Da dove viene l’antistatualismo dei cattolici post-moderni
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Visto il dilagare planetario del liberismo, è forse è il caso di ripassare, brevemente, un po’ di storia delle idee per capire da dove viene l’attuale antistatualismo di molti cattolici. Un antistatualismo equivoco che porta settori cospicui del cattolicesimo a fiancheggiare l’assalto definitivo della secolarizzazione al Politico.

Il problema nasce con la modernità che avendo, a suo tempo, imposto il giurisdizionalismo ha finito per porre lo Stato, o in genere la Comunità Politica, contro la Chiesa (nel medioevo invece il conflitto tra Chiesa ed Impero riguardava la ripartizione di competenze in un quadro di tipo «sacrale»). Da qui, dalla lotta contro lo Stato liberale hegeliano del Risorgimento, nasce il perdurante sentimento di diffidenza dei cattolici verso lo Stato moderno.

Ma è possibile sostenere in via di principio una tale posizione dovuta a particolari contingenze storiche?

La risposta è no, se si è memori del fatto che se è vero che il Cristianesimo ha «sdivinizzato» lo Stato è pur vero che, sulla linea agostiniano-tomista, per la Dottrina Sociale Cattolica la Comunità Politica, di cui lo Stato è la forma moderna, è «organismo morale», «societas perfecta» che ingloba pur senza annullarle le «societates imperfectae» minori, dalla famiglia ai diversi corpi intermedi.

Certamente, secondo la Dottrina Sociale Cattolica, la Comunità Politica deve essere retta da princìpi morali di Giustizia, senza i quali, diceva Agostino, nulla la differenzia dalle compagnie di briganti. Ciò però non toglie che la Comunità Politica resti prioritaria rispetto alla società civile, ossia alla sfera economica.

Insieme al giurisdizionalismo lo Stato liberale impose l’abolizione, oltre che degli usi civici e delle terre comuni, anche delle arti e mestieri, delle corporazioni. Anche questo corrispondeva all’ideologia liberale che voleva porre di fronte a sé, nudi, lo Stato e l’individuo, preso, quest’ultimo, nell’astrattezza della sua solipsistica egoicità.

Questa dialettica «statalismo/individualismo», naturalmente, favoriva, nei rapporti sociali, gli imprenditori che, così, liberati dai «lacci e lacciuoli» delle corporazioni e dei compagnonaggi (i proto-sindacati) nonché liberati dai vincoli posti, a suo tempo, dalle norme morali e dagli strumenti mutualistici e di carità imposti dalla Chiesa e dalla Corona, pattuivano, da una posizione di forza assoluta, le condizioni salariali con i singoli lavoratori. Il panorama di miseria e pauperismo denunciato, nel XIX secolo, da Dickens era il risultato della «liberalizzazione», rivoluzionaria iniziata con i fisiocrati settecenteschi. Tutto il sindacalismo moderno, e soprattutto tutto il movimento sociale cattolico ottocentesco, fu una risposta, una reazione, allo Stato liberale ed al suo contrattualismo meccanicistico.

A fine XIX secolo, Leone XIII, però, non invitò a tornare semplicemente alle forme sociali del passato medioevale ma invitò i cattolici, attraverso i «sindacati anche di soli operai» (così nella Rerum Novarum), a lavorare per un sistema normativo che imponesse agli imprenditori di venire a patti, di Giustizia, con gli operai. Per questo quel Papa benedisse la contrattazione collettiva e l’intervento mediatore dello Stato al quale si chiedeva di abbandonare il vecchio schema liberale, agnostico in economia e nel sociale. Qualcuno ha detto che Leone XIII ha anticipato Keynes.

Dunque il cattolicesimo sociale tra fine Ottocento ed inizio Novecento aveva abbandonato la mera prospettiva «medievaleggiante» delle corporazioni miste tra imprenditori e lavoratori per aprirsi, soprattutto con Giuseppe Toniolo, alla modernità pur senza accettarne gli aspetti soggettivisti, individualisti, contrattualisti. Ciò significava il riconoscimento giuridico della realtà delle comunità intermedie sindacali ma anche la richiesta di un ruolo forte dello Stato, chiamato ad intervenire nel conflitto sociale e nella sfera economica.

