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Chiusura della mente americana
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(ma i guai nascono quando si apre)

 

Due libri, usciti a circa venti anni di distanza l’uno dall’altro, involontariamente, al di là delle intenzioni degli autori, descrivono la parabola discendente dell’Occidente. Si tratta di: «La chiusura della mente americana» (1) di Allan Bloom (1987) e «La Israel lobby e la politica americana» (2) di John J. Mearsheimer e Stephen M. Walt (2007). Quando il libro di Bloom uscì in Italia, nel 1988 infuriava ancora la finta disputa politica tra democristiani e comunisti: aderire ad un modello capital-socialista-cristiano oppure seguire le orme dei Paesi del blocco comunista-sovietico. A casa nostra, alla base di tutto il contendere politico-ideologico, dominava ancora il pensiero di Marx, sia per accettarlo e tentare di attuarlo, sia per rifiutarlo. Comperai il libro di Bloom agli inizi degli anni ‘90, su consiglio di un influente collega universitario. Egli era convinto che in quella lettura avrei trovato le risposte alle domande imbarazzanti che ponevo in Facoltà circa l’evolversi della nostra università verso miseri destini. Ma sino a questa estate del libro, un «mattone» di 373 pagine, ero riuscito a leggere solo qualche brano.

Come è scritto nei risvolti di copertina:
«per mesi al primo posto nelle classifiche dei libri più venduti in America, al centro di polemiche clamorose sulla stampa di tutto il mondo e in particolare di quella italiana, ‘La chiusura della mente americanaè una feroce critica ai valori intellettuali e morali della nostra epoca da parte di un professore di filosofia politica dellUniversità di Chicago, Allen Bloom, membro del così detto gruppo dei Chicago Boys’, i supercervelli dAmerica guidati da Saul Bellow».

In Italia il libro non ebbe un grande successo di vendite. Per le sinistre il libro aveva la colpa di non mostrare le contraddizioni di fondo che essa allora imputava al sistema capitalistico americano, con il suo individualismo maniacale. Il contenuto era stato classificato come «conservatore» e questo era già sufficiente a renderlo inviso alla nostra compatta schiera di intellettuali di sinistra. Per il centro (la destra in quegli anni era ancora innominabile) il libro

avanzava critiche inopportune al Paese guida dell’Occidente. Trascorso poco più di un decennio, con la caduta del muro di Berlino e con il tramonto definitivo del miraggio di un mondo diventato tutto comunista, anche la sinistra italiana si sarebbe unita al coro di laudi rivolte al grande «amico» americano. Ci sarebbe stato uno scambio di ruoli perché una parte della destra sarebbe diventata sempre più critica verso la politica d’oltre Atlantico. Avendo trovato nel libro qualche spunto sull’architettura americana antecedente al ciclone del modernismo, questa estate, con venti anni circa di ritardo, ho letto l’opera di Bloom. Il premio Nobel per la letteratura (nel 1976) Saul Bellow (1915 - 2005) ne scrisse la prefazione. Ben radicato nella realtà quotidiana americana, l’ebreo Bellow in queste sue pagine riesce a parlare quasi solo di se stesso. Bellow non ha scritto molti libri e la critica non gli è stata sempre favorevole; eppure le giurie dei premi letterari sembra che invece gli siano state molto favorevoli. Le sue opere, oltre al Nobel, hanno vinto ben tre volte il National Book Award, il premio Pulitzer e Bellow è stato il primo americano a vincere il Premio Internazionale per la Letteratura (ci sarà qualche coincidenza con l’essere ebreo?).

Le poche righe rivolte all’opera di Bloom si sintetizzano in questo breve estratto:
«Il fulcro del ragionamento del professor Bloom è che luniversità, in una società governata dalla pubblica opinione, avrebbe dovuto essere unisola di libertà intellettuale, dove tutte le opinioni venivano prese in esame e senza restrizioni. Nella sua generosità, la democrazia liberale lo ha reso possibile, ma accettando di giocare un ruolo attivo o positivo’, di partecipazione nella società, luniversità è stata inondata e saturata dal riflusso dei problemi della società stessa… La gente dentro luniversità è sempre più identica, per desideri e motivazioni, alla gente di fuori’. E questo che per me dice Bloom e se facesse soltanto unaffermazione polemica sarebbe abbastanza facile sbarazzarcene. Quello che invece lo rende estremamente serio è laccurato bagaglio storico che accompagna la sua tesi. Egli spiega con unammirevole padronanza della teoria politica, che cosa intendevano Machiavelli, Hobbes, Locke, Rousseau e gli altri filosofi dellIlluminismo…». Infatti la cultura politica americana,

prima dell’arrivo del pensiero tedesco all’epoca della repubblica di Weimar, era congelato al periodo antecedente la Rivoluzione Francese.

 

L’opera di Bloom (1930 - 1992) che inizia il suo libro così: «Il docente, in particolare quello dedito alleducazione liberale, deve continuamente cercare nellinsegnamento la completezza umana e indagare la natura dei suoi studenti qui ed ora… Essenza di questo atteggiamento è lattenzione ai giovani, sapere quello di cui hanno bisogno e quello che si può loro dare. Non esiste una vera educazione che non corrisponda  a unesigenza sentita… Particolarmente rivelatori sono i vari impostori la cui attività è sedurre i giovani. Questi ambulanti della cultura hanno un fortissimo motivo per scoprire le motivazioni dei giovani - perciò sono utili guide nei labirinti dello spirito dei tempi».

Bloom quindi è pragmatico, giustamente è realista ed è aperto al contributo anche degli impostori pur di far breccia nell’anima dei giovani. Negli anni che sono seguiti, l’educazione dei giovani nei Paesi occidentali sarà sempre più affidata ai messaggi trasmessi dal cinema e più ancora dalla televisione. I vari impostori prenderanno il sopravvento sull’insegnamento della scuola. Di questa realtà Blomm ha la percezione ma spera che i giovani arriveranno alla maturità lasciandosi alle spalle i cattivi maestri. Si tratta di una speranza non certo di una certezza. Lo strumento principe per sedurre i giovani è la musica e nel capitolo ad essa dedicato leggiamo:
«Quando accendono la televisione, i ragazzi americani vedono il  presidente Reagan che stringe calorosamente la mano guantata di Michael Jackson, graziosamente offerta, e lo elogia con entusiasmo».

E’ di quest’anno la fine di Jackson, morto in una cornice di depravazione e di droga. In quegli anni era agli inizi folgoranti tra una massa di giovani che lo applaudivano e che avrebbero voluto imitarlo.
«… (per lo studente) Il suo uso della droga si fermerà certamente allerba. La scuola gli fornisce valori reali e lo storicismo popolare darà la salvezza finale… la vecchia generazione non è là per imporre i suoi valori, ma per aiutare quella dei giovani a trovare i propri».

All’inizio del capitolo sulla musica leggiamo:
«Sebbene non abbiano libri, gli studenti hanno... la musica. Niente è più singolare, a proposito di questa generazione, della sua assoluta dipendenza dalla musica. Questa è lepoca della musica e degli stati danimo che laccompagnano. Per trovare lequivalente di questo entusiasmo, bisognerebbe tornare indietro di almeno un secolo, alla Germania ed alla passione per le opere di Wagner. Queste erano recepite con la religiosa convinzione che Wagner stesse creando il significato della vita... Oggi, una grandissima percentuale di giovani tra i dieci e ventanni vive per la musica… La musica dei nuovi fedeli... non conosce né classe né nazione. E a disposizione ventiquattro ore al giorno, dovunque… Il potere che la musica ha sullanima… è stato riscoperto dopo un lungo periodo di disuso. Ed è stata la sola musica rock che realizzato questa restaurazione. Tra i giovani la musica classica è morta… La musica rock è indiscussa e non problematica… pochissimi hanno familiarità con la musica classica… una volta i miei studenti conoscevano la musica classica più di me… la cultura musicale romantica in America aveva avuto il carattere di una impiallacciatura, facilmente soggetta al ridicolo… non è stata prodotta alcuna musica classica che riesca a parlare a questa generazione».

