Ebraismo e cristianesimo (parte IV)
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Parte Quarta

Rabbi Neusner o delle aporie del giudaismo

Il rabbino Jacob Neusner, l’interlocutore di Benedetto XVI, ha di recente dato alle stampe, in Italia per le edizioni San Paolo, un libro dal provocatorio e significativo titolo Ebrei e cristiani. Il mito di una tradizione comune. La tesi che egli porta avanti è racchiusa in questo passo: «Mentre il cristianesimo è rappresentato come una germinazione dellebraismo, di fatto iniziò come sistema religioso autonomo e assoluto; solo in seguito si formulò la teoria delle sue origini assumendo e facendo proprie alcune componenti delleredità dellantico Israele».

Per Neusner la tradizione che considera ebrei e cristiani parenti dal punto di vista religioso sarebbe infondata. Il motivo di questa convinzione, però, rivela tutta l’incapacità talmudica di comprendere il Cristianesimo (quella che un tempo si chiamava cecità della sinagoga) e ripete, in sostanza, il tentativo, che fu attuato all’inizio, di espellerlo come eresia. Neusner non nega affatto che Cristianesimo ed ebraismo «hanno in comune parte delle Sacre Scritture, lAntico Testamento o Torah scritta» (qui – attenzione! – fa capolino la pretesa dell’ebraismo post-biblico di essere ancora in continuità con la Rivelazione mediante una presunta Torah orale più importante di quella scritta), ma l’Antico Testamento, continua Neusner, «serve al cristianesimo solo in quanto prefigurazione del Nuovo, e la Torah scritta per lebraismo può e deve essere letta nellottica di adempimento e completamento compiuti dalla Torah orale» vale a dire la Mishnah, i due Talmudin, le raccolte di Midrashim. Che, però, hanno lo strano difetto di essere state elaborate non in epoca mosaica, come si pretende, ma soltanto verso la fine dell’età veterotestamentaria per iniziativa sinedritica. Elaborazione portata a conclusione nel II secolo dopo Cristo.

Le argomentazioni di Neusner dimostrano – ripetiamo – l’incapacità del giudaismo post-biblico di vedere nel Cristianesimo l’adempimento della Rivelazione, perché fermo nella, infondata, convinzione di essere esso, il giudaismo post-biblico, in continuità con la Rivelazione divina in quanto depositario di una presunta Torah orale, di origine mosaica, che precede la Legge scritta cui si ricollega l’eresia cristiana. In tal modo il giudaismo post-biblico diventa il polo opposto, ma complementare, del marcionismo ed, insieme, mostrano - a nostro giudizio - la loro spuria radice gnostica.

Parlare di mito, come fa Neusner, a proposito delle radici comuni tra ebraismo veterotestamentario e Cristianesimo, è assolutamente scorretto. È vero che per i cristiani l’Antico Testamento è la prefigurazione del Nuovo. Ma è falso affermare che sia solo questo e, soprattutto, che esso sia chiuso nella sola lettera, benché non esista per il Cristianesimo alcuna altra Legge rivelata segretamente da Dio a Mosé che non sia il Decalogo, il quale è Parola di Dio - ecco dunque l’unica vera oralità! - poi codificata nella trasmissione scritta quando il testo biblico attuale trovò la sua redazione al ritorno dall’esilio babilonese. Nessun cristiano potrebbe affermare che i Dieci Comandamenti non siano Parola di Dio. Anzi, la loro valenza normativo-morale è per i cristiani proprio fondata sul fatto che si tratta della Rivelazione più volte, tra l’altro, richiamata da Cristo nei Vangeli. Cristo, infatti, ha ammonito di essere venuto per “portare a compimento” la Legge, non per abolirla.

Noi non accettiamo – lo abbiamo detto – che il giudaismo post-biblico abbia radici nell’Olivo Santo (anzi, con Paolo, affermiamo che esso è attualmente un ramo reciso), ma anche ammettendo, per mera ipotesi, che possa esservi (e – ripetiamo – non vi è!) una continuità tra ebraismo veterotestamentario e giudaismo post-biblico, Neusner finirebbe per porsi contro la sua stessa tesi. Infatti, dal momento che dal punto di vista giudaico attuale la presunta Legge orale porta a compimento la Torah scritta, è inevitabile giungere alla conclusione che dalle premesse comuni – riconosciute da Neusner e quindi considerate sia in ambito talmudico che in ambito cristiano Parola di Dio – discenderebbero due differenti modi per esse di essere portate a compimento: che è poi esattamente quanto asserisce la teologia delle vie di salvezza parallele. Sicché anche ammettendo, ma non concedendo, questo parallelismo non sarebbe possibile negare, come fa Neusner, al Cristianesimo di essere in continuità con l’ebraismo veterotestamentario.

Ora, però, il punto sta proprio in questo: se in tale continuità si pongono entrambi – il Cristianesimo ed il giudaismo post-biblico – delle due l’una: o è in errore la fede cristiana o lo è quella giudaico-postbiblica. Tertium non datur! Qui sta, infatti, tutta l’ambiguità della neo-teologia delle salvezze parallele la quale, cedendo alle istanze ebraiche attuali, presume, appunto, due vie di salvezza: una per i Gentili in Cristo ed una per i soli ebrei senza Cristo. Crediamo che la migliore risposta alla pretesa ebraica di essere nella salvezza senza Cristo, ed alla neo-teologia delle salvezze parallele, l’abbia data, anche di recente, dopo la Dominus Jesus (da lui elaborata benché approvata dal suo predecessore), Benedetto XVI quando, parlando della preghiera per la conversione degli ebrei nella reintrodotta liturgia latina del Venerdì Santo (preghiera che, riguardo al troppo fraintendibile perfidis - che significa soltanto increduli - era già stata ritoccata, prima della riforma liturgica, da Giovanni XXIII sulla scorta di un atto esplicativo, della predetta terminologia, emanato dal Sant’Uffizio per volontà di Pio XII), ha affermato: «… la formula … di certo non esprimeva in modo positivo la grande, profonda, unità fra Antico e Nuovo Testamento. Per questo ho pensato che nella liturgia antica fosse necessaria una modifica (…). Lho modificata in modo tale che vi fosse contenuta la nostra fede, ovvero che Cristo è salvezza per tutti, che non esistono due vie di salvezza e che dunque Cristo è anche il Salvatore degli ebrei, e non solo dei pagani» (1).

