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Da Clemente I all’idiozia contemporanea
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Intraprendiamo un breve viaggio tra alcuni documenti molto importanti della storia occidentale che ci permettono di capire se stiamo procedendo sul binario giusto ora che viviamo nel XXI secolo.

E’ difficile immaginare quale fosse lo stato d’animo con cui i cinquantacinque delegati appartenenti alla convenzione per modificare gli articoli della Confederazione si riunirono nel maggio del 1787 a Philadelphia. Quasi sicuramente nessuno si sarebbe immaginato che la Costituzione, legge suprema degli Stati Uniti d’America, potesse esserne il risvolto finale. Il 29 maggio di quello stesso anno George Washington diede inizio ai lavori che sarebbero stati fatti nello stile degno di un conclave, ovvero nel più alto livello di segretezza, con tanto di porte chiuse e finestre coperte. Quando il governatore Randolph della Virginia spiegò la sua proposta divenne chiaro che semplici modifiche agli articoli non sarebbero state sufficienti.

Dopo un periodo di discussione la convenzione si ritrovò con due piani d’azione, conosciuti come Virginia Plan e New Jersey Plan, i quali proponevano diversi metodi di rappresentanza parlamentare. In breve il Virginia Plan prevedeva un sistema bicamerale in cui il numero di rappresentanti per ogni Stato si sarebbe basato sulla dimensione della popolazione di ognuno dei vari Stati, mentre il New Jersey Plan prevedeva una rappresentanza uguale per tutti gli Stati. Miracolosamente, i delegati trovarono un compromesso, chiamato Great Compromise, altrimenti detto Connecticut Compromise, che in un modo o nell’altro soddisfò entrambi i punti di vista e divenne il disegno che adesso è a base del governo federale americano.

Gli animi furono sicuramente bollenti e ancor più bollenti dovettero diventarlo quando si decise di discutere chi fosse da considerare popolazione. Altri due compromessi, relativamente poco conosciuti, vennero stipulati.

La Costituzione Americana stabilisce che: «I rappresentanti saranno ripartiti - valido il principio anche per le imposte dirette - fra i diversi Stati che facciano parte dell’Unione in rapporto al numero rispettivo degli abitanti, da computarsi aggiungendo al totale delle persone libere - comprese quelle vincolate da un contratto a termine, ed esclusi gli indiani non soggetti a imposte - e tre quinti del resto della popolazione». (Articolo 1, Sezione 2).

In poche parole, la Costituzione americana stipulata dalla Convenzione era chiara nel differenziare uomini liberi (che contavano per uno) e uomini-non-liberi (che contavano per tre quinti ed erano, ovviamente, gli schiavi).

Il successivo compromesso invece riguardava la tratta degli schiavi: «L’immigrazione o l’importazione di quelle persone, che ciascuno degli Stati attualmente esistenti ritenga opportuno ammettere, non sarà vietata dal Congresso prima dell’anno 1808; ma, per ogni persona importata si potrà mettere una tassa o un dazio, non superiore ai dieci dollari» (Articolo 1, Sezione 9).

E’ chiaro che la Costituzione americana è leggermente diversa rispetto a quel che si può immaginare sentendo i vari commentatori in quanto non solo distingue in categorie di uomini, non solo un tipo di uomo vale meno di un altro, ma addirittura proibiva al Congresso il potere di vietare lo schiavismo per almeno vent’anni. Va altresì detto che i delegati si posero anche il problema della dignità e del diritto politico degli schiavi e quindi si proposero di risolverlo seppur con dubbio successo.

Facciamo un salto in avanti nel tempo e dirigiamoci in altro luogo, cioè Roma nel dicembre dell’anno 1839. La lettera apostolica «In Supremo quibus Servitus et commercium indorum et Nigritarum reprobantur» in cui Gregorio XVI (1831-1846) mostra chiaramente che il problema della tratta degli schiavi era un fatto importante.

In essa si possono leggere alcuni punti interessanti: «Gli apostoli, ispirati dallo Spirito di Dio, insegnavano agli schiavi a obbedire ai padroni carnali come a Cristo, e a compiere volentieri la volontà di Dio, ma imponevano ai padroni di agire umanamente verso gli schiavi per dar loro quello che era giusto ed equo, e di non esercitare minacce, sapendo che nei cieli c’è un Padrone comune di loro e di quelli, e che presso Dio non c’è distinzione di persone». Gregorio XVI si spinge in più là ripetendo quello che Papa Clemente I (92-99) scrisse nella sua epistola ai corinzi cioè che «Molti [tra noi] si offrirono alle catene per liberare gli altri; molti si offrirono alla schiavitù e con il prezzo ricavato davano da mangiare agli altri».

