La funzione pubblica
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Il nostro Luigi Copertino invia, a seguito dell’articolo di Blondet Quanta demokrazia possiamo pagarci, un suo contributo sulle tematiche sviluppate dal Direttore.

La redazione


La funzione pubblica


Ho lavorato per dieci anni come vicesegretario in un Comune di 10.000 abitanti per poi trasferirmi in provincia (cosa che probabilmente oggi non rifarei, ma non perché vogliono abolirle) e nel frattempo ho anche fatto esperienza, in posizione di comando, presso un ente regionale, ma vorrei far notare al Direttore che una cosa è denunciare la graduale distruzione della pubblica autorità, cui ho potuto in questi anni assistere mano a mano che essa veniva riformata (Legge Bassanini: dirigenti fiduciari, spesso senza pubblico concorso, ossia yes men dei politici che li nominano!), altra cosa è cadere nell’errore (marxista e liberista) per il quale quella autorità non dovrebbe esistere perché egemonica e quindi, come ai tempi della Rivoluzione Francese, abbatterla.

Non sto facendo una difesa corporativa. Sono il primo a poter raccontare cose indicibili che, con mia grande indignazione, ho visto fare e dalle quali mi sono sempre tenuto lontano perché non voglio esserne coinvolto.
Nè sto difendendo la mia persona che, come tutti, ha i suoi meriti ma anche i suoi difetti, anche sul lavoro. Per quanto cerchi di svolgerlo al meglio, non sempre è facile in un apparato che ormai funziona secondo logiche che non sono più quelle pubblicistiche ma quelle privatistiche, aziendalistiche, che avrebbero dovuto rendere più efficiente la Pubblica Amministrazione e che invece l’hanno inceppata perché essa, nonostante tutto, rimane Pubblica Amministrazione e non si è mai trasformata veramente in una azienda (semplicemente perché non può: se il mio ufficio ha bisogno di una fornitura deve imbastire una gara d’appalto – oltretutto con regole sempre più capziose – mentre un privato alza il telefono e chiama il fornitore di fiducia: mi si spieghi allora, per favore, dove sarebbe l’equiparazione, e la concorrenzialità, tra pubblico e privato se il primo, nella corsa, è – giustamente: si tratta di non favorire sempre una o poche imprese – caricato di fardelli procedurali ignoti al secondo?).

Ha perfettamente ragione il Direttore quando fa osservare che una volta, nella Pubblica Amministrazione, prevalevano le competenze tecniche ed amministrative e non la politica (quale politica poi? Non certo quella secondo l’accezione di Carl Schmitt?). Ma sono state proprio le riforme a determinare questo sfascio, in nome della parificazione democratica della Pubblica Autorità ai cittadini governati.

Sicché oggi, ad esempio, i rapporti tra Pubblica Amministrazione e privati tendono ad essere contrattuali, e non più autoritativi (è lo stesso fenomeno per il quale oggi i figli si rivolgono al padre chiamandolo per nome come fosse un amico!), ma nel frattempo, come detto, la Pubblica Amministrazione rimane vincolata alla sua autentica natura di istituzione che dovrebbe, per garantire la par condicio, essere super partes e non agire come un privato. Una disincrasia che si spiega soltanto con il fatto che anche in questo campo prevale ormai la logica del mercato che tutto mercifica (ha prevalso ormai anche in ambiti che si pensavano immuni: vedi matrimonio e famiglia, ridotti da sacramenti a contratti rescindibili come e quando si vuole).

La Pubblica Amministrazione è vittima del degrado epocale di questi nostri tempi né più né meno di altre realtà sociali.

Ricorda Blondet, giustamente, che molte funzioni oggi attribuite alle province potrebbero essere svolte dalle regioni. Ma il punto è proprio questo: negli ultimi 15 anni, in nome del federalismo e del principio di sussidiarietà, vi è stato un progressivo trasferimento di funzioni dallo Stato e dalle regioni verso le province ed i Comuni, attraverso deleghe amministrative o attribuzioni legislative. Non sempre, poi, sono state trasferite agli enti locali anche le risorse umane (leggasi personale che è rimasto, grazie ai sindacati, nei ministeri e nelle regioni: a far che non si sa!) e strumentali o finanziarie: ma questo è un altro discorso per quanto importante.