Questo è la conseguenza di una felicità concepita come evasione, fuga dai problemi della vita, questo è alla base della necessità della droga: la felicità artificiale per via chimica. Infatti Bloom scopre l’analogia tra musica moderna e droga e la denuncia.

«La musica dà unestasi prematura e, da questo punto di vista, è come la droga con la quale è alleata. Induce in modo artificiale lesaltazione che naturalmente è legata alladempimento dei più grandi sforzi - la vittoria in una guerra giusta, lamore consumato, la creazione artistica, la devozione religiosa e la scoperta della verità… Nella mia esperienza, per gli studenti che avevano avuto gravi problemi di droga - e che ne erano usciti - era difficile entusiasmarsi o avere grandi speranze… Il piacere che  avevano provato allinizio era stato così intenso che non lo cercavano più alla fine o come  fine… La loro energia si era prosciugata e dalla loro vita futura si aspettavano solo di avere di che vivere… Ho il sospetto che lintossicazione da rock, specialmente quando mancano altri interessi forti, abbia un effetto simile a quello della droga… finché (i giovani) hanno un Walkman sulle orecchie, non possono sentire ciò che la grande tradizione ha da dire. E dopo un uso prolungato, quando si tolgono il Walkman, scoprono di essere diventati sordi».

Eppure questi giovani dovrebbero essere consci di essere i fortunati eredi di periodi storici tormentati e difficili, dove è nato il loro benessere materiale.
«Immaginate un tredicenne seduto nel soggiorno della sua casa a fare i compiti di matematica mentre ascolta la sua musica preferita dal suo Walkman… Gode delle libertà conquistate nei secoli a prezzo dellalleanza tra il genio filosofico e leroismo politico, consacrate dal sangue dei martiri; gode delle comodità e del tempo libero che gli offre leconomia attuale; la scienza ha penetrato i segreti della natura per offrirgli i migliori suoni e riproduzioni di immagini elettroniche… E in che cosa culmina il progresso? In un ragazzino nella pubertà il cui corpo vibra con ritmi orgasmici; le cui sensazioni sono espresse in inni alla gioia dellonanismo e delluccisione dei genitori; la cui ambizione è conquistare fama e ricchezza, imitando il travestito che fa la musica. In breve la vita è diventata una fantasia di masturbazione non-stop, commercialmente preconfezionata».

 

Bloom esamina poi il quadro dell’America politica inserita nel mondo attuale.

«dopo la guerra, mentre lAmerica diffondeva i suoi blue jeans per unire i giovani di tutte le nazioni, una forma concreta di universalismo democratico che aveva avuto effetti liberatori su molte nazioni in schiavitù, importava una veste per la sua anima, di produzione tedesca, che era in contrasto con tutto ciò e metteva in dubbio lamericanizzazione del mondo che noi avevamo intrapreso, pensando che ciò fosse bene e conforme ai diritti delluomo. Il nostro profilo intellettuale era stato alterato da pensatori tedeschi ancor più radicalmente di quanto lo sia stato il nostro profilo fisico da parte degli architetti tedeschi. Anche Mies van der Rohe era uno sconosciuto a Chicago prima di avere loccasione di costruire e il Bauhaus è un altro prodotto di Weimar, strettamente collegato alle correnti di pensiero che facevano capo a Nietzsche e a Heidegger». «Non è raro che una nazione con unintensa vita intellettuale eserciti una grande influenza su nazioni meno dotate, anche se gli eserciti di queste ultime sono potentissimi. I casi più lampanti sono linfluenza della Grecia su Roma e della Francia su Germania e Russia. Ma è proprio la differenza tra questi due casi e lesempio di Germania e Stati Uniti che rende questultimo caso tanto problematico. La filosofia greca e quella francese erano universali nelle intenzioni e nei fatti. Facevano appello alluso di una facoltà potenzialmente posseduta da tutti gli uomini in qualunque tempo e luogo... La vita buona e il regime giusto che essi insegnavano non conoscevano limiti di razza, nazione, religione… La vera definizione della filosofia era questa relazione con luomo in quanto tale. Ne siamo consapevoli quando parliamo di scienza e nessuno parla seriamente di fisica tedesca, italiana o inglese. E quando noi americani parliamo seriamente di politica, intendiamo che i nostri principi di libertà e uguaglianza e i diritti che si basano su di esse sono razionali e applicabili ovunque. La seconda guerra mondiale fu in realtà un progetto educativo avviato per costringere ad accettare questi principi a coloro che non li accettavano… Lo storicismo ha insegnato che la mente si collega essenzialmente a storia e cultura. Secondo gli ultimi filosofi tedeschi la Germania è parte essenziale di essi… LAmerica scelse un modo di guardare le cose che non le apparteneva e come punto di partenza aveva lavversione per tale nazione e i suoi scopi. Si riteneva che gli Stati Uniti fossero una non cultura… Il desiderio americano di cose tedesche era la prova che non potevamo capirle… lo storicismo radicale di Nietzsche rendono il caso tedesco lopposto di quello greco. Dato il nostro esasperato universalismo illuministico niente potrebbe essere più sgradito a Nietzsche e a Heidegger del nostro abbraccio».

Prima di arrivare a questo punto Bloom si era lungamente soffermato sulla influenza capillare esercitata dal pensiero tedesco su quello americano, influenza che si sviluppò dopo la prima guerra mondiale, prima che il nazismo andasse al potere. Poi Bloom descrive le forme concrete, come l’architettura dove si manifestava il pensiero americano prima della
«contaminazione» operata da quello tedesco. Egli critica l’influenza tedesca senza accorgersi che in quella influenza si è inserita una specie di «ebraismo di ritorno», l’ebraismo che era cresciuto in Europa dopo che gli Stati Uniti si erano distaccati dalla storia europea, dopo che essi avevano iniziato il loro cammino a partire dai principi che avevano preceduto e animato quella che è stata la grande svolta del pensiero europeo costituito dalla Rivoluzione Francese. Bloom aveva in mente lo spirito americano originale, dove peraltro l’ebraismo dei primi ebrei immigrati aveva trovato sin dalle origini degli Stati Uniti un posto di rilievo contribuendo a formare l’eredità trasmessa dai «padri fondatori». Bloom apparteneva a questa corrente di ebraismo americano autoctono.

 

Ecco finalmente il brano che riguarda larchitettura

«Avevo quindici anni quando vidi per la prima volta lUniversità di Chicago e sentii in qualche modo che avevo scoperto la mia vita. Non avevo mai visto prima... edifici palesemente riservati a uno scopo superiore, non a necessità o utilità, non semplicemente per proteggere, produrre o commerciare, ma qualcosa che poteva essere un fine in sé… Erano senzaltro edifici in falso gotico. Nel corso della mia educazione ho imparato che erano falsi e che il gotico non è proprio di mio gusto. Ma aprivano una strada di apprendimento che porta al luogo di incontro dei grandi uomini. Là si trovano esempi di una specie che non è facile incontrare, ma senza quegli esempi non ci si rende conto delle proprie capacità, né di come sia meraviglioso poter appartenere a quella specie. Questa imitazione di stili di terre e tempi remoti manifestava la consapevolezza di come la sostanza espressa da questi stili fosse in realtà un po misera e di come non esistesse neppure rispetto per quella sostanza. Quegli edifici erano un omaggio alla vita contemplativa da parte di una nazione più di ogni altra dedita alla vita attiva. Già allora lo pseudogotico era messo molto in ridicolo e oggi nessuno costruisce più in quel modo. Non è autentico, non è espressione di ciò che siamo, così si diceva. Per me invece era ed è espressione di ciò che siamo. Ci si chiede se le critiche colte avessero la consapevolezza di ciò che siamo, con le nostre vere esigenze spirituali, pari a quella del ricco che pagò quegli edifici. LAmerica è proiettata verso il futuro e ai suoi occhi la tradizione sembra più una pastoia che una ispirazione. Ma le reminiscenze e gli insegnamenti del passato sono lunico meccanismo di controllo del popolo americano mentre sbanda lungo il suo cammino. Quei disprezzati milionari che edificarono una università nel cuore di una città, che sembra dedita soltanto ai fini americani (quindi industriali e mercantili), pagavano un tributo a ciò che avevano trascurato, vuoi per un senso di ciò che avevano perso, vuoi per cattiva coscienza circa gli scopi della loro vita, vuoi per la soddisfazione di vedere i propri nomi nella lista dei finanziatori… Tutta la cultura era una cosa americana, non solo la cultura tecnica».