Non stiamo qui a dire come per questa strada molti settori del cattolicesimo sociale guardarono alle realizzazioni sociali del fascismo come ad un inveramento delle loro speranze. Si rilegga, in proposito, la Quadragesimo Anno di Pio XI che, per quanto critichi, d’altro canto elogia il corporativismo fascista. Si rileggano le pagine di Alcide De Gasperi, rifugiato in Vaticano, di critica alla dittatura ma al contempo di apprezzamento della politica sociale fascista nella quale non poteva non vedere certe continuità con gli auspici che erano stati del cattolicesimo sociale.

Ruolo forte dello Stato naturalmente significa anche, soprattutto oggi, sovranità monetaria e controllo della Banca Centrale. È vero che in questo primato dello Stato possono esserci anche dei rischi. Non lo si nega affatto. Ma la contropartita è la realtà attuale di indipendenza dei banchieri centrali dal Politico e di sudditanza degli Stati e dei popoli ai «mercati finanziari» che impongono non – si badi! – una migliore amministrazione del Welfare ma il suo smantellamento in ossequio al più rigido liberismo.

Non sarà certo il liberalismo tinteggiato di cattolicesimo di uno Sturzo, che non a caso è diventato il nume tutelare dei think tanks catto-cons come il «Tocqueville-Acton» e dei loro maitre a penser quali Flavio Felice e Dario Antiseri, a costituire una risposta, seriamente cattolico-sociale, al liberismo trionfante. Si tenga conto che Sturzo è stato aderente alla linea cattolico-sociale sopra tratteggiata fino a quando, mandato in esilio dal fascismo, non soggiornò prima a Londra e poi in America innamorandosi del mondo liberale anglosassone e credendo di vedervi – è lo stesso errore che fanno oggi i cattoconservatori – una continuità con le forme comunitarie di un’età a-statuale (ma non antipolitica perché l’Impero era all’epoca la Comunità Politica prestatuale) come il medioevo.

Si trattava e si tratta di una svista storica e filosofica perché non sussiste alcuna continuità tra medioevo e mondo anglosassone moderno. Nella loro essenza filosofica le forme sociali anglosassoni moderne nascono sulla base del medesimo contrattualismo sociale che permea lo Stato giacobino europeo. Locke era contrattualista, sosteneva cioè che la convivenza politica nasce dal contratto (cui poi ha dato nome di Costituzione), allo stesso modo che contrattualisti erano Hobbes e Rousseau, benché declinassero il contrattualismo in modo diverso dal padre del costituzionalismo liberale: Hobbes in termini autoritari e Rousseau in termini totalitari.

La linea di Hayek e Mises si aggancia direttamente al liberalismo massonico austriaco del XIX secolo che propendeva verso il liberalismo pragmatico ed antistatualista anglosassone, nato sulla scorta del pensiero di Locke, più che verso il liberalismo hegeliano-statuale al quale invece guardavano i liberali italiani come Bertrando e Silvio Spaventa.

Ora la domanda è la seguente: questo percorso liberale austro-inglese che ha a che fare con il percorso seguìto dal cattolicesimo sociale Otto/Novecentesco?

Nulla! Infatti non fu un caso se la politica sociale ed economica italiana nel dopoguerra non seguì per niente il liberale Sturzo ma piuttosto la via interventista indicata da Enrico Mattei che, sulla fascista Agip, creò l’ENI, un ente pubblico nazionale per rendere indipendente energeticamente l’Italia e lanciare una politica mediterranea di collaborazione con i popoli arabi. Enrico Mattei, prima di essere partigiano bianco, era però stato, da giovane, fascista ed aveva conservato ammirazione per la politica economica nazionale del regime, come del resto ammiratore del corporativismo fascista era stato Amintore Fanfani, che da docente della Cattolica scrisse cose notevoli in materia e, più tardi, da ministro tentò una pianificazione dell’economia a sfondo nazionale nella quale molti videro riecheggiare idee, aspirazioni e scenari che erano stati propri della politica mussoliniana degli anni ‘30.