Inutile dire che questa affermazione del Papa ha provocato una sollevata di scudi da parte degli esponenti di quelle correnti teologiche ed esegetiche che da decenni stanno tentando di ridurre il Cristianesimo ad una semplice superfetazione del giudaismo, foriera di equivoci antisemiti. Correnti che, naturalmente, partono dal presupposto, errato, che l’ebraismo radice del Cristianesimo sia la stessa cosa del giudaismo post-biblico attuale e che pertanto ne deducono che la fede cristiana, nel suo sviluppo teologico e storico, sia un tradimento del giudaismo, sicché compito degli studi storico-critici sarebbe quello di ricondurre il Cristianesimo all’interno del giudaismo attuale, denunciando la teologia passata ad iniziare da quella cosiddetta della sostituzione (che invece ha le sue origini anche nel magistero paolino basato sulle stesse parole di Cristo: Gesù parla di un popolo nuovo cui sarà dato il regno e Paolo, su questa base, afferma che i gentili sono stati innestati nell’Olivo Santo al posto di coloro tra gli israeliti che non hanno accolto Cristo). Alcuni esponenti di queste correnti esegetiche hanno denunciato la cattiva teologia di Benedetto XVI che, secondo loro, riproporrebbe, in maniera sorniona, la teologia della sostituzione. A nostro modesto parere, invece, più che riproporla sic et simpliciter, con tutti i rischi di derive marcionite che essa, come formulata un tempo, poteva comportare, Benedetto XVI  sta cercando semplicemente di chiarirla nei suoi autentici contenuti gesuani, petrini e paolini.

Per amore di verità, dobbiamo tuttavia registrare che, al contrario di certi esegeti sedicenti cristiani, il rabbino Neusner ha ammesso, con onestà intellettuale, che la preghiera dei cristiani per la conversione degli ebrei non è affatto scandalosa ma rientra nella logica del monoteismo, la stessa logica che fa sì che anche gli ebrei preghino tre volte al giorno affinché venga il tempo nel quale tutti i non ebrei invochino il Dio Unico (2).

Se non si parte dal presupposto storico che all’epoca di Cristo esistevano diversi ebraismi, e che Cristianesimo e giudaismo post-biblico sono gli eredi di queste diverse correnti, qualsiasi discussione sul tema diviene pleonastica e la centralità della fondamentale domanda circa quale delle due eredità sia la Vera – perché, evidentemente, entrambe non possono esserlo – perderebbe di senso.

Quel che, piuttosto, dimostra l’esegesi di Neusner è che tra giudaismo post-biblico e marcionismo vi è una segreta ed al tempo stesso – quando si guardano a fondo le cose – palese connessione. Entrambi, giudaismo post-biblico e marcionismo, puntano a dimostrare che tra Antico e Nuovo Testamento, tra ebraismo veterotestamentario (la Fede di Abramo) e Cristianesimo, tra Dio di Abramo e Nostro Signore Gesù Cristo, vero Dio e vero Uomo, non vi sarebbe stretta ed essenziale unità. Se per Marcione, in questo gnostico, il Dio dell’Antico Testamento non poteva essere il Padre di Cristo perché trattavasi, per lui, di un “dio minore e malvagio”, causa dell’essere del mondo ossia della sofferenza dell’uomo nel mondo, sicché il vero Padre di Cristo non poteva che essere il Super-Dio impersonale e cosmico, il dio dell’Amore inteso come nullificazione dell’essere nel nulla, ora scopriamo che il rabbino Neusner sostiene, analogamente ma rovesciando dialetticamente la prospettiva di Marcione, che è il Dio del Nuovo Testamento ad essere un dio minore (egli non dice anche malvagio ma molti suoi correligionari lo suppongono, dal momento che per ampi settori del giudaismo post-biblico la radice della persecuzione nazista sarebbe il Cristianesimo in quanto tale) mentre il Dio dell’Antico Testamento, letto però - e perciò, a nostro giudizio, falsificato - attraverso la presunta Torah orale, sarebbe il vero Super-Dio, la cui, taciuta, impersonalità è, rabbinicamente, affermata, in forma più o meno esplicita, quando tale super-divinità viene messianicamente identificata nel popolo ebreo messia collettivo. Da parte cattolica, si deve stare molto attenti a non cadere, per opporsi al giudaismo post-biblico, nell’errore opposto di tipo marcionita. Pericolo, questo, sempre in agguato.

Pensiamo sia utile, al fine di meglio chiarire i rapporti tra ebraismo e Cristianesimo, ricordare quanto in proposito insegna il cardinale Giacomo Biffi, già arcivescovo di Bologna, noto teologo di fama internazionale. Per Biffi bisogna distinguere tra l’eredità ebraica e la novità cristiana. Se, da un lato, la prima, l’eredità ebraica, deve essere accolta dal cristiano – insieme all’adesione senza riserve al Dio di Abramo, perché la fede cristiana altro non è che l’ebraismo giunto al suo compimento dal momento che la storia della salvezza inizia con la vocazione per Grazia di Abramo, sicché essa, la vocazione di Abramo, non è affatto estranea alla fede neotestamentaria essendone invece parte integrante – la seconda, la novità cristiana, deve essere costantemente riaffermata e proclamata in quanto non si può neppure disconoscere o sottovalutare che il fatto cristiano è stato in un certo senso fuori misura nella trama degli accadimenti fino ad allora verificatisi nella storia della salvezza. L’evento cristiano è entrato nella vicenda storica della salvezza con una originalità ed una potenza assolutamente sconvolgente, tale da aver scompaginato anche le aspettative degli stessi ebrei.