In tutto il libro solo queste poche righe parlano di architettura, ma sono importanti. Ci spiegano perché gli stili che cercavano di riprendere il passato ebbero tanta fortuna alla fine del XIX secolo ed agli inizi del successivo: erano un modo per avvicinarsi allo spirito dei grandi personaggi. Anche se erano il simbolo di una cultura radicata nel passato, erano il luogo di incontro con il pensiero sempre vivo nella sua eternità immutabile. L’imitazione di stili di terre e tempi remoti  era un omaggio alla vita contemplativa… per me era ed è espressione di ciò che siamo, dice Bloom. Gli edifici in stile gotico erano una lezione di storia, di letteratura e di filosofia scritta nella pietra. Erano l’evocazione di un mondo dello spirito e del ricordo contro la dissacrazione stupida e volgare di un nuovo senza storia, immerso in un presente congelato in una morte perenne.

 

Uno sguardo al dibattito suscitato dal libro di Bloom

«La chiusura della mente americana» fu pubblicato nel 1987, cinque anni dopo che Bloom aveva pubblicato su The National Review un saggio che riguardava il fallimento delle università nel soddisfare i reali bisogni degli studenti. Con l’incoraggiamento di Saul Bellow, suo collega all’università di Chicago, egli raccolse le sue riflessioni in un libro il cui contenuto si riassume nella frase «attorno ad una vita, che ho vissuto». I suoi amici e ammiratori pensarono che il libro avrebbe avuto un successo molto modesto, come pensò lo stesso Bloom, che fece presente le sue scarse capacità nel completare il progetto editoriale. Bloom critica la filosofia analitica trasformata in corrente ideologica; «i professori che appartengono a questa corrente non vogliono e non possono parlare di qualsiasi argomento importante, ed essi stessi non conducono uno stile di vita che possa essere identificato con quello di un filosofo davanti ai loro studenti».

In gran parte la critica di Bloom ruota attorno alla sua convinzione che i grandi libri del pensiero occidentale sono stati ridotti a compendi di saggezza. Gli americani sono del tutto incapaci di mettersi in discussione. Bloom lo sa e quindi ha cercato di farlo con moderazione, altrimenti nessuno lo avrebbe letto. Il libro incontrò un certo favore della critica. L’erudito conservatore William Kristol scrisse sul Wall Street Journal
«nessun altro libro è insieme così piacevole e così profondo, così arguto e così ricco di idee». Nel 1989 un articolo di Ann Clark Fehn («The German Quarterely», volume 62, numero 3, Focus: Scritti letterari dal 1945 - estate 1989) discusse le critiche ricevute dal libro, notando che esso aveva eclissato tutti gli altri titoli di quell’anno riguardanti l’insegnamento superiore. Su Publisher’s Weekly Ann Clark riportò una sintetica definizione del libro di Bloom come un «best-seller creato dai critici». Dopo circa dieci anni dalla pubblicazione del libro Camille Paglia lo indicò come «il primo colpo sparato contro la cultura della guerra». Il noto scrittore Noam Chomsky dichiarò invece che il libro era pensiero storditamente stupido. Andrew Sullivan ha scritto nel 2000 su The New Republic che «leggendo Bloom  uno scopre che egli non solo ha compreso Nietzsche; egli si è imbevuto del suo pensiero. Ma a differenza di Nietzsche questa sua consapevolezza del baratro ha spinto Bloom verso l’amore ed una politica di sopravvivenza (di conservazione). Amore per la verità o per gli altri, poiché questo ci può sollevare dall’abisso. Una politica di conservazione che meglio può limitare il caos che la modernità attraversa». Il libro per 10 settimane è stato il best seller numero uno. Il Presidente Reagan invitò Bloom alla Casa Bianca; Margaret Thatcher discusse con lui di filosofia.

 

Marina Valensise ci parla con passione dellamicizia tra Bloom e Bellow

Riporto gran parte dell’ottimo articolo di Marina Valensise (3) su Bloom e su Bellow:

«La loro era unamicizia vera, nel senso nobile che Platone e Aristotele davano al termine, per distinguere una comunità di uomini in cerca della verità dallaccidentale intimità tra individui mossi solo dallutile o dal piacere. Serano conosciuti a Chicago nel 1979, dove entrambi erano finiti a insegnare allUniversità. Saul Bellow aveva allepoca 64 anni. Allan Bloom, 49. Ma la differenza detà funzionava al contrario: il vero mentore era il più giovane, mentre il più vecchio se ne considerava il discepolo. Avevano preso a frequentarsi intensamente sin da subito, legati dalla comune origine ebraica - figlio di ebrei russi fuggiti da San Pietroburgo Bellow, ebreo americano di Daytona, nellOhio, Bloom. Bellow aveva già scritto i romanzi che lo resero famoso (‘Le Avventure di Augie March’, ‘Herzog’, ‘Il Dono di Humboldt’) e aveva già vinto il Premio Nobel per la letteratura. Bloom aveva tradotto lEmile di Rousseau, la Repubblica di Platone, aveva studiato la politica nei drammi di Shakespeare, aveva già insegnato a Yale, Cornell e Toronto, ma nel mondo accademico era considerato un paria, un eccentrico, uno snob, addirittura un conservatore. Era odiato da liberali e radicali, perché cresciuto alla scuola di Leo Strauss, lultimo filosofo classico dei tempi moderni, che in nome del diritto naturale combatteva il relativismo, lo storicismo e il nihilismo contemporanei. Bellow e Bloom abitavano a pochi isolati luno dallaltro, nel quartiere di Hyde Park. Passavano interi pomeriggi a