Che oggi il mondo politico cattolico sia, invece, fortemente condizionato, per deficienze culturali e di conoscenze storiche, dalle sirene della cultura liberalconservatrice è, purtroppo, un dato di fatto. Ma questo non significa affatto che liberalismo/liberismo e cattolicesimo politico coincidano.

I cattolici oggi si riempiono la bocca di «comunità», «welfare community», «sussidiarietà», «economia civile», etc. Questo li ha posti a fianco dei liberali in nome dell’antistatualismo. In tal modo essi rischiano di diventare gli utili idioti nell’operazione in atto, tesa a ridurre a nulla la presenza del pubblico. Il cosiddetto «terzo settore», cui guardano i cattolici oggi, dovrebbe, invece, allearsi proprio con il settore pubblico, piuttosto che con il mercato, altrimenti verrà fagocitato da quest’ultimo, sia perché è il settore pubblico, politico, a poter creare norme a tutela del terzo settore, sia perché il mercato è finanziariamente più forte del terzo settore e senza appoggio del pubblico la partita è persa in partenza.

Va benissimo, per esempio, anche per alleggerire l’erario, che esistano gli ospedali delle confraternite religiose. Ma poi possono tali ospedali, senza appoggio statuale, sfuggire al mercato ed al malaffare (San Raffaele docet)? Possono poi quegli ospedali – fatta salva la carità di chi vi opera e la Provvidenza del Signore – sostenere i costi per i poveri facendo pagare solo i ricchi, i quali comunque preferiranno sempre farsi ricoverare in lussuose cliniche private?

In una società cristiana, come quella premoderna, certamente era possibile perché i ricchi sovvenzionavano i ricoveri per i poveri, per carità e/o utilità sociale. Non c’erano alternative all’epoca. Ma oggi che i ricchi secolarizzati ed increduli non si fanno scrupolo alcuno delle sofferenze dei poveri, pensate sia ancora possibile, se non nella irritante forma proposta da Hayek dell’elemosina statale per evitare la ribellione dei poveri? O il terzo settore si integra, in modo complementare, con il settore pubblico o è destinato ad essere il cavallo di Troia per destuatalizzare i servizi sociali a favore delle privatizzazioni di mercato. Per restare al nostro esempio: o l’ospedale religioso coopera con lo Stato sociale o il suo posto sarà preso dalla più concorrenziale clinica privata di lusso.

Ecco perché sussiste in noi una certa esitazione verso i troppo facili entusiasmi dei cultori del terzo settore, considerato come una panacea risolutiva per il sociale. Per quanto non si escluda affatto che esperienze del genere di quelle che si considerano nel novero del «terzo settore» sussistano o possano sussistere, ci sembra, con buona pace del simpatico ed ottimo Zamagni, che finora esse sono solo di nicchia, tra Stato e mercato, e non hanno affatto quella consistenza che possa renderle davvero una terza alternativa concreta ed universale.

Abbiamo troppo spesso fatto l’apologia della «comunità», e tale dovrebbe essere ad esempio una «impresa sociale», ma poi in pratica siamo litigiosi su tutto e su ogni quisquiglia, perché l’egocentrismo prende il sopravvento a causa della ferita, che ci portiamo dietro, del peccato originale. Gli entusiasti del «terzo settore» e dello spontaneismo comunitario sono portati, pelagianamente, a dimenticare che l’uomo è ferito dal peccato. Certamente, non saremo noi a cadere nell’errore opposto, luterano, di ritenere l’uomo sola corruzione e quindi da tenere a bada con la frusta. Ci limitiamo a ricordare che, cattolicamente, l’uomo, ferito dal peccato, è ancora capace del bene ma che ha bisogno della Grazia per redimersi completamente. E questo vale anche nelle relazioni sociali, anche per il «terzo settore», per il «comunitarismo». Infatti il vero welfare comunitario sono stati capaci di metterlo in pratica soltanto i Santi (per esempio, un San Camillo de Lellis o una Madre Teresa di Calcutta).