Il cardinale ricorda che in Cristo “le antiche Scritturesenza la minima manipolazionehanno ricevuto unaltra chiave di lettura” e che, pertanto, i cristiani hanno il dovere di pregare incessantemente l’Altissimo affinché egli “apra il loro (degli ebrei) spirito allintelligenza (cristiana) delle Scritture”. Molto importante, però, nell’attuale clima eccessivamente aperturista nei confronti del giudaismo post-biblico, è la conclusione affermata da Biffi: «Bisogna serenamente riconoscere che se la prima verità leredità ebraica del Cristianesimo non è stata sufficientemente compresa e apprezzata dal Cattolicesimo dei tempi andati, trascurare o sminuire la seconda e temere di asserire lassoluta e irriducibile novità del Cristianesimo (perché politicamente scorretta”) è il pericolo che oggi corre qualche parte dellesegesi, della teologia, della cultura ecclesiale contemporanea».

Scrive il noto teologo ed esegeta Nicola Bux, autore tra l’altro di un pregevole testo sulla reintroduzione della liturgia latina: «Nel suo saggio Ebrei e cristiani. Il mito di una tradizione comune” (San Paolo, 2009), il noto studioso ebreo Jacob Neusner demolisce appunto lidea, diffusasi soprattutto tra i cattolici dopo il Concilio Vaticano II, che le due religioni abbiano molto in comune. Lautore lo aveva già fatto con un altro testo, “Disputa immaginaria tra un rabbino e Gesù”, nel quale affermava che Secondo la Torah, molto di ciò che Gesù ha detto è sbagliato”. Joseph Ratzinger nella prefazione lo definiva come Il saggio più importante per il dialogo ebraico-cristiano dellultimo decennio”. Neusner ha ragione? Prendiamo le Scritture: è vero che noi cristiani abbiamo le Scritture ebraiche che chiamiamo Vecchio Testamento, ma gli ebrei non hanno il nostro Nuovo Testamento; inoltre, la comprensione delle Scritture per noi passa attraverso Gesù. Cè poi un altro aspetto non secondario: la religione giudaica al tempo di Gesù passava attraverso linterpretazione dei Farisei, invece Gesù si richiamava ai Patriarchi e ai Profeti. Lattuale religione giudaica è quella rinata dopo la distruzione di Gerusalemme del 70 dopo Cristo, filtrata attraverso il Talmud monumentale studio della Torah, la legge divina, compilato tra IV e V secolo, dove il ruolo dei Profeti è minimo perché proprio i Profeti avevano preso le distanze dalle interpretazioni insopportabili intervenute al tempo della divisione dei regni e degli esili. Nella recente visita alla sinagoga di Roma, Papa Benedetto XVI ha rinnovato il rispetto per linterpretazione che gli ebrei hanno dellAntico Testamento: sappiamo che questa è diversa da quella cristiana, soprattutto perché la Torah, come dice Neusner, è filtrata attraverso il Talmud che è il giudaismo. Ma basterebbe solo un punto a marcare la differenza: la fine del Tempio, cioè il luogo della Shekinah, la Presenza divina. Resta il fatto che La Chiesa, popolo di Dio, della nuova Alleanza, scrutando il proprio mistero, scopre il proprio legame con il popolo ebraico, che Dio scelse primi fra tutti gli uomini ad accogliere la sua parola’ ” (Catechismo della Chiesa Cattolica, 839). I Padri della Chiesa erano convinti che lantica Alleanza si fosse compiuta in Cristo e se ne sentivano i veri eredi; non solo era avvenuto il passaggio dal giudaismo al cristianesimo, anzi al giudeo-cristianesimo, ma, quasi contemporaneamente, anche quello alla Chiesa dei gentili, ovvero le genti pagane che si convertivano a Cristo. LEcclesia ex circumcisione e lEcclesia ex gentibus si possono ancora oggi ammirare a Roma come due figure femminili nel mirabile mosaico di Santa Sabina allAventino. Allora, perché tanta insistenza da parte cattolica sulla comunanza, quando poi gli stessi ebrei continuamente prendono le distanze, ora sulla persona e lopera del Venerabile Papa Pio XII, ora sulla Preghiera per gli ebrei approvata da Benedetto XVI per luso nella celebrazione della forma straordinaria del rito della Santa Messa, ora sulla revoca della scomunica alla Fraternità San Pio X e così via? E malgrado le spiegazioni, non sembrano mai appagati? A mio avviso, il motivo di fondo è lanticristianesimo. Negli Atti degli Apostoli i nazareni così erano chiamati i cristiani dagli ebrei non pensavano di costituire una religione a parte, malgrado le vessazioni subite (da parte ebraica) dagli stessi Apostoli e dalle comunità; quando furono cacciati dalle sinagoghe, infatti, misero insieme nel primo giorno dopo il sabato chiamato kyriakè, cioè domenica la lettura della Torah, che si faceva di sabato, e la celebrazione dellEucaristia. Attorno a tale polo, si può osservare in Palestina la differenziazione progressiva della suppellettile liturgica cristiana da quella giudaica, per esempio nei simboli: il sacrificio di Isacco nelle sinagoghe è reso con tutti i dettagli figurativi, invece nelle chiese è ridotto allagnello legato allalbero posto sotto o dietro laltare; laltare dei sacrifici nel cortile del Tempio e la tavola delle offerte allinterno, nelle chiese vengono sintetizzati nellaltare a cui si addossa una mensa. In Occidente, molto evidente prima del Vaticano II. Si può intravedere in ciò una sorta di antigiudaismo cristiano? Certamente no, ma solo la consapevolezza del compimento delle figure antiche nelle nuove. Dagli ebrei ciò è ritenuta ancora oggi una eresia. Che il cristianesimo fosse vino nuovo in otri nuovi”, lo provano alcuni altri fatti. Gesù aveva detto: “Quando poi vedrete Gerusalemme circondata da eserciti, sappiate allora che la sua desolazione è vicina. Allora coloro che sono in Giudea fuggano ai monti, quelli che sono nella città si allontanino...” (Luca 21,20-21). Così fecero i seguaci di Gesù nel 70, in gran parte giudei divenuti cristiani, dissociandosi dalla sanguinosa rivolta antiromana. I cristiani non parteciparono nemmeno alla rivolta del 132-135 capitanata da Bar Kochba, anzi pagarono caramente» (3).