chiacchierare, dopo pranzo, nei salottini del Quadrangle Club, edificio neogotico e tovagliette a quadri bianchi e rossi. Per chi veniva dallEuropa costituivano unattrattiva irresistibile nella desolazione del Midwest, fra inverni gelati a 40 gradi sottozero ed estati torride. Un centro dirradiazione di idee profonde e alta cultura, un seminario spontaneo e permanente sulla grandezza e le miserie dellumanità; la psiche dellamericano medio messa a nudo, le bizzarre distorsioni del culto delleguaglianza e della libertà, e lEros, che per Socrate era il centro dellanima, il daimon offerto dagli dei per compensare la perduta pienezza dellumanità, come insegnava Platone nel Simposio. La sera si ritrovavano insieme per un aperitivo ai Cloisters, in Dorchester Avenue, dove Bloom viveva in un appartamento al 12° piano, inondato di luce e musica di Verdi e di Rossini, con le foto di Kissinger, Reagan e la Thatcher… il divano in pelle nera con accanto la postazione telefonica degna di un dirigente del Pentagono, da cui tesseva le infinite sue trame di informazioni, pettegolezzi, notizie più o meno riservate, con gli ex allievi e buoni amici sparsi per il mondo a trattare la grande politica: da Francis Fukuyama ad Alain Besançon, da Pierre Manent a Harvey Mansfield, da Thomas Pangle a Pierre Hassner. Sullo sfondo, la dottrina hegeliana della fine della storia, la teoria repubblicana di Machiavelli nei Discorsi sulla prima Deca di Tito Livio e la virtù secondo Montesquieu, scopritore della libertà inglese. Bellow passava in rassegna vizi e virtù, sogni e illusioni, drammi e pochezze della sua ultima moglie. E raccontava gli eccessi del politically correct di cui era preda lUniversità… (dove venivano comminate) feroci sanzioni morali agli europei in visita che volevano andare a sentire la messa cantata dei neri, come se il gospel fosse uno zoo… riflettere sul tortuoso cammino dellEros, la fine delle grandi passioni e il tormento che patisce lanimo umano quando lemancipazione democratica trionfa e detta leguaglianza tra i sessi. Forse era stato proprio in una sera come quella, al lume di candela del Flamingo, che Bellow diede a Bloom lidea che lavrebbe fatto diventare ricco e famoso. Perché non scrivi un libro per denunciare le carenze di uneducazione progressista che oggi ai giovani dà solo lillusione di conoscere le cosiddette scienze umane, senza minimamente prepararli alla vita?’. Bloom alzò il capo, segnato da calvizie geologica, fissò Bellow dal fondo dei suoi occhi scuri, infossati sotto i sopraccigli ad arco… spense la sigaretta a metà nel portacenere e disse: ‘Its a great idea’. Il libro lo scrisse in pochi mesi e fu un best seller. The Closing of the American MindovveroIl tramonto dello spirito americanouscì nellaprile dell 87 e vendette un milione di copie. Tradotto in tutto il mondo, anche in Italia (pubblicato da Frassinelli), era un pamphlet denso e divertito, implacabile e dolente contro limperversare del nihilismo debole’, versione americana della filosofia di Friederich Nietzsche e di Martin Heidegger, una messa in guardia contro il culto di Michael Jackson fra le giovani generazioni e una certa tristezza degli animi seguita alla liberazione dei corpi. Bellow aveva scritto una prefazione nel suo solito stile sottotono, sobrio ma partecipe: ‘Professor Bloom is a front-line fighter in the mental wars of our times’, insomma lo lodava come combattente di prima fila delle guerre intellettuali del tempo. Bloom lo ringraziò durante uno dei suoi viaggi a Parigi con una cena luculliana al Lucas Carton in Place de la Madeleine in onore suo e della sua ex allieva Janis Freedman, divenuta nel frattempo la quinta moglie dello scrittore e ora anche la madre della sua ultima figlia. Oltre che complici ideologici, Bellow e Bloom erano veri amici. Parlavano di tutto, si scambiavano tutto. Non era stato Bloom a far capire a Bellow lassurdità del suo precedente matrimonio, con quella famosa signora sempre impegnata in convegni, congressi, conferenze e così assorta nei suoi pensieri da non aver mai tempo per mettere a posto la spesa?… Bellow si convinse che… Bloom aveva proprio ragione. E divorziò. Passarono insieme, parlando, ridendo, scherzando gli ultimi anni della vita di Bloom, che finalmente ricco e famoso, poteva vivere allaltezza dei suoi mezzi e abbandonarsi al piacere del lusso e delle spese inutili e sontuose. Era afflitto da uno strano disturbo neurovegetativo, ma continuava a irradiare intorno a sé intelligenza e allegria e sera addirittura messo a dettare il suo testamento spirituale, un libro sullamore e l’amicizia (‘Love and Friendship’, Simon and Shuster, 1993) mai tradotto in italiano, sebbene offrisse una summa ragionata dellamore romantico attraverso le opere di Jean-Jacques Rousseau e i grandi romanzieri dell800, Stendhal, Jane Austen, Flaubert e Tolstoj. Ti servirà a emanciparti da me’. Prima di morire nel 92, Bloom chiese a Bellow di scrivere la sua biografia: ‘Più che una richiesta è un obbligo. Ti servirà a emanciparti da me’. Bellow però fece passare qualche anno, lui stesso aspettò la propria morte, la vide arrivare alla sprovvista dentro un pesce velenoso dei Caraibi, la evitò per un pelo grazie alla medicina e allamore della giovane moglie, e solo allora decise di mettersi a scrivere la vita dell’amico, facendone un romanzo. Ravelstein, la storia di un amico vero, ebreo, filosofo della politica, intriso di Tucidide e Platone, di Mosé e Maimonide, autore di bestseller, malato di Aids e ancora innamorato della vita e fino allo stremo delle forze incline allEros e alle sue leggi imperiose. Il critico Giovanni Raboni e gli scrittori Giorgio Montefoschi e Mario Fortunato, forse convinti che si trattasse di pura fiction, hanno tralasciato laspetto documentario del romanzo. Questa però è la storia di unamicizia che ebbe vita effettiva e dettagliata, ma anche romanzesca, al punto che Martin Amis la sta già raccontando in un libro che si chiamerà Experience’. Saul Bellow si è pentito dellouting sullomosessualità e lAids di Bloom, incertezze esistenziali in un romanzo che è l’ultimo vero tributo a un complice straordinario che non si vuole lasciare andare via».

 

La cultura dellarte e delle lettere e la cultura della tecnica e della scienza

Il problema centrale sollevato da Bloom circa il rapporto tra cultura artistica e filosofica e cultura tecnica si era già posto sin dall’inizio della nascita dell’industria. A metà del XIX secolo De Sanctis ebbe l’incarico di Letteratura Italiana al Politecnico di Zurigo. Come Bloom De Sanctis si era trovato a rappresentare la cultura storica, letteraria e filosofica dentro il mondo della scienza e della tecnica. Ma i tempi erano molto diversi. Oggi consideriamo encomiabile che un Politecnico di Ingegneria come quello di Zurigo avesse istituito un corso di Letteratura Italiana. Da un libro (4), che scrissi nel 1975, «La stagione conviviale», è interessante leggere oggi la prolusione che il De Sanctis, nel 1856, tenne agli studenti per il secondo anno del corso all’Istituto Politecnico di Zurigo… «Scrivendo allamico De Meis, De Sanctis, parlando dei suoi studenti, dice: ‘Questi miei bravi discepoli credevano di non potere meglio testimoniarmi la loro attenzione, che con una perfetta immobilità; mai un chinare di capo, un segno qualunque di approvazione»

I miei studenti (del corso di Fisica per ingegneri nel 1972) invece qualche gesto lo facevano, dopotutto dagli studenti di Zurigo del 1856 c’era qualche differenza. Eppure per quanto riguardava la comunicazione tra me e loro all’inizio avrei potuto descriverla usando le stesse parole del De Sanctis. Iniziai parlando dell’evoluzione del pensiero scientifico, raccontando di come gli scienziati teorici e quelli sperimentali vedano le cose del mondo fisico da punti di vista diversi e di come infine si pervenga ad accettare per buona una teoria, vale a dire una certa interpretazione del mondo fisico (o meglio di una sua parte), che risulta essere in migliore accordo con la tirannia assoluta della realtà sperimentale. A queste mie argomentazioni, che ritenevo essere acute e stimolanti, seguì da parte degli studenti solo qualche barlume di interesse, che mi parve di scorgere nel loro immutato mutismo. Si trattava di riflessioni non tecniche, possiamo definirle tratte dalla filosofia della scienza. Non ottenni risultati degni di nota neppure quando con enfasi espressi l’opinione che la Scienza non avrebbe mai appagato la loro sete di conoscere l’essenza delle cose che li circondano, essendo la nostra Scienza rivolta soprattutto ad utilizzare la natura, a servirsi della realtà fisica, non a scoprirne l’essenza profonda. Posi l’accento sul fatto che la Scienza ricostruisce il reale utilizzando modelli matematici con i quali compie previsioni per poter permettere agli ingegneri di costruire macchine e processi. I modelli sono accettati sino a che si comportano in modo del tutto simile al mondo reale…