Per quanto ci consta lo scrivente, figlio di artigiani, poi impiegati, e nipote di operai, ha potuto studiare, elevare la propria posizione sociale, farsi una cultura (per quanto nel mondo mercificato di oggi vale poco) proprio perché a partire dagli anni Trenta e poi nel dopoguerra l’intervento dello Stato nel sociale e nell’economico ha consentito ai ceti popolari di migliorare ed ha, cosa che spesso si dimentica, impedito, interclassisticamente, lo scontro sociale più distruttivo o le avventure dell’utopia ideologica. Oggi, con la direzione presa dal mondo dai tempi di Reagan, ossia con il ritorno del liberismo, molti della generazione di mezzo non sono più tanto sicuri di poter garantire ai figli, o ad eventuali futuri nipoti, quanto i propri genitori hanno garantito loro. In Inghilterra, ad esempio, l’università è tornata appannaggio dei soli ricchi.

Un grande ruolo nell’antistatualismo in voga oggi tra i cattolici è giocato dalla commune opinio, artatamente diffusa da decenni, che il vero grave problema, quello che viene prima di tutti gli altri, sia l’inflazione e che pertanto debba essere garantita l’indipendenza della Banca Centrale onde consentire il mantenimento a livelli più che bassi dell’inflazione. Al contrario, la Banca Centrale, pur con tutti gli accorgimenti tecnici posti ad evitare eccessi inflazionistici, non può essere avulsa ed indipendente dalla Comunità Politica perché questo comporta, come è ormai evidente a tutti, l’impossibilità della democrazia e l’egemonia della finanza globale che sta distruggendo gli Stati.

Per quanto l’inflazione possa essere un problema non è il vero problema. Oltretutto non sempre la stampa di moneta provoca inflazione: la FED ha stampato tonnellate di dollari a partire dal 2008 senza provocare inflazione ed il Giappone ha un debito pubblico del 200% del PIL senza essere oggetto di attacchi speculativi proprio perché la sua Banca Centrale non è indipendente dalla Comunità Politica nazionale ma la serve come prestatore di ultima istanza, tranquillizzando i «mercati». Inoltre la Banca Centrale come può stampare può anche assorbire moneta e controllare l’inflazione: si chiama, per chi non lo sapesse, politica monetaria.

L’inflazione non è certamente il vero problema nelle attuali condizioni dell’economia globale. Il vero problema è oggi la disoccupazione da deflazione. La deflazione giova solo ai banchieri ed agli speculatori (i «mercati finanziari»), perché mantiene alto il valore dei tassi. Non a caso, per diffondere lo spauracchio dell’inflazione come il principale problema, banchieri e speculatori hanno elaborato una ideologia, il monetarismo, che contempla tra i suoi postulati l’indipendenza delle Banche Centrali dai governi (per i monetaristi radicali addirittura l’abolizione delle Banche Centrali e la libertà di ciascuno di usare mezzi di pagamento inventati di sana pianta e messi sul mercato in concorrenza).

Al monetarismo, purtroppo, finiscono per diventare, più o meno consapevolmente, strumentali anche tanti cattolici, vittime dell’equivoco antistatualismo di cui sopra. Per quanto ci riguarda, pur – ripetiamo – con tutte le prudenza necessarie, preferiamo un po’ più di inflazione ed un po’ meno di disoccupazione che il contrario. È anche più cristiano perché allieva la sofferenza di chi è senza lavoro.