L’attuale confusione in campo cattolico è data non dall’affermazione, che è evangelica, apostolica e patristica, della continuità, nel senso del perfetto adempimento, tra Vecchio e Nuovo Testamento, tra Antica e Nuova Alleanza, quanto piuttosto dal credere, o far credere, che l’odierno giudaismo post-biblico sia identico alla fede veterotestamentaria di Abramo, quando invece né è la discontinua rottura.

Sebbene pro domo sua, ossia rovesciando i termini della questione, Neusner, onestamente, riconosce che tra l’attuale giudaismo post-biblico e la fede cristiana non vi è continuità. Solo che bisogna, poi, correggere Neusner ricordando che il Cristianesimo è in continuità, essendo l’adempimento promesso, con l’autentico ebraismo veterotestamentario, dal quale invece il giudaismo post-biblico si è irrimediabilmente allontanato (salvo la possibilità per gli ebrei, come è stato ad esempio per Israel Eugenio Zolli, di ritrovare il vero ebraismo in Cristo).

Quando San Paolo afferma, giustamente, che la Legge di Mosé è superata dalla Legge della Grazia, che solo Cristo ci dà, non oppone affatto la prima alla seconda perché non poteva certo parlare contro le parole di Cristo in Persona, che ha affermato che della Legge non cadrà neppure uno iota e che Egli è venuto non ad abrogarla ma a perfezionarla. Quindi San Paolo non oppone, luteranamente, Grazia e Legge ma afferma che la Legge non può essere adempiuta se non attraverso la Grazia donataci da Cristo, sicché tutti i riti della Legge antica, che erano solo prefigurazioni dell'adempimento futuro - come ad esempio lo sgozzamento rituale nel Tempio dell’agnello pasquale prefigurazione del Vero Sacrifico in Croce del Vero Agnus Dei, ossia Cristo -, sono stati aboliti perché nell’economia della Nuova Alleanza sono ormai inutili.

Sono stati aboliti i rituali antichi, però, non l’essenza della Legge che, sempre stando alle parole di Nostro Signore, è l’Amore di Dio ed al prossimo. Quell’essenza non è caduta e non cadrà, ma per adempierla è necessaria la Grazia che Cristo, e solo Lui, ci dona (4).

Commentando una lezione del teologo Ratzinger

Molto interessante per quanto andiamo dicendo è una riflessione teologica di Joseph Ratzinger, che riteniamo utile proporre all’attenzione dei lettori commentandola, per integrarne la prospettiva complessiva, mediante la memoria di alcuni aspetti della questione che, in tale riflessione, sembrano non nettamente messi in evidenza. Nel commentarla, naturalmente, lo facciamo con la dovuta umiltà ed il dovuto rispetto non solo per il ruolo ecclesiale che il suo autore oggi riveste ma anche per l’altezza teologica della riflessione stessa, che comunque, effettuata da cardinale e da teologo privato, non costituisce certo documento del Magistero e quindi, come ogni riflessione teologica privata, fosse anche quella di un Papa, suscettibile di esame ed, appunto, commentabile da parte dei fedeli (5).

Scrive, dunque, Ratzinger:

«Mediante Gesù il Dio di Israele è divenuto il Dio di tutti i popoli. Al lettore medio verrà in mente il luogo comune secondo cui la Bibbia degli ebrei, l’“Antico Testamento”, accomuna ebrei e cristiani, mentre la fede in Gesù Cristo come Figlio di Dio e redentore li separa. Tuttavia si può facilmente vedere quanto sia superficiale una simile distinzione tra ciò che unisce e ciò che separa. Infatti va detto anzitutto che mediante Cristo la Bibbia di Israele è giunta ai non ebrei ed è divenuta anche la loro Bibbia. Quando la lettera agli Efesini dice che Cristo ha abbattuto il muro che divideva i giudei dalle altre religioni del mondo e ha ristabilito lunità, non si tratta di vuota retorica teologica, ma di una constatazione del tutto empirica, anche se nel dato empirico non può essere compresa lintera portata delaffermazione teologica. Infatti mediante lincontro con Gesù di Nazareth il Dio di Israele è divenuto il Dio di tutti i popoli della terra. Attraverso di lui si è di fatto adempiuta la promessa secondo cui i popoli avrebbero adorato il Dio di Israele come lunico Dio, secondo cui il monte del Signoresarebbe stato innalzato al di sopra di tutti gli altri monti (…). Se Israele non può vedere in Gesù il Figlio di Dio, come i cristiani, non gli è però assolutamente impossibile riconoscere in lui il servo di Dio, che porta ai popoli la luce del suo Dio. E, viceversa, anche se i cristiani desiderano che Israele possa un giorno riconoscere Cristo come il Figlio di Dio, superando così la frattura che ancora li divide, essi dovrebbero comunque riconoscere il piano di Dio, che ha affidato chiaramente a Israele una sua missione nel tempo dei pagani”. I Padri la sintetizzano nel modo seguente: Israele deve restare di fronte a noi come il primo possessore della Sacra Scrittura, per rendere proprio così testimonianza davanti al mondo».

