altamente dell’opinione pubblica, perchè hanno dalla loro la «democrazia». Nessuna opposizione si formerà per tagliare gli stipendi dei consiglieri calabresi (11.316 al mese) o siciliani (19.680) perchè perchè su quello l’accordo è totalitariamente bipartisan (2).
Ora, mettiamo a confronto questo modo di vita dei «nostri rappresentanti» con la realtà del resto della popolazione italiana. Loro abitano in palazzi sfarzosi e spendono senza controllo, assistiti da commessi parlamentari con stipendio iniziale di 7 mila euro mensili; mentre 7 milioni di pensionati ricevono 500 euro di pensione o meno, milioni di lavoratori del privato, se sono tanto fortunati di avere un lavoro, arrancano con paghe sotto i 1.200 euro, e se guadagnano qualcosa di più sono tassati al 52% (o al 63% se si aggiungono le imposte indirette), e per giunta sono ora chiamati a fare altri «sacrifici» per diversi miliardi di euro.
E’ evidentemente che questa situazione corrisponde a quel che la storiografia e la propaganda rivoluzionaria, eternata dalla narrativa e dai film, descrivono come la molla della rivoluzione francese: un popolo in miseria che assisteva agli sfarzi, agli sprechi e alle esazioni delle migliaia di parassiti ingioiellati e incipriati che facevano feste nella Corte di Versailles.
Ma qui c’è l’intoppo: i nostri parassiti, quelli che ci schiacciano nel presente momento storico, sono «la democrazia», a tutti i suoi livelli, formali, nazionali, regionali, provinciali, comunali. Malversano per nostra delega, e con regioni, provincie, comuni, ogni giorno di più «portano il potere più vicino al cittadino».
E’ evidente che andrebbero scacciati coi forconi, ghigliottinati, appesi ai lampioni come nemici del popolo; i loro beni confiscati da commissioni rivoluzionarie, fatti tremare da un regime di Terrore.
Perchè solo così, col Terrore sul collo, i parassiti si spoglierebbero dei loro privilegi.
Ma come si fa ad appendere ai lampioni i «rappresentanti del popolo»? Chi ne avrebbe il coraggio, se non una minoranza che subito sarebbe accusata dal mai votato Barroso e dai cooptati della UE di volere «la dittatura»?
La Corte di Versailles non conosceva ancora il trucco di dichiararsi «democrazia», e per questo fu possibile una rivoluzione e un cambio di regime (se poi migliore, è un altro discorso).
Se riuscissimo a vedere le cose senza farci ingannare dal termine «democrazia», vedremmo che siamo soggetti ad una oligarchia che, mentre si compra il consenso con la spesa clientelare, a tutti gli altri – i non-clienti, i cittadini senza santi in paradiso – impone aggravii feroci di tassazioni, esazioni, multe che non sono diverse da quelle che i re e i nobili imponevano agli affamati che cacciavano di frodo nelle riserve regali e nelle foreste aristocratiche. Costoro erano messi alla gogna (letteralmente) o condannati al taglio della mano come «bracconieri».
Oggi, è facile bollare gli anti-tasse e gli anti-privilegi come «evasori fiscali. Non lo ha detto di recente il governatore non-votato di Bankitalia Mario Draghi, dall’alto dei suoi 2 milioni di euro di emolumento?
L’evasione fiscale è la vera «macelleria sociale». Se Mario Draghi parlasse apertamente a nome di un re, con parrucca e spadino, gli si potrebbe rimbeccare che la «macelleria sociale» è quella che sta facendo lui, con i suoi referenti internazionali, e i politici al loro servizio che succhiano emolumenti miliardari dalle ossa di un popolo sempre più povero. Se capissimo di essere sotto un regime oligarchico e parassitario, avremmo il coraggio di chiamare in piazza il popolo al grido: «Non più tasse per i vostri lussi!», «Tagliatevi i vostri privilegi, non le nostre pensioncine!».
Rifiutarsi di pagare le tasse inique, bastonare gli esattori del Re, malmenare i deputati e gli assessori per strada, convocare illegalmente gli Stati Generali contro il cosiddetto parlamento, sarebbe facile e chiaro. Invece, siamo in «democrazia», e la protesta dei tartassati – per uno strano miracolo –
diventa illegittima.
«Antipolitica», evasione, populismo, dittatura, così sarà chiamato ogni tentativo (se mai ci sarà) di imporre la volontà popolare.
Di rivoltarci, non abbiamo il coraggio, perchè non sentiamo di averne il diritto. Il che significa che per riprendere la sua sovranità, il popolo e i cittadini devono prima uscire dal cerchio mentale chiamato «democrazia».
Lunga, lunga strada.
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