Citiamo da Il Tempo, un giornale liberal-conservatore, non da Il Manifesto:

«… questa è lepoca dei contabili senza fantasia e senza alcuna visione del futuro. Se avessero ragionato così gli Schumann, i De Gasperi, gli Adenauer, staremmo ancora spalando le macerie del dopoguerra (…). Roosevelt uscì dalla Grande Depressione con il New Deal, il patto tra Stato, banchieri, industrie e lavoratori finanziato da capitali pubblici. Il suo predecessore Herbert Hoover aveva al contrario applicato una ricetta simil-Merkel (…). Oggi non riusciamo a scorgere un Roosevelt (…). Possiamo però scegliere tra fiscal compact e Beppe Grillo» (1).

Ai cattolici con simpatie liberali facciamo notare che persino Berlusconi, l’alfiere del liberismo nostrano, ha finito per ammettere che è meglio un po’ di inflazione che questa lenta agonia deflazionista che ci sta imponendo la tecnocrazia monetarista di Bruxelles e Francoforte:

«Non è una bestemmia ha dichiarato Berlusconi con riferimento all’ipotesi di una uscita dall’euro e di una svalutazione competitiva e ci sarà certo uno scandalo su tale ipotesi, ma cosa può succedere? Cè chi pensa che possa esserci una perdita di ricchezza ma io non arrivo a capirlo: la casa non avrebbe una perdita di valore. Non bisogna aver paura di una moderata inflazione. Negli anni 80 avevamo uninflazione a due cifre ma ci sono stati aumenti di consumi e la disoccupazione era al minimo» (2).

Ora se persino un liberale come il «salame» lo ha capito, mi chiedo perché mai ci si ostini, in una situazione di morte incipiente per deflazione, ad aver paura dell’inflazione, dell’immissione di liquidità in favore degli Stati (e non solo delle banche). I cattolici affetti da paura dello Stato, da qui a qualche tempo, nonostante l’affermazione del liberismo su scala globale, dovranno, per la forza degli eventi tragici che abbiamo purtroppo davanti, rivedere molte delle loro attuali posizioni.

Nel frattempo il governo Monti parla di migliaia di esuberi nel pubblico impiego. Tutta gente che, dopo anni di contumelie, ora rischia di essere gettata in mezzo ad una strada, come tanti operai delle aziende private. Nella pubblicistica liberista lo Stato è solo un’azienda e, dal momento che, liberisticamente, anche le aziende private non devono essere protette dai rigori della concorrenza globale e del dumping salariale asiatico, può seguirne la stessa sorte (3). Con una differenza fondamentale che nessuno, però, mette in rilievo: l’esperienza professionale nel privato può essere spesa per ricollocarsi nel privato ma l’esperienza professionale nel pubblico no. Avete mai sentito di una azienda che opera attraverso deliberazioni collegiali, determinazioni dirigenziali, atti di impegno di spesa, note di liquidazione, accertamenti di entrata, aggiudicazioni di appalti, selezioni concorsuali, insomma tramite il diritto pubblico ed amministrativo? Noi no, ed allora non è ben peggiore la situazione dei pubblici rispetto ai privati nella eventuale ricerca di nuova occupazione?

Tra una lacrimuccia e l’altra la Fornero, liberista di ferro, ed il gelido (rigor) Monti, al quale pure piace farsi fotografare insieme al Papa, ci stanno riportando all’età nella quale il «lavoro non aveva diritti perché funzionale al capitale». L’età nella quale Leone XIII si opponeva al liberismo denunciandone la totale mancanza etica e protestando che, al contrario di quel che ritengono gli economisti liberisti, «il lavoro non è merce» (Rerum Novarum).

Un’ultima osservazione sulla quale invito i cattolici di simpatie liberali ad una seria riflessione.

L’antistatualismo è da loro spesso inteso come una rivincita storica sullo Stato moderno «giacobino» e, quindi, come un aspetto della più generale tendenza post-moderna al superamento dello Stato, forma politica post-medioevale, che dovrebbe restituirci una realtà sociale pre-statuale ossia «tradizionale».

Mai vi fu più grande errore di prospettiva storica e filosofica!