Benedetto XVI con rabbi Neusner
   Benedetto XVI con rabbi Neusner
Qui è necessario un primo commento. Quanto afferma il teologo Ratzinger è, senza dubbio, vero ma anche – è necessario dirlo – parziale. I Padri della Chiesa infatti non affermavano soltanto un ruolo di testimonianza del Vecchio Testamento da parte degli ebrei ma paventavano anche un ruolo escatologicamente ambiguo per l’Israele post-biblico, nel senso che esso, non avendo ancora riconosciuto Cristo, è costantemente esposto al pericolo di scambiare l’Impostore per il Messia. Ritroviamo l’eco di questa convinzione patristica anche in autori moderni come il Soloviev, che si richiama a tale tradizione, ed a quella sulla finale conversione di Israele, nel suo Racconto dellAnticristo. Che questo pericolo sia storicamente reale lo dimostra proprio l’insoddisfatta inquietudine messianica ebraica che ha spesso condotto Israele ad osannare falsi messia sul tipo di Bar Kokheba, Sabbattai Zevi, Jacob Frank, fino a venerare come messia collettivo se stesso e che ha portato molti ebrei, più o meno secolarizzati, ad aderire alle moderne ideologie millenaristiche ad iniziare dal comunismo e senza, però, escludere l’utopia tecnocratica ed il liberismo globalizzatore.

Questa prospettiva di un regno mondano come compimento delle Promesse ha spinto i moderni sionisti a collaborare con il regime fascista e con quello nazista (6). San Girolamo, ad esempio (Epistole, CLI, Ad Algasium; Comm. In Dan., II, 24), interpretava in tal senso il passo di Giovanni 5, 43 (“Io sono venuto a nome del Padre mio e non mi ricevete, se un altro venisse nel nome proprio, lo riceverete”). Altrove, osservammo: «… il trionfo, a viste umane apparentemente inarrestabile, … dellauto-idolatria messianica di Israele (costituisce)… Un nuovo culto che, a ben vedere, nel fare di una porzione di umanità un soggetto dagli attributi messianici e quasi-divini porta alle sue estreme conseguenze la religione dell’umanità”, nella quale luomo adora se stesso al posto di Dio» (7). Questo pericolo di cadere nell’auto-idolatria – un pericolo al quale si espongono anche i cristiani quando pretendono di fare essi, da soli, anziché lasciare innanzitutto operare Lui – è dettato dall’orgoglio cui può portare una malintesa concezione dell’elezione, che da chiamata di Dio a servirLo per farlo conoscere ai popoli viene assunta come privilegio e fonte di un diritto alla supremazia spirituale e/o politica. Questa è, infatti, l’irrisolta, e senza Cristo irrisolvibile, aporia del giudaismo post-biblico e dei suoi frutti politici, nazional-religiosi, come il sionismo.

Continua, poi, Ratzinger:

«Ma che cosa dice questa testimonianza (di Israele)? Arriviamo con ciò alla seconda riflessione che desidero svolgere. Penso si possa dire che per la fede di Israele sono essenziali due cose (…). Anzitutto cè la Torah, il vincolo alla volontà di Dio, e quindi linstaurazione della sua signoria, del suo regno in questo mondo. E cè, daltro canto, lo sguardo della speranza, lattesa del Messia – lattesa, anzi, la certezza che Dio stesso entrerà in questa storia e realizzerà la giustizia, alla quale noi possiamo solo avvicinarci in forme molto imperfette».

Dobbiamo ancora interrompere il teologo Ratzinger per domandarci quale Messia sta, però, oggi aspettando l’Israele post-biblico ed in quale modo questo avvento, secondo le sue prospettive, deve realizzarsi?

Il messia che Israele sta aspettando è forse – secondo quel che la stessa pubblicistica rabbinica va affermando – un messia collettivo, ossia lo stesso popolo ebreo? Sicché, traslando la questione in termini storico-politici, dovremmo giungere alla conclusione che la Bibbia afferma il diritto irrevocabile per Israele al possesso esclusivo della Terra Santa e che, quindi, lo Stato di Israele, nato nel 1948, sia l’agente messianico che sta realizzando, in vista dell’imminente Nuova Era di Pace Globale, le Promesse divine? Ossia il primato spirituale dell’Israele/messia sui popoli gentili da esso (e non dunque da Cristo) ricondotti nell’Alleanza con il Dio rivelatosi ad Abramo?

Una lettura priva di prospettiva cristologica della Rivelazione – e questo il teologo Ratzinger lo sa benissimo per averlo scritto altrove – porta a queste inevitabili conclusioni e costringono la fede abramitica nelle strettoie di una aporia insuperabile e foriera non di pace ma di feroce scontro interreligioso ed interetnico (nel quale rimangono vittime gli stessi ebrei che pur spesso vi giocano anche il ruolo di carnefici, non propriamente consono a chi invoca quotidianamente il Nome Santo del Dio di Abramo) come i fatti di Terra Santa, dal 1948, si stanno incaricando di dimostrare tragicamente. Ratzinger, forse troppo preoccupato dall’esigenza di superare le incrostazioni di un certo anti-giudaismo preconciliare, non porta, per eccesso di prudenza, il discorso anche su questi non trascurabili aspetti, che sono un po’ il rovescio della medaglia.

Ancora Ratzinger:

«Si legano così le tre dimensioni del tempo: lobbedienza alla volontà di Dio si rifà a una parola enunciata, che ora sta nella storia e che vuole essere resa ogni volta presente nellobbedienza. Questa - un frammento della giustizia di Dio reso presente nel tempo - è un andare incontro al futuro, in cui Dio raccoglierà i frammenti del tempo e li ingloberà tutti nella sua giustizia. Questa immagine fondamentale non è abbandonata nel Cristianesimo. La triade di fede, speranza e amore corrisponde sotto certi aspetti alle tre dimensioni del tempo: lobbedienza della fede accoglie la parola che viene dalleternità ed è mandata nella storia, la trasforma in amore, in presente, e apre così la porta della speranza. Ciò che è peculiare della fede cristiana è che tutte e tre le dimensioni sono unite e sostenute nella figura di Cristo, mediante la quale esse verranno mantenute insieme anche nelleternità. In Lui coesistono tempo ed eternità ed è colmato labisso infinito tra Dio e luomo. Cristo infatti è Colui che è venuto, ma che non ha mai cessato di essere presso il Padre; Egli è presente nella comunità dei credenti, e tuttavia, al tempo stesso, è ancora Colui che viene».