Ben diversa fortuna sembra sia arrisa, in altri tempi, al buon De Sanctis, che iniziò la sua prolusione con queste alate parole:
«Il giorno in cui dò principio alle mie lezioni, soglio sempre fare ai miei giovani un po di discorso così allamichevole, quasi preludio a quellarmonia intellettuale che a poco a poco si andrà formando tra noi. E lo fò per iscritto, come uomo che pone molta cura nel suo abbigliamento la prima volta che si deve presentare in una casa rispettata… Siate dunque i benvenuti miei cari giovani: il vostro professore vindirizza un affettuoso saluto’… ‘Secondo lordinamento dellUniversità Politecnica Federale, questi studi non sono obbligatori. Sono obbligatorie quelle lezioni solamente di cui avete necessità per lesercizio della vostra professione: tutto laltro è lasciato a vostra libera elezione… In effetti, con le sole lezioni obbligatorie, qualunque tu sii che te ne possi contentare, tu non sei ancora un uomo: tu sei, permettimi chio te lo dica, un animale bello e buono. Un animale ragionevole, mi risponderai, che sa la matematica, la fisica, la Meccanica. Certamente, e perciò animale colpevole, che ti sei servito della ragione unicamente a scopo animale. In effetti ditemi un po’, miei giovani, quando costui avrà passata la sua giornata a lavorare per procacciarsi il vitto, empiutosi il ventre, inumidita la gola, fatta una bella digestione; in che costui differirà dal suo mulo o dal suo asino, che anchegli ha passato eroicamente la sua giornata tra il lavoro e la mangiatoia ?».

…Oggi le parole del De Sanctis possono essere giudicate almeno pericolosamente qualunquiste, idealistiche, ma anche oggi siamo disposti a credere che la grandezza è nel coraggio di affrontare la vita di ogni giorno cercando significati e valori nei veri beni concreti di cui disponiamo: quelli dello spirito.
«Un giorno confortavo alle lettere un mio giovane amico di Napoli, il quale stette un pezzo muto a sentire le mie belle ragioni; poi, come chi fugge a un tratto la pazienza: - Sai, disse, che ti credevo un popiù uomo! Che diavolo! Bisogna ragionare. Credi tu che una terzina di Dante mi possa togliere di dosso i miei debiti, o che tutti glInni del Manzoni mi diano un buon desinare? Filosofia, Letteratura, Storia! A che pro? Per finire in un Ospedale? Oibò io studierò il codice, farò un bellesame e sarò fatto giudice. Che bisogno ha un giudice di Dante o del Petrarca?… E costui non aveva ancora diciotto anni!… Crebbe rozzo, salvatico, plebeo; divenne giudice; ed oggi, questa bestia togata divide il tempo tra le condanne a morte, ai ferri, allergastolo desuoi stessi compagni, ed i buoni bocconi».

Non si lamenti poi troppo il De Sanctis; ai tempi nostri un discorso di tal fatta porterebbe all’incriminazione per oltraggio alla Magistratura. Si potrebbe dire che il quadro è completo e maledettamente attuale…
«Voi siete in unetà nella quale, impazienti dellavvenire, ciascuno se lo figura a sua guisa. Quali sono i vostri sogni? Che cosa desiderate voi?Fare lingegnere? E giusto: ciò deve servire alla vostra vita materiale. Ma e poi? Oltre alla carne vi è in voi lintelligenza, il cuore, la fantasia, che vogliono essere soddisfatte. Oltre lingegnere vi è in voi il cittadino, lo scienziato, lartista. Ciascuno si fa fin dora una vocazione letteraria. Né mi meravigliate. Poiché la Letteratura non è già un fatto artificiale: essa ha sede al di dentro di voi. La Letteratura è il culto della Scienza, lentusiasmo dellArte, lamore di ciò che è nobile, gentile, bello; e vi educa ad operare non solo per il guadagno che ne potete ritrarre, ma per esercitare, per nobilitare la vostra intelligenza, per il trionfo di tutte le idee generose».

Molto tempo è passato da quando concetti come questi potevano essere espressi impunemente in un’aula universitaria. Ci sono state devastanti guerre europee, già si prevede il tramonto dell’idea di nazione, che fu alla base di quelle guerre. I principi fondanti della società sono stati più volte rovesciati, anche in brevi periodi di pochi decenni e la mutevole coscienza dell’Umanità oggi già comincia nuovamente ad avere idee vaghe circa la scelta tra la pace e la guerra, circa i diritti delle genti. L’arte come catarsi oggi non si giustifica e non gode di consenso. L’arte dovrebbe tornare al servizio delle ideologie con le quali si identifica e si fonde. L’arte come contemplazione pura, agnostica, sterilizzata da qualsiasi fede o ideologia, ma in realtà dipendente da una rigida divisione di classe, legata ad una piramidale struttura sociale resa laica al vertice, era l’arte secondo le idee in voga ai tempi del De Sanctis. In breve era: l’arte per l’arte. Quei tempi avevano sancito una serie di divisioni e di categorie: il lavoro che crea ricchezza e denaro ben separato dalla contemplazione dell’arte… E’ in quei tempi che nacque e si consolida la frattura tra uomo di Scienza, un uomo in realtà sempre più legato agli interessi della nascente industria, e l’uomo di lettere, che finì per sentirsi a torto un umanista, mentre della completezza dell’umanista rinascimentale aveva perso una componente essenziale: quella dell’indagine attorno alla realtà fisica. E’ in quel periodo che si creano le basi per l’alienante partizione dell’uomo proprio a causa del moltiplicarsi dei mezzi (le macchine) a sua disposizione. Le parole del De Sanctis si portano dietro una serie ancora viva di contraddizioni, che oggi scontiamo e che non sappiamo come in futuro potranno essere risolte e superate. Eppure… esistono alcuni valori messi in luce dal discorso agli studenti dell’Istituto Politecnico di Zurigo… Il De Sanctis così prosegue: «Questo è ciò chio chiamo vocazione letteraria; e voi mintendete, o giovani, voi ne quali lumanità ogni volta si spoglia delle sue rughe e si ribattezza a vita più bella».

Questa è la frase più felice che abbia trovato in questa prolusione, la frase da cui appare tutto l’amore sincero del De Sanctis per i giovani… In tempi come gli attuali, dove l’oscurità della storia ed il rapido appassire dei ricordi, insieme all’incertezza del futuro, rendono molto più difficile ogni eroismo che, se proprio cercato, voluto e raggiunto, deve essere pagato ad un prezzo sempre più alto.

«Ben so che molti oggi non hanno della letteratura la stessa opinione. Lascio stare coloro che ne fanno una mercanzia e dicono: ‘Poiché in un secolo industriale e commerciale siamo per nostra disgrazia letterati, facciamo bottega delle lettere’; e vendono parole, come altri vende vino e formaggio…  A quello stesso modo che certi sostituiscono oggi la civiltà alla libertà (forse voleva intendere la contrapposizione tra il progresso, il conseguente arricchirsi, e la libertà), soddisfattissimi che loro si promettano strade ferrate e traffici e industrie e qualcosaltro di sottinteso; così alcuni non osano di difendere la letteratura per sé, e la nascondo sotto il nome di cultura. Se raccomandano questi studi, gli è perché dilettano ed ornano lo spirito, compiono labbigliamento, vi fanno ben comparire… No, miei cari. La letteratura non è un ornamento soprapposto alla persona, è il senso intimo che ciascuno ha di ciò che è nobile e bello, che vi fa rifuggire da ogni atto vile e brutto e vi pone innanzi una perfezione ideale, a cui ogni anima ben nata studia per accostarsi».