In effetti le province, enti napoleonici tipici di uno Stato centralista, che si sarebbero dovute abolire nel 1970 con l’introduzione delle regioni destinate costituzionalmente a prenderne il posto, sono state oggi riempite di funzioni e competenze che solo 15 anni fa non avevano. Allora esse erano scatoloni vuoti ma nessuno faceva chiasso per abolirle semplicemente perché i processi di destrutturazione mercantile del pubblico non erano ancora giunti ad un livello tale come oggi e la globalizzazione economica era solo agli inizi. Abolirle oggi significa fare marcia indietro rispetto alle dinamiche di decentramento federalista e sussidiario degli ultimi quindici anni e restituire a Stato e regioni le funzioni attualmente trasferite agli enti locali.

Questo lo dico non per te ma per tutti coloro, magari leghisti, che in preda a furori iconoclasti vanno cianciando di semplificazione e riduzione degli apparati pubblici credendo di fare discorsi federalisti. Fare marcia indietro è naturalmente legittimo e possibile ma, a quel punto, lo si faccia anche nei riguardi del ruolo della pubblica autorità e lo si riporti a quello di tipo autoritativo, che aveva un tempo, rinunciando a volerne a tutti i costi, e contro natura, fare una azienda.

Del resto, il Direttore è tra quelli che, giustamente, lamentano la scomparsa dello Stato stritolato dalla globalizzazione. Ebbene si restituisca allo Stato il suo potere egemonico ma non si parli più, a quel punto, per favore, di federalismo o di sussidiarietà.

Sappiamo però molto bene, sia Blondet che io, che mai questo avverrà perché i poteri finanziari transnazionali hanno invece bisogno proprio di togliere di mezzo tutto ciò che è pubblico potere. Ed a tal fine va bene anche destrutturare la funzione pubblica mercificandola. Una classe politica di parassiti ha fatto proprio questo bel servizio ai mercati finanziari.

Ripeto: quanto sopra non è in mia personale difesa o in difesa della mia categoria. Come dice Blondet, nel caso dell’abolizione delle province, seguiremo le funzioni riattribuite alle regioni. Oltretutto sono ormai rassegnato a fare la parte del capro espiatorio che i poteri forti gettano in pasto al popolino, esasperato per la crisi e bisognoso di prendersela con qualcuno. Saremo messi in riserva indiana, come ha scritto Blondet, in attesa di essere rottamati mano a mano che arriverà l’età pensionabile, nonostante anch’essa sembra allungarsi. Si può immaginare l’entusiasmo efficientista con il quale affronterò i miei ancora almeno vent’anni di servizio.

Gli stipendi pubblici già dalla manovra dello scorso anno sono stati congelati. La manovra di questa estate ha ulteriormente dilungato, di diversi anni, il periodo di congelamento. Personalmente non mi sono affatto accorto di recenti miglioramenti che le statistiche da Blondet citate affermano. Ma va bene così: so benissimo di essere fortunato rispetto a tanti altri e, in tempi di crisi e di necessità patria, mi sta benissimo che il mio stipendio sia congelato. Vorrei solo però che anche altre categorie mostrassero la stessa disponibilità ai sacrifici. Il fatto è che oggi, alla luce della mentalità individualista diffusa, neanche il regime fascista riuscirebbe a ripetere il miracolo dell’oro donato alla patria, anche perché non di dono alla patria purtroppo si tratta ma di stringere la cinghia per sostenere il servizio del debito pubblico ossia lo strozzinaggio planetario nelle cui grinfie siamo caduti anche per gli sprechi di una Pubblica Amministrazione che ha abdicato al suo antico ruolo sacrale.

L’impossibilità di gestire servizi pubblici per mancanza di personale, mano a mano che esso sarà rottamato per pensionamento, e di risorse finanziarie, per la crisi finanziaria, comporterà la loro inevitabile privatizzazione a beneficio dei privati investitori che entreranno nel settore e privatizzeranno tutto (anche l’acqua: fra qualche anno, del recente referendum, nessuno si ricorderà). Avremo una sanità privata, la scuola privata, l’esercito privato, la giustizia privata, etc. Sarà il trionfo delle idee degli anarcoliberisti americani.

La responsabilità di tutto questo è in primis di politici, sindacati e degli stessi dipendenti pubblici. Questi ultimi hanno rinunciato all’onore professionale e sociale che derivava loro dall’essere i rappresentanti della pubblica autorità, che ha in sé, o dovrebbe avere, qualcosa di sacrale, accettando logiche di mercato laddove il mercato non dovrebbe esserci. Del resto verso chi dovrebbe essere fedele oggi un pubblico dipendente? Verso Napolitano?!

Certamente, però, il futuro non sarà migliore neanche per coloro che oggi, anche tra i nostri lettori e commentatori, si danno all’iconoclastia istituzionale.

Luigi Copertino



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