Qui la riflessione di Ratzinger tocca l’essenza della questione, senza più eccessi di prudenza ecumenica. In Cristo – egli ci dice –, e solo in Cristo, il messianismo ebraico si svela in tutta la sua verità profetica già annunciata dal Vecchio Testamento. Perché in esso non vi era affatto annunciata l’egemonia, fosse anche solo un’egemonia spirituale, dell’Israele carnale, etnico-religioso, sulle altre genti. Se questo fosse stato l’annuncio veterotestamentario, la salvezza universale sarebbe impossibile per il semplice fatto che nessun gentile, per ovvi motivi etnici, mai potrebbe partecipare in pieno all’Amore Salvifico di Dio, e la dipendenza dei gentili dall’Israele carnale implicherebbe una loro chiara posizione subordinata agli occhi di Dio: questa è l’aporia escatologica del giudaismo post-biblico. Al contrario, in Cristo l’annuncio veterotestamentario si è rivelato, con sorpresa degli stessi ebrei, come di chi è preso in contropiede, nella sua autentica realtà di ricomposizione nell’universalità della Chiesa, Nuovo Israele, dell’unità adamitica e pre-babelica originaria. In tale ricomposizione universale alla fine dei tempi saranno riammessi anche gli israeliti, attualmente rami recisi. L’Israele carnale fu scelto, in vista dell’Incarnazione del Logos Divino, per affermare e custodire, in mezzo a lotte, infedeltà e sofferenze, il culto monoteista originario, perduto dall’umanità adamitica e nuovamente rivelato ad Abramo, in un mondo diventato del tutto pagano, ossia intriso di religiosità spuria di tipo idolatrico, magico e panteista.

Diamo ancora la parola a Ratzinger:

«Anche la Chiesa attende il Messia, che già conosce e a cui per prima Egli manifesterà la sua gloria. Obbedienza e promessa sono una cosa sola anche per la fede cristiana. Cristo è per i cristiani il Sinai presente, la Torah vivente, che ci impegna con la sua chiamata vincolante e, daltra parte, ci coinvolge nel vasto spazio dellamore e delle sue possibilità inesauribili. Egli è quindi la garanzia della speranza nel Dio che non lascia cadere la storia nellinsussistenza delleffimero, ma la sostiene e la conduce alla meta. Anche qui è dunque vero che la figura di Cristo congiunge e divide allo stesso tempo Israele e la Chiesa: non è in nostro potere superare questa divisione, ma essa ci tiene insieme sulla via di Colui che viene e non può essere quindi sentita come motivo di inimicizia».

Certamente è vero che Cristo congiunge ed ad un tempo divide Israele e la Chiesa e che tale divisione permarrà fino alla fine dei tempi. Aggiungiamo anche che dall’una e dall’altra parte bisogna trattarsi, ma lealmente e non unilateralmente, con carità. Tuttavia Ratzinger, ancora presumiamo per eccesso di prudenza ecumenica, sorvola sul fatto che il Messia atteso dai cristiani e quello atteso dagli ebrei non pare essere lo stesso, perlomeno per i settori del giudaismo post-biblico attualmente in posizione di forza all’interno dello stesso mondo ebraico e da tale posizione praticano una politica intollerante contro altri gruppi ebraici. Siamo, infatti, sicuri che questi settori, che potremmo in senso lato chiamare fondamentalisti e che si raccolgono politicamente attorno alla destra religiosa israeliana, siano dello stesso parere di Ratzinger e di molti cristiani? Da parte cristiana è in atto, da secoli e con maggior vigore da qualche decennio, uno sforzo immenso di carità e comprensione verso i fratelli maggiori. Ma molti tra costoro, sicuri di essere giunti nel tempo dell’avverarsi delle profezie messianiche veterotestamentarie, come acristicamente le leggono loro, ossia annuncianti il ritorno in massa degli ebrei nell’Eretz Israel, per ricostruirvi il tempio ed inaugurarvi il culto dell’Umanità, hanno assunto ormai apertamente e superbamente atteggiamenti di orgoglioso disprezzo nei confronti di noi cristiani.

La convinzione profonda che è nutrita presso molti settori del giudaismo post-biblico è quella per la quale i fatti, dal 1948, stiano dimostrando il fallimento del Nazareno. Questa convinzione li porta a quel malcelato disprezzo, verso i cristiani, cui accennavamo. Quasi a voler affermare una sorta di rivincita storica ed a voler ripagare gli errori che in passato parte dei cristiani, non tutti, hanno commesso nei loro confronti in termini di disprezzo e di mancanza di carità. In questo sembrano riecheggiare le parole di San Paolo: “Dio ha racchiuso tutti nella disobbedienza, per usare a tutti misericordia!” (Romani 11,32). Cosa che ci convince che non passerà molto tempo affinché Dio smantelli le malriposte speranze messianiche di questi ebrei post-biblici fondamentalisti, abbassandone l’arroganza attuale, come, del resto, ha fatto, permettendo “al fumo di Satana di entrare nel tempio” (Paolo VI), con la mancanza di carità di molti cristiani del passato - ripetiamo: non tutti però - che mai avrebbero immaginato, sicuri come si sentivano nel loro orgoglio autofondato, un’epoca come questa per la Chiesa.