Ecco chiarito, ai tempi del De Sanctis, il significato della cultura e del completamento dell’io, un completamento che si collocava entro una sfera ben al di sopra dell’apprendere cognizioni tecniche necessarie per svolgere un lavoro o una professione. Una conclusione che non è diversa dai desideri espressi da Bloom. Dopo la lunga prolusione del De Sanctis ecco come si conclude invece un corso di ingegneria con le parole di John Perry. Roberto Vacca, trattando il problema dell’educazione quale elemento fondamentale per una trasformazione della società verso ragionevoli forme di salvezza, cita John Perry che, passato alla storia, pare, per aver organizzato l’insegnamento nei Politecnici giapponesi, parlando agli studenti del Finsbury Technical College al momento di raggiungere il diploma, nel 1889 diceva:

«Alcuni di voi, credo diventeranno eminenti nella matematica dellingegneria. Mi dispiace dire che molti di voi non riusciranno a passare il nostro esame e non riceveranno il diploma. Ora che state per lasciarci, vi posso dire che questa faccenda del diploma non è così importante dopo tutto. Penso che abbiate fatto del vostro meglio ed apprezzo quelli che saranno respinti agli esami quasi quanto quelli che avranno successo. Ho avuta molta esperienza di uomini e so che la corsa non è sempre vinta da chi è apparentemente più veloce. Cè una domanda cruciale che dovete porvi. Vi piace lingegneria meccanica in qualcuno dei suoi aspetti? Vi piace darvi da fare con cose meccaniche? Avete cominciato in questo campo per consiglio dei vostri genitori o proprio perché vi piaceva? Preferireste forse entrare nella carriera ecclesiastica o in una banca, o avete qualche nostalgia per la legge o per la medicina? Se è così questo è il momento di seguire il vostro istinto; non è troppo tardi e la vostra educazione non andrà sprecata. Per quanto buoni siano stati i vostri voti, smettete! Se, invece, vi piace lingegneria meccanica, continuate malgrado ogni bocciatura».

Perry esprime concetti perfettamente coerenti con l’anima americana. La cultura umanistica e quella scientifica e tecnica vengono presentate come se fossero la stessa cosa. Egli sembra aver realizzato allora i desideri e gli obbiettivi, che Bloom coltiverà più di un secolo

dopo come speranze.

 

Il professore Luca Ricolfi recentemente (5) è tornato sul degrado della cultura in Italia a causa del crollo del livello delle nostre scuole, dalle elementari alle università. Ha ripercorso gli stessi temi sollevati da Bloom e come Bloom ha glissato sulle cause più profonde che sono all’origine del crollo. Ricolfi dice, parlando dei giovani:

«Non hanno perso solo la capacità di esprimersi correttamente per iscritto. Hanno perso larte della parola, ovvero la capacità di fare un discorso articolato, comprensibile… Hanno perso la capacità di concentrarsi, di soffrire su un problema difficile. Fanno continuamente errori logici e semantici, perché credono che i concetti siano vaghi e intercambiabili… Banalizzano tutto quello che non riescono a capire».

Questo significa che il corso della nostra civiltà si è interrotto, che diventa impossibile il dialogo tra le generazioni; ciò ha conseguenze gravissime tra cui l’impossibilità di mantenere la difesa militare dell’Occidente. Il vuoto nella cultura umanistica e storica ci porta a fare guerre sbagliate che poi non siamo in grado di combattere. Neppure l’arte si può salvare, anzi il suo clamoroso degrado è la dimostrazione più evidente della nostra decadenza.

 

La Israel Lobby

Che cosa è successo nelle università dopo la pubblicazione del libro di Bloom? Dal libro «La Israel lobby e la politica estera americana», pubblicato venti anni dopo nel 2007, nel capitolo in cui si parla del mondo universitario «Presidiare il mondo accademico», appare una realtà diversa da quella presentata da Bloom, che aveva imputato il regresso della cultura umanistica ai postumi del ‘68, all’invasione del pensiero tedesco e all’ingresso in massa degli studenti di colore. A queste cause si era aggiunta anche la nascente influenza della lobby ebraica a dare il suo contributo, ma di questo Bloom non si era accorto.

Dicono Mearsheimer e Walt:
«Linternazionalizzazione delle università americane negli ultimi trentanni ha fatto affluire negli Stati Uniti studenti e professori nati in altri Paesi, e spesso queste persone assumono, nei confronti della condotta di Israele, posizioni più critiche di quelle condotte dagli americani… la più importante organizzazione a scendere in campo per riconquistare le università fu lAIPAC, la cui attività di monitoraggio dei campus risale almeno agli anni settanta. Quando Israele cominciò ad essere preso di mira, lAIPAC aumentò di oltre tre volte gli stanziamenti previsti per i programmi destinati ai college… Allinizio degli anni ottanta,, lAIPAC reclutò un certo numero di studenti perché contribuissero a identificare i professori e le organizzazioni universitarie che potevano essere considerate anti-israeliane. I risultati furono pubblicati, nel 1984, sul The AIPAC College Guide: Exposing the anti-israelian Campaign on Campus’. Contemporaneamente lADL, che stava compilando una serie di schede su organizzazioni e personaggi considerati sospetti nei confronti di Israele, distribuì clandestinamente un volumetto con informazioni riservate sui simpatizzanti filoarabi attivi nei campus universitariche usano il loro antisionismo per mascherare il loro profondo antisemitismo’. Lo sforzo si intensificò nel settembre del 2002, quando Daniel Pipes creò Campus Watch, un sito internet che conteneva dossier su personalità accademiche sospette e che, mutuando una pagina dal manuale dellAIPAC, incoraggiava gli studenti a riferire commenti o comportamenti che potevano essere considerati ostili a Israele. Questo palese tentativo di creare una lista di proscrizione, e di intimidire gli studiosi, suscitò una vivace reazione, in seguito alla quale Pipes rimosse i dossier. Il sito, comunque, continua a invitare gli studenti dei college americani a riferire circa comportamenti che potrebbero essere ritenuti anti-israeliani. La campagna di Pipes per soffocare le critiche a Israele non si ferna qui. Insieme a Martin Kramer… E a Stanley Kurtz,, Pipes ha cominciato a chiedere al Congresso di tagliare, o almeno di controllare da vicino, il finanziamento che, in base al Titolo VI, il governo federale assegna alle principali università per i programmi di studio sul Medio Oriente. Lo scopo è quello di ridurre al silenzio, o almeno, di inibire i critici di Israele, … La Legge sugli studi internazionali nellistruzione superiore (House Resolution 3077), da loro caldeggiata, avrebbe istituito una commissione nominata dal governo e incaricata di vigilare sulle istituzioni per gli studi internazionali beneficiarie di fondi federale. …Se la legge fosse passata in questa forma, le università intenzionate a ottenere sovvenzioni governative avrebbero ricevuto un chiaro incentivo ad assumere,, elementi favorevoli allattuale politica americana e tuttaltro che critica verso Israele. …La HR 3077 è stata approvata dalla Camera, ma non è mai stata formalmente esaminata dal plenum del Senato… Una legge analoga è stata reintrodotta nel 2005, ed è passata alla Camera con strettissimo margine, ma, ancora una volta, il Senato non le ha dato via libera. …Per contrastare ulteriormente quella che viene percepita come una deriva del mondo accademico in senso anti-israeliano, alcuni filantropi hanno avviato nelle università americane corsi di studio su Israele (in aggiunta ai circa 130 corsi ebraici già esistenti), in modo da aumentare il numero degli studiosi con simpatie israeliane allinterno dei campus… Il desiderio della lobby (ebraica) di presidiare il mondo accademico ha dato vita a numerosi sforzi per mettere sotto pressione gli amministratori o influenzare le scelte del personale. Nellestate del 2002 i gruppi filoisraeliani della University of Chicago dissero che nel campus esisteva unatmosfera di intimidazione e di odio verso gli studenti ebrei’, e deprecarono che la facoltà e lamministrazione non stessero facendo nulla per risolvere il problema. Fu anzi detto che facoltà e amministratori permettono o addirittura incoraggiano questi attacchi’. Colpita da queste affermazioni, lamministrazione raccolse tutte le lamentele degli studenti e avviò le indagini. Solo due accuse si rivelarono fondate: una scritta antisemita nel dormitorio, non rimossa tempestivamente dal personale, e une-mail spedita a una mailing list del dipartimento in cui uno studente raccontava una barzelletta su Auschwitz. Casi deplorevoli, ma non certo prove dellatmosfera di persecuzione e alienazionedescritta da uno studente ebraico della University of Chicago nel 2002. Malgrado ciò, il console di Israele a Chicago e, in seguito, lambasciatore israeliano negli Stati Uniti fecero un sopralluogo alluniversità, con lobbiettivo di costringere il preside e il rettore a migliorare limmagine di Israele allinterno del campus».