La lettera apostolica, quindi, condanna l’illecito scambio di negri come schiavi tanto più se vengono attirati al lavoro con menzogne e senza retribuzione.

Rimanendo a Roma, ma spostandoci di qualche anno e più precisamente al 1891, possiamo cominciare la lettura della prima enciclica sociale, ovvero la famosa «Rerum Novarum» di Leone XIII: «Questi sono i doveri dei capitalisti e dei padroni: non tenere gli operai schiavi; rispettare in essi la dignità della persona umana, nobilitata dal carattere cristiano», «viene similmente comandato che nei proletari si deve aver riguardo alla religione e ai beni dell’anima. E’ obbligo perciò dei padroni lasciare all’operaio comodità e tempo che bastino a compiere i doveri religiosi» ma «A nessuno è lecito violare impunemente la dignità dell’uomo, di cui Dio stesso dispone con grande riverenza, né attraversargli la via a quel perfezionamento che è ordinato all’acquisto della vita eterna» poichè  «Quello che veramente è indegno dell’uomo è di abusarne come di cosa a scopo di guadagno, né stimarlo più di quello che valgono i suoi nervi e le sue forze».

Si deduce, quindi, che al lungimirante Leone XIII (1878-1903) preme spingere nella direzione della dignità umana nel lavoro, sottolineando come siano importanti i valori morali sia del datore di lavoro che del lavoratore in modo da poter costruire un sistema lavorativo veramente cristiano, ricollegandosi quindi al significato della crescita spirituale di coloro che si facevano volontariamente schiavi ai tempi di Clemente I.

Facendo vari salti in avanti si arriva quindi alla «Quadragesimo Anno» (1931), e alla «Divini Redemptoris» (1937) di Pio XI (1922-1939), ed alla «Mater et Magistra» (1961) e alla «Pacem in Terris» (1963) di Giovanni XXIII (1958-1963). In esse vengono ribaditi ed estesi i concetti previamente esposti: «Il lavoro, come spiega egregiamente il Nostro Predecessore nella sua enciclica (Rerum novarum), non sia una vile merce, anzi vi si debba riconoscere la dignità umana dell’operaio e quindi non sia da mercanteggiare come una merce qualsiasi» poichè «se consideriamo i fatti con occhio cristiano, com’è dovere, che cosa sono tutti questi mali [sociali ndr] in paragone della rovina delle anime? Eppure si può dire senza temerità essere tale oggi l’andamento della vita sociale ed economica, che un numero grandissimo di persone trova le difficoltà più gravi nell’attendere quell’uno necessario all’opera capitale fra tutte, quella della propria salute eterna». «Dobbiamo inoltre ricordare che l’adeguamento tra rimunerazione del lavoro e del reddito va attuato in armonia alle esigenze del bene comune tanto della propria comunità politica quanto della intera famiglia umana» perciò «Se le strutture, il funzionamento, gli ambienti d’un sistema economico sono tali da compromettere la dignità umana di quanti vi esplicano le proprie attività, o da ottundere in essi sistematicamente il senso della responsabilità, o da costituire un impedimento a che comunque si esprima la loro iniziativa personale, un siffatto sistema economico è ingiusto, anche se, per ipotesi, la ricchezza in esso prodotta attinga quote elevate e venga distribuita secondo criteri di giustizia e di equità».

Secondo Giovanni XXIII infatti «Un lavoro va concepito e vissuto come una vocazione e come una missione; come una risposta cioè ad un invito di Dio a contribuire all’attuazione del suo piano provvidenziale nella storia; e come un impegno di bene ad elevazione di se stessi e degli altri e un apporto all’incivilimento umano». Anche per questa ragione «Religione, morale e igiene convergono verso la legge del riposo periodico, che la Chiesa da secoli traduce nella santificazione della domenica, con la partecipazione al santo sacrificio della Messa, memoriale e applicazione dell’opera redentrice di Cristo nelle anime».