L’esito finale del processo di secolarizzazione iniziato con la modernità, e del quale come diceva Carl Schmitt lo Stato fu il primo agente imponendosi come hobbesiano «dio mortale», non sarà affatto la rinascita di un’età prestatuale neomedioevale, ma semplicemente la definitiva liquefazione di ogni trascendenza, anche di quella «artificiale» ma ancor resistente (nel senso del Katéchon, dell’opposizione che frena la dissoluzione finale) dello Stato, nel mercato globale. L’ideologia liberista può far proprio, rovesciandolo e snaturalizzandolo, il motto mussoliniano «Tutto nel Mercato, Nulla contro il Mercato, Niente fuori del Mercato»!

Il nuovo totalitarismo, molto più efficace dei vecchi modelli staliniani ed hitleriani, – osservava Augusto Del Noce – è appunto il mercato globale, del tutto a-trascendente, nel quale si adempirà la reificazione totale e perfetta, in forma di riduzione a mero valore economico, dell’uomo da parte del Potere Finanziario Planetario.

Ma, del resto, ne siamo stati avvertiti per tempo ed oggi vediamo solo il progressivo realizzarsi della profezia:

«Faceva sì che tutti, piccolo e grandi, ricchi e poveri, liberi e schiavi, ricevessero un marchio sulla mano destra e sulla fronte; e che nessuno potesse comprare o vendere senza avere tale marchio» (Apocalisse 13, 16-17).

Luigi Copertino





1) Confronta Marlowe Il voto in Grecia è stato un bluffil mal dEuropa è a Berlino, Il Tempo del 19 giugno 2012.
2) Confronta Uscire dalleuro? Non è un tabù, Il Tempo 21 giugno 2012.
3) Questa idea dell’aziendalizzazione della Pubblica Amministrazione, sulla spinta del più generale processo di arretramento del Pubblico a favore del Privato, ossia dello Stato a favore del Mercato, si è fatta strada a partire dalla fine degli anni ‘80, anche con l’assenso dei sindacati del pubblico impiego che speravano di poter contare di più, mediante la contrattualizzazione del rapporto di lavoro pubblico che a partire dal 1993 ha sostituito il previgente regime pubblicista che, al contrario, faceva del lavoro pubblico non un contratto del tipo do ut des ma un rapporto di immedesimazione organica della persona del dipendente con l’Amministrazione. Tanto è vero che l’assunzione pubblica era tecnicamente un «incardinamento» e il licenziamento una «destituzione». Terminologia che con tutta evidenza richiama la genesi gerarchica e militare, ma anche «sacrale», dello Stato. Genesi che ancora trapela, ma ormai come mero flatus vocis, in articoli della Costituzione, ad esempio nell’articolo 97 nel quale è detto che i pubblici funzionari sono al servizio esclusivo della Nazione, con la «n» maiuscola. A partire poi dalle cosiddette «Leggi Bassanini», degli anni ‘90 sono stati tolti i controlli di legittimità, si è fatto spazio al rapporto fiduciario della dirigenza nominata dai politici, si è fatta una infinita retorica aziendalista su efficienza ed efficacia, ma i risultati, a detta di tutti, sono stati lo scardinamento del senso di appartenenza dei dipendenti, l’esplodere della concorrenza tra dipendenti per ottenere le diversificazioni salariali accessorie introdotte con i contratti collettivi di tipo privatistico (concorrenza che però si risolve nello scambio clientelare tra dipendenti e politici che quelle diversificazioni salariali devono stabilire), l’aumento per acquiescenza della dirigenza fiduciaria alla politica della spesa pubblica moltiplicata, attraverso il «federalismo», in una miriadi di centri di potere locale senza controlli, il proliferare della corruzione a dispetto dell’imparzialità della Pubblica Amministrazione sancita dalla Costituzione. Ed ora che arriva la minaccia di esuberi, i pubblici dipendenti si accorgono che l’aziendalizzazione della Pubblica Amministrazione non comporta solo presunti vantaggi sindacali e salariali ma anche l’equiparazione al privato sotto ben altri profili.



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