 

Le opinioni della gente non si possono stabilire con leggi e imposizioni. Si ottiene come risultato odio e risentimento che non potranno rimanere sempre nascosti. Questi episodi possono accadere in un contesto di degrado culturale che Bloom ha ben descritto nel suo libro. Anzi il degrado culturale è stato il presupposto per poter instaurare il monopolio e lo strapotere ebraico all’interno del pensiero americano.

«I gruppi e gli individui di orientamento filoisraeliano hanno condotto una battaglia su più fronti, contro studenti, professori, amministratori, … nellintento di condizionare il dibattito nei campus. Nel mondo accademico i loro sforzi non hanno ottenuto gli stessi rusultati ottenuti in Campidoglio o con i media… lattività di lobbying in favore di Israele è pienamente legittima… Noi riteniamo che lattuale influenza della lobby non giovi né agli interessi degli Stati Uniti, né a quelli di Israele, ma la maggior parte delle tattiche da essa attuate sono ragionevoli e fanno parte delle normali contese che costituiscono lessenza della politica nelle democrazie. Sfortunatamente, certi soggetti filoisraeliani, …hanno in qualche occasione, spinto la difesa di Israele oltre il limite del lecito, cercando di ridurre al silenzio chi la pensava in modo diverso. Queste sortite comprendono lintimidazione e la calunnia dei critici di Israele e persino il tentativo di danneggiare o distruggere la loro carriera. …tale condotta in una società democratica non ha diritto di cittadinanza». Nessun americano è disposto ad affermare che sono proprio alcuni meccanismi del suo sistema politico lo strumento con cui alcune minoranze ben organizzate possono raggiungere il potere contro una maggioranza contraria o almeno assente.

 

Cinque secoli di coraggio dei parlamentari inglesi

Per varie cause il mondo americano ha perduto la sua anima autentica. Le conseguenze sono molto gravi: gli americani hanno smarrito la capacità di governare se stessi. In questa condizione così precaria la minoranza ebraica, solidamente ancorata alle sue tradizioni ed alla sua cultura, è rimasta quasi immune dal degrado generale ed alla fine ha preso di fatto tutto il potere politico oltre che quello economico. In un certo senso gli ebrei americani si stanno prodigando per sopperire alla mancanza di idee e di forza degli esponenti politici che rappresentano il resto degli americani, quelli non ebrei. Peccato che stiano esagerando e che dopo l’11 settembre abbiano attuato un colpo di Stato. Quando nel 1987 uscì il libro di Bloom in America, ebbe un grande successo. Vendette circa un milione di copie e l’autore ne ricavò fama, soldi e, come abbiamo visto, riscosse molte critiche positive ed alcune negative. Bloom, tra i tanti riferimenti storici non tutti pertinenti, avrebbe dovuto ricordare come gli inglesi arrivarono a conquistare, ancora in pieno Medioevo, la Magna Charta. Per il mondo anglosassone gli aspetti sociali che stanno

dietro questa conquista sono ben più importanti dei riferimenti alla Grecia classica o al pensiero europeo pre-illuminista.

La storia dell’emanazione di questo atto nel 1216 (noto come Magna Charta Libertatum) racconta la conclusione dell’insanabile contrasto tra la monarchia e l’oligarchia baronale, che mirava a condizionare il dispotismo dei Plantageneti. I fatti hanno radici nel Medioevo. Dopo la sconfitta patita in Francia da re Giovanni, i più potenti feudatari del regno, sostenuti dall’arcivescovo di Canterbury, si erano riuniti in armi a Runnymede allo scopo di indurre il re a desistere dalle continue violazioni della legge feudale da lui perpetrate soprattutto mediante estorsioni in danaro. La Magna Charta, redatta in 63 articoli, fu promulgata il 12 novembre 1216 e confermata nel 1217 da Enrico III con una riduzione degli articoli. Nel 1255 il documento fu promulgato nella forma definitiva e sancì quei principi che sono posti a fondamento del diritto pubblico inglese. Nella Magna Charta era affermato il principio

dell’habeas corpus, l’autodeterminazione della Chiesa d’Inghilterra, il divieto di pretendere, da parte del re, alcuna somma di danaro senza il consenso del Consiglio Comune del Regno, il principio che spettasse a un tribunale composto da suoi pari il giudizio su un suddito. Volto originariamente a ripristinare prerogative e diritti di ordine feudale, il documento espresse dei punti qualificanti destinati, nei secoli successivi, a diventare il primo elemento di un sistema costituzionale autenticamente rappresentativo. Dopo secoli di storia si ebbe il trionfo del parlamentarismo britannico. Con la caduta degli Stuart e dei Tory, che ne erano i naturali sostenitori, ci fu anche la caduta della concezione dell’origine divina del potere dei re, dell’ideologia che fungeva ancora da supporto delle altre monarchie europee.

In Gran Bretagna dal 1715 si affermò definitivamente la teoria per cui il potere del re è moderato dal Parlamento, che elegge un premier dotato di ampi poteri. Dal 1200 al 1700 i parlamentari inglesi affrontarono pressioni e intimidazioni di ogni genere, ma rimasero fermi nel sostenere il principio dell’autorità dell’assemblea degli eletti dal popolo. Il potere da allora si sarebbe fondato sul principio di rappresentanza della volontà popolare, non sul prestigio dei singoli. E i singoli erano
«intercambiabili». Non fare eleggere uno di essi, o uccidere un eletto non avrebbe modificato l’atteggiamento degli altri. La forza della democrazia è anche nell’anonimato dei rappresentanti del popolo. Ecco perché muore una democrazia in cui gli eletti sono condizionati dal desiderio ossessivo dei singoli di venire eletti. Non esiste più una democrazia come espressione della volontà popolare, come espressione delle scelte degli elettori, se gli eletti sono condizionati dal controllo sui meccanismi elettorali esercitato da una minoranza organizzata. Bloom non avrebbe dovuto dimenticarlo perché allora in Inghilterra le pressioni violentissime esercitate sui parlamentari non indebolirono la loro volontà di ottenere un documento di salvaguardia contro la rapina fiscale del re e del governo da lui stesso nominato. Egli ricordò i grandi pensatori greci e quelli pre-illuministici, che vivevano dentro sistemi assimilabili ad una democrazia diretta, come ad esempio la Parigi del 1700, una specie di città-Stato, come lo fu Atene, dove il controllo popolare sugli eletti era possibile. Al contrario i parlamentari americani oggi non temono la disapprovazione di chi li ha eletti ma tremano davanti al potere di chi decide i finanziamenti alle loro campagne elettorali, che poi sono rivolte ad un pubblico più sensibile alle apparenze spettacolari delle kermesse elettorali che non alle argomentazioni politiche svolte dai candidati.