Costringendo il Pontefice a «constatare e deplorare la negligenza, se non proprio il disprezzo, di questa legge santa, con conseguenze deleterie per la salute dell’anima e del corpo dei cari lavoratori» dichiarando «in nome di Dio e per l’interesse materiale e spirituale degli uomini noi richiamiamo tutti, autorità, impresari e lavoratori, all’osservanza del precetto di Dio e della sua Chiesa ricordando a ciascuno la sua grave responsabilità davanti al Signore e davanti alla società».

Si arriva quindi alla prima enciclica sociale successiva al Concilio Vaticano II, la «Popolorum Progressio» (1967) di Paolo VI (1963-1978). Il Papa dopo aver ribadito alcuni dei concetti espressi da Giovanni XXIII riguardo la dignità umana abbraccia la famiglia con il discorso sociale della Chiesa: «L’uomo non è se stesso che nel suo ambiente sociale, nel quale a famiglia gioca un ruolo primordiale. Ruolo che, secondo i tempi e i luoghi, ha potuto anche essere eccessivo, quando si è esercitato a scapito di libertà fondamentali della persona. Spesso troppo rigide e male organizzate, le vecchie strutture sociali dei Paesi in via di sviluppo sono tuttavia necessarie ancora per un certo tempo, pur in un processo di progressivo allentamento del loro dominio esagerato. Ma la famiglia naturale, monogamica e stabile, quale è stata concepita nel disegno divino e santificata dal cristianesimo, deve restare luogo d’incontro di più generazioni che si aiutano vicendevolmente ad acquistare una saggezza più grande e ad armonizzare i diritti delle persone con le altre esigenze della vita sociale».

Papa Montini tocca similmente l’argomento della famiglia ovviamente nella «Humanae Vitae» (1968) in cui viene ricordato che gli sposi sono «responsabili collaboratori di Dio creatore» avvertendoci di «non sminuire in nulla la salutare dottrina di Cristo, è eminente forma di carità verso le anime».

Dalla «Laborem Excercens» (1981) scritta da Giovanni Paolo II (1978-2005) per il novantesimo anniversario dalla «Rerum Novarum» non ci si può aspettare un messaggio diverso rispetto ai testi precedenti e difatti il Papa polacco sottolinea la relazione tra il mondo professionale e la famiglia visto che «Il lavoro è il fondamento su cui si forma la vita familiare, la quale è un diritto naturale ed una vocazione dell’uomo».

Giovanni Paolo II non può quindi esimersi dall’indicarci che «Lavoro e laboriosità condizionano anche tutto il processo di educazione nella famiglia, proprio per la ragione che ognuno ‘diventa uomo’, fra l’altro, mediante il lavoro, e quel diventare uomo esprime appunto lo scopo principale di tutto il processo educativo».

Giovanni Paolo II spiega come la «società - anche quando non ha ancora assunto la forma matura di una nazione - è non soltanto la grande ‘educatrice’ di ogni uomo, benché indiretta (perché ognuno assume nella famiglia i contenuti e valori che compongono, nel suo insieme, la cultura di una data nazione), ma è anche una grande incarnazione storica e sociale del lavoro di tutte le generazioni. Tutto questo fa sì che l’uomo unisca la sua più profonda identità umana con l’appartenenza alla nazione, ed intenda il suo lavoro anche come incremento del bene comune elaborato insieme con i suoi compatrioti, rendendosi così conto che per questa via il lavoro serve a moltiplicare il patrimonio di tutta la famiglia umana, di tutti gli uomini viventi nel mondo».

Nella «Sollicitudo rei socialis» (1987) il Papa non manca di dirci che «Per essere tale, lo sviluppo deve realizzarsi nel quadro della solidarietà e della libertà, senza sacrificare mai l’una e l’altra per nessun pretesto. Il carattere morale dello sviluppo e la sua necessaria promozione sono esaltati quando c’è il più rigoroso rispetto di tutte le esigenze derivanti dall’ordine della verità e del bene, propri della creatura umana. Il cristiano, inoltre, educato a vedere nell’uomo l’immagine di Dio, chiamato alla partecipazione della verità e del bene, che è Dio stesso, non comprende l’impegno per lo sviluppo e la sua attuazione fuori dell’osservanza e del rispetto della dignità unica di questa ‘immagine’. In altre parole, il vero sviluppo deve fondarsi sull’amore di Dio e del prossimo, e contribuire a favorire i rapporti tra individui e società» poichè, riferendoci al significato della «Populorum Progressio», la «è negativa la semplice accumulazione di ricchezza e la maggiore disponibilità dei beni e servizi se si ottiene a prezzo del sottosviluppo delle moltitudini, e senza la dovuta considerazione per le dimensioni sociali, culturali e spirituali dell’essere umano».