Un’ultima considerazione a margine della riflessione di Ratzinger. Quando egli scrive che l’obbedienza alla volontà di Dio nell’ebraismo “è un andare incontro al futuro, in cui Dio raccoglierà i frammenti del tempo e li ingloberà tutti nella sua giustizia” e che, giustamente, “Questa immagine fondamentale non è abbandonata nel Cristianesimo” omette di ricordare che la differenza tra la concezione escatologica del giudaismo post-biblico e quella del Cristianesimo sta tutta nella intramondanità e intrastoricità del regno (politico-religioso) di Israele apportatore della pace universale, come lo aspettano gli ebrei, e la oltrestoricità ed oltremondanità della Gerusalemme futura come attesa dal Cristianesimo. La quale nuova Gerusalemme, se è vero che scenderà “dal Cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo” (Apocalisse 21,2), a significare che l’immanenza sarà trasfigurata - non però annientata - dalla Trascendenza finalmente svelatasi senza più barriere, non coinciderà però con questo mondo così come è attualmente (con l’unica differenza che sarà soltanto pacificato, come presume il giudaismo post-biblico) ma sarà una nuova realtà, certo concreta come concreta sarà la resurrezione dei corpi, e tuttavia trasfigurata, spiritualizzata, al modo del Corpo risorto del Signore che gli apostoli potevano toccare, che mangiava e beveva e che passava attraverso i muri.

Infatti, nella sua visione escatologica, l’Apostolo afferma: “Vidi poi un nuovo cielo e una nuova terra, perché il cielo e la terra di prima erano scomparsi e il mare non cera più” (Apocalisse 21, 1). La Gerusalemme futura vivrà sotto un nuovo cielo e sopra una nuova terra, non lo stesso cielo e la stessa terra attuali. Il che significa in una dimensione oltrestorica, post-storica, oltremondana, post-mondana.

Non pretendiamo certo noi di insegnare al teologo Ratzinger. Lungi da noi tale arroganza. Ricordiamo tutto questo solo a beneficio dei lettori ed a tale scopo indichiamo, come conferma, i numeri dal 675 al 677 del Catechismo della Chiesa cattolica, alla cui elaborazione ha contribuito lo stesso Ratzinger.

Eccoli: «Prima della venuta di Cristo, la Chiesa deve passare attraverso una prova finale che scuoterà la fede di molti credenti. La persecuzione che accompagna il suo pellegrinaggio sulla terra svelerà il mistero di iniquità sotto la forma di una impostura religiosa che offre agli uomini una soluzione apparente ai loro problemi, al prezzo dellapostasia dalla Verità. La massima impostura religiosa è quella dell’Anti-Cristo, cioè di uno pseudo-messianismo in cui luomo glorifica se stesso al posto di Dio e del suo Messia venuto nella carne. Questa impostura anti-cristica si delinea nel mondo ogniqualvolta si pretende di realizzare nella storia la speranza messianica che non può essere portata a compimento se non al di là di essa, attraverso il giudizio escatologico; anche sotto la sua forma mitigata, la Chiesa ha rigettato questa falsificazione del regno futuro sotto il nome di millenarismo, soprattutto sotto la forma politica di un messianismo secolarizzato intrinsecamente perverso”. La Chiesa non entrerà nella gloria del Regno che attraverso questultima pasqua, nella quale seguirà il suo Signore nella sua morte e risurrezione. Il Regno non si compirà dunque attraverso un trionfo storico della Chiesa secondo un progresso ascendente, ma attraverso una vittoria di Dio sullo scatenarsi ultimo del male che farà discendere dal cielo la sua Sposa. Il trionfo di Dio sulla rivolta del male prenderà la forma dellultimo giudizio dopo l’ultimo sommovimento cosmico di questo mondo che passa».

Una domanda spontanea

Allora, se le cose stanno così, sorge spontanea la domanda: ma quello, intramondano ed intrastorico, propugnato dal giudaismo post-biblico non è uno “pseudo-messianismo nel quale luomo glorifica se stesso al posto di Dio e del suo Messia venuto nella carne”? Non è esso una “impostura anti-cristica che pretende di realizzare nella storia la speranza messianica che, invece, non può essere portata a compimento se non al di là della storia stessa”?

Qui sta il nocciolo del confronto millenario tra il giudaismo post-biblico, oggi apparentemente trionfante su scala globale, ed il Cristianesimo, apparentemente indietreggiante dopo aver avanzato per secoli. Sarà pure un caso, ma è innegabile che sussista un evidente parallelo tra questo apparente trionfo del giudaismo post-biblico, gradualmente in atto da almeno cinque secoli, e la serie di apparizioni mariane, anch’esse in atto da almeno cinque secoli e con una accelerazione impressionante negli ultimi due secoli e negli ultimissimi decenni. Nella apparizione della Madonna è impossibile non scorgere la comparsa nella storia della “Donna vestita di sole” vaticinata dall’Apocalisse. “Erunt signa in sole, luna et sidera”, afferma il Vangelo (Luca 21, 25) ed anche questi – i segni nel sole, nella luna e nelle stelle – accompagnano, ad iniziare da Fatima, le apparizioni mariane, anche quelle attualmente in corso. Naturalmente non stiamo questionando di catastrofi imminenti né di calendari escatologici. Le nostre osservazioni guardano all’essenza della profezia apocalittica sempre ricordando, innanzitutto a noi stessi, che l’apocalisse vera altro non è che l’affievolirsi della fede nella Chiesa e tra i cristiani: “Ma il Figlio delluomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?” (Luca 18, 8). Per gli stessi motivi qualcosa ci spinge a ritenere che in futuro - quando non sta certo a noi dirlo - il mondo assisterà ad un risveglio della fede cristiana ed al dissipamento delle attuali correnti avverse, di qualsiasi genere esse siano.