La politica spettacolo non è certo la culla della democrazia, tanto più se lo spettacolo è di infima qualità e ha come unico punto di merito essere costoso. Un vero sovvertimento della democrazia era stato già attuato negli anni precedenti dall’AIPAC, che aveva dimostrato di poter pilotare l’elezione dei candidati al Congresso favorevoli ad Israele, ostacolando quelli contrari. La lobby ebraica aveva assunto un ruolo fondamentale nella politica americana, vanificando le idee e le opinioni degli americani. In questo modo la democrazia americana era diventata una farsa. Eppure le lobby negli USA sono perfettamente legali. Ma le crisi sociali e politiche non si risolvono con un libro, anche se riscuote successo di critica e di pubblico, anche se scritto da un ebreo onesto come Bloom.

 

Professor Raffaele Giovanelli




1) Allan Bloom, «La chiusura della mente americana», in Italia uscito nel 1988 per l’editore Frassinelli.

2) John J. Mearsheimer e Stephen M. Walt, «La Israel Lobby e la politica estera americana»,
2007, uscito in Italia lo stesso anno negli Oscar Mondadori.

3) Marina Valensise: «Bellow e Bloom, la storia di una grande amicizia finita in un grandissimo romanzo», dal Foglio di martedì 29 agosto 2000.

4) Raffaele Giovanelli, «La stagione conviviale», 1975, 2° edizione 2002.

5) Luca Ricolfi, «La scuola ha smesso di insegnare», La Stampa, 23 Luglio 2009. «Sulla scuola e luniversità ognuno ha le sue idee, più o meno progressiste, più o meno laiche, più o meno nostalgiche. Cè un limite, però, oltre il quale le ideologie e le convinzioni di ciascuno di noi dovrebbero fermarsi in rispettoso silenzio: quel limite è costituito dalla nuda realtà dei fatti, dalla constatazione del punto cui le cose sono arrivate. Quale che sia lutopia che ciascuno di noi può avere in testa, la realtà comè dovrebbe costituire un punto di partenza condiviso, da accettare o combattere certo, ma che dovremmo sforzarci di vedere per quello che è, anziché ostinarci a travestire con i nostri sogni. Queste cose pensavo in questi giorni, assistendo allennesimo dibattito pubblico su scuola e università, bocciature e cultura del 68, un dibattito dove - nonostante alcune voci fuori dal coro - la nuda realtà stenta a farsi vedere per quella che è. La nuda realtà io la vedo scorrere da decenni nel mio lavoro di docente universitario, la ascolto nei racconti di colleghi e insegnanti, la constato nei giovani che laureiamo… Eppure quella realtà non si può dire, è politicamente scorretta, appena la pronunci suscita un vespaio di proteste indignate, un coro di dotte precisazioni, una rivolta di sensibilità offese. Io vorrei dirla lo stesso, però. La realtà è che la maggior parte dei giovani che escono dalla scuola e dalluniversità è sostanzialmente priva delle più elementari conoscenze e capacità che un tempo scuola e università fornivano. Non hanno perso solo la capacità di esprimersi correttamente per iscritto. Hanno perso larte della parola, ovvero la capacità di fare un discorso articolato, comprensibile… Hanno perso la capacità di concentrarsi, di soffrire su un problema difficile. Fanno continuamente errori logici e semantici, perché credono che i concetti siano vaghi e intercambiabili… Banalizzano tutto quello che non riescono a capire. Sovente incapaci di autovalutazione, esprimono sincero stupore se un docente li mette di fronte alla loro ignoranza. Sono allenati a superare test ed eseguire istruzioni, ma non a padroneggiare una materia, una disciplina, un campo del sapere. Dimenticano in pochissimi anni tutto quello che hanno imparato in ambito matematico-scientifico (e infatti luniversità è costretta a fare corsi di azzeramentoper rispiegare concetti matematici che si apprendono a 12 anni). A un anno da un esame, non ricordano praticamente nulla di quel che sapevano al momento di sostenerlo. Sono convinti che tutto si possa trovare su internet e quasi nulla debba essere conosciuto a memoria (una delle idee più catastrofiche di questi anni, anche perché è la nostra memoria, la nostra organizzazione mentale, il primo serbatoio della creatività). Certo, in mezzo a questa Caporetto cognitiva ci sono anche delle capacità nuove: un ragazzo di oggi, forse proprio perché non è capace di concentrazione, riesce a fare (quasi) contemporaneamente cinque o sei cose. Capisce al volo come far funzionare un nuovo oggetto tecnologico (ma non ha la minima idea di come sia fatto dentro’). Si muove come un dio nel mare magnum della rete (ma spesso non riconosce le bufale, né le informazioni-spazzatura). Usa il bancomat, manda messaggini, sa fare un biglietto elettronico, una prenotazione via internet. Scarica musica e masterizza cd. Gira il mondo, ha estrema facilità nelle relazioni e nella vita di gruppo. Erapido, collega e associa al volo. Impara in fretta, copia e incolla a velocità vertiginosa. Però il punto non è se siano più le capacità perse o quelle acquisite, il punto è se quel che si è perso sia tutto sommato poco importante come tanti pedagogisti ritengono, o sia invece un gravissimo handicap, che pesa

come una zavorra e una condanna sulle giovani generazioni. Io penso che sia un tragico handicap, di cui però non sono certo responsabili i giovani. I giovani possono essere rimproverati soltanto di essersi così facilmente lasciati ingannare (e adulare!) da una generazione di adulti che ha finto di aiutarli, di comprenderli, di amarli, ma che in realtà ha preparato per loro una condizione di dipendenza e, spesso, di infelicità e di disorientamento. La generazione che ha oggi fra 50 e 70 anni ha la responsabilità di aver allevato una generazione di ragazzi cui, nei limiti delle possibilità economiche di ogni famiglia, nulla è stato negato, pochissimo è stato richiesto, nessuna vera frustrazione è mai stata inflitta. Una generazione cui, a forza di generosi aiuti e sostegni di ogni genere e specie, è stato fatto credere di possedere unistruzione, là dove in troppi casi esisteva solo unallegra infarinatura. Ora la realtà presenta il conto. Chi ha avuto una buona istruzione spesso (non sempre) ce la fa, chi non lha avuta ce la fa solo se figlio di genitori ricchi, potenti o ben introdotti. Per tutti gli altri si aprono solo due strade: accettare i lavori, per lo più manuali, che oggi attirano solo gli immigrati, o iniziare un lungo percorso di lavoretti non manuali ma precari, sotto lombrello protettivo di quegli stessi genitori che per decenni hanno festeggiato la fine della scuola di élite.

Un vero paradosso della storia. Partita con lidea di includere le masse fino allora escluse dallistruzione, la generazione del 68 ha dato scacco matto proprio a coloro che diceva di voler aiutare. Già, perché la scuola facile si è ritorta innanzitutto contro coloro cui doveva servire: un sottile razzismo di classe deve avere fatto pensare a tanti intellettuali e politici che le masse popolarinon fossero allaltezza di una formazione vera, senza rendersi conto che la scuola senza qualità che i loro pregiudizi hanno contribuito ad edificare avrebbe punito innanzitutto i più deboli, coloro per i quali una scuola che fa sul serio è una delle poche chance di promozione sociale».