Israel Eugenio Zolli, il rabbino capo di Roma convertitosi alla fede cristiana, che paventava proprio quel pseudo-messianismo anti-cristico nel giudaismo post-biblico, per averlo egli visto all’opera nella Palestina sin dagli anni ‘30 del XX secolo rimanendo inorridito per il fatto che i sionisti riducevano il Regno al regno, ossia alla home nazionale, e, quando era loro consentito dall’autorità inglese, vessavano sia gli ebrei di antico insediamento sia i palestinesi – cosa che contribuì non poco, come lui stesso ha ammesso, a fargli riscoprire in Cristo l’autentico ebraismo – così scrive a proposito dei malriposti sogni messianici del giudaismo attuale:

«Il concetto di popolo eletto è uno dei perni più importanti del giudaismo. Lelezione è avvenuta, si legge ripetutamente nella Bibbia, come per scelta di Dio e di Dio soltanto, ed essa trova la sua prima realizzazione nella storia dei patriarchi; tuttavia, nel patto stretto tra Dio e il popolo, mediatore Mosè, egli sottopose alla libera volontà dIsraele di accettare o meno la sua scelta. Lelaborazione posteriore di questa dottrina tende a diminuire le promesse (universali, nda) fatte ad Abramo esaltando invece il particolarismo nazionale, e nello stesso tempo tende ad attribuire ai meriti dello stesso popolo dIsraele la scelta di Dio, cosicché la nozione biblica e quella della teologia giudaica, riguardo allalleanza, presentano significative divergenze e si arriva a dire che un solo israelita vale davanti a Dio tutti i popoli della terra (Siphrê sul Deuteronomio 14,2) e che Israele è lunico popolo di Dio (Mĕkhîlthāsu Esodo 15, 13-16) (…). Il messianismo ebraico ha il suo centro di interesse nella restaurazione nazionale. Da alcuni passi del Vangelo, dalle storie di Flavio Giuseppe, e dalle poche sentenze rabbiniche dellepoca di Gesù, si cònstata che in quel periodo lattesa del Messia in particolare presso il popolo era ancora viva. La restaurazione nazionale si concepiva come realizzantesi in questo mondo (…). Il concetto del Messia come essere appartenente alla sfera della divinità concetto ben chiaro nel Vecchio Testamento si ritrova solo presso gli apocrifi, mentre i rabbini si sforzano di privare il Messia di ogni aureola divina (Sanhedhrîn, 38b). La Bibbia ebraica rappresentava inoltre il Messia come colui che doveva sopportare grandi sofferenze. Il giudaismo dapprima ha accettato questa rappresentazione del Messia, poi lha respinta, per reazione al cristianesimo nascente, e allora i passi che parlano dei dolori del Messia o vengono interpretati in modo diverso, o vengono applicati a un altro Messia, detto Messia di Ephraim o di Giuseppe, che non è figlio di David, e la cui figura nasce verso la fine del secolo II. Questo Messia vincerà Roma e tutte le nazioni nemiche; per ottenere la vittoria accetta la morte, morte che peraltro non ha nessun valore espiatorio. Punto centrale della restaurazione messianica è il ritorno dallesilio; tale avvenimento sarà accompagnato da prodigi e miracoli (Mĕkhîlthāsu Esodo 14, 24), e da alcuni è attribuito a Dio stesso più che al Messia. Dio ha parte importantissima nellistituzione del regno messianico. Egli dirige ogni cosa, servendosi di personaggi che sono soltanto suoi strumenti» (8).

Zolli era un grande studioso, un eccelso biblista, ma anche uomo di profonda fede, prima ebraica e poi cristiana. Egli non separava, intellettualisticamente, lo studio esegetico dalla realtà della vita spirituale e pascalianamente tentava sempre di unire “le ragioni dellintelligenza con quelle del cuore”. L’ebbrezza messianica che percorre tutto l’ebraismo post-biblico egli l’aveva sperimentata di persona e solo in Cristo trovò pace, acquietò questa febbre:

«Tutto lAntico Testamento ha scritto dopo lapprodo a Cristo mi parve un divino telegramma cifrato inviato agli uomini. Incomprensibile per chi volesse leggerlo senza il cifrario. Ora, il cifrario è Cristo, alla cui luce prende significato quel brivido messianico che pervade tutti i libri dellAntico Patto» (9).

Luigi Copertino


Fine quarta parte (di sei)

Ebraismo e cristianesimo (parte I)
Ebraismo e cristianesimo (parte II)
Ebraismo e cristianesimo (parte III)





1) Confronta Benedetto XVI, Luce del mondo - il Papa, la Chiesa e i segni dei tempi - una conversazione con Peter Seewald, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 2010, pagina 155.
2) Confronta Benedetto XVI, opera citata, pagina 154.
3) Confronta N. Bux, Lanticristianesimo alle origini dellantigiudaismo, in Il Timone, aprile 2010.
4) Confronta L. Copertino, Quale rapporto tra Vecchio e Nuovo Testamento?, in EFFEDIEFFE 19 febbraio 2010.
5) Confronta Conferenza del cardinal Joseph Ratzinger alla Académie des Sciences Morales et Politiques, Parigi, 1997, fonte Internationale Katholische Zeitschrift Communio 26, 1997, pagine 419-429. Disponibile attualmente su vari siti web.
6) Confronta Andrea Giacobazzi, LAsse Roma-Berlino.Tel Aviv, Il Cerchio, Rimini, 2010.
7) Confronta L. Copertino, Lolocausto tra storia e teologia, in AA.VV, La storia imbavagliata - atti del convegno del Master Enrico Mattei in Medio Oriente, Università di Teramo, 17-19 aprile 2007, pagina 276.
8) Confronta E. Zolli, Il giudaismo tra VI secolo avanti Cristo e I secolo dopo Cristo, voce Giudaismo, in Enciclopedia Cattolica, Città del Vaticano, 1948-1954, volume VI, coll. 695-699, reperibile oggi su www.letterepaoline.net.
9) Confronta citato in Vittorio Messori, Ipotesi su Gesù, SEI, Torino, 1976-1993, pagina 79




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