Nella «Centesimus Annus» (1991), scritta per il centenario dalla «Rerum Novarum», Giovanni Paolo II ci ripete che bisogna «costruire nel lavoro solidale una vita più degna, di far crescere effettivamente la dignità e la creatività di ogni singola persona, la sua capacità di rispondere alla propria vocazione e, dunque, all’appello di Dio, in essa contenuto. Al culmine dello sviluppo sta l’esercizio del diritto-dovere di cercare Dio, di conoscerlo e di vivere secondo tale conoscenza». Anche per questa ragione il consumismo si trasforma in un nuovo problema sociale «nel modo in cui insorgono e sono definiti i nuovi bisogni, è sempre operante una concezione più o meno adeguata dell’uomo e del suo vero bene: attraverso le scelte di produzione e di consumo si manifesta una determinata cultura, come concezione globale della vita. E’ qui che sorge il fenomeno del consumismo. Individuando nuovi bisogni e nuove modalità per il loro soddisfacimento, è necessario lasciarsi guidare da un’immagine integrale dell’uomo, che rispetti tutte le dimensioni del suo essere e subordini quelle materiali e istintive a quelle interiori e spirituali».

Il consumismo può quindi portare a situazioni drammatiche ed «un esempio vistoso di consumo artificiale, contrario alla salute e alla dignità dell’uomo e certo non facile a controllare, è quello della droga. La sua diffusione è indice di una grave disfunzione del sistema sociale e sottintende anch’essa una ‘lettura’ materialistica e, in un certo senso, distruttiva dei bisogni umani. Così la capacità innovativa dell’economia libera finisce con l’attuarsi in modo unilaterale ed inadeguato. La droga come anche la pornografia ed altre forme di consumismo, sfruttando la fragilità dei deboli, tentano di riempire il vuoto spirituale che si è venuto a creare».

Si arriva, quindi, all’ultima enciclica sociale, la «Caritas in Veritate« (2009) di Benedetto XVI (2005-Regnante). Il Papa ci riferisce subito che «la carità nella verità, di cui Gesù Cristo s’è fatto testimone con la sua vita terrena e, soprattutto, con la sua morte e risurrezione, è la principale forza propulsiva per il vero sviluppo di ogni persona e dell’umanità intera» e fotografando la situazione ci dice di essere «consapevole degli sviamenti e degli svuotamenti di senso a cui la carità è andata e va incontro, con il conseguente rischio di fraintenderla, di estrometterla dal vissuto etico e, in ogni caso, di impedirne la corretta valorizzazione. In ambito sociale, giuridico, culturale, politico, economico, ossia nei contesti più esposti a tale pericolo, ne viene dichiarata facilmente l’irrilevanza a interpretare e a dirigere le responsabilità morali». Se così è «diventa così una necessità sociale, e perfino economica, proporre ancora alle nuove generazioni la bellezza della famiglia e del matrimonio, la rispondenza di tali istituzioni alle esigenze più profonde del cuore e della dignità della persona. In questa prospettiva, gli Stati sono chiamati a varare politiche che promuovano la centralità e l’integrità della famiglia, fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna, prima e vitale cellula della società,  facendosi carico anche dei suoi problemi economici e fiscali, nel rispetto della sua natura relazionale».

Papa Ratzinger si spinge persino a trovare brillantemente non solo una correlazione tra economia, società ed etica ma addirittura aggiunge anche scienza, ambiente naturale e rispetto umano visto che «per salvaguardare la natura non è sufficiente intervenire con incentivi o disincentivi economici e nemmeno basta un’istruzione adeguata. Sono, questi, strumenti importanti, ma il problema decisivo è la complessiva tenuta morale della società. Se non si rispetta il diritto alla vita e alla morte naturale, se si rende artificiale il concepimento, la gestazione e la nascita dell’uomo, se si sacrificano embrioni umani alla ricerca, la coscienza comune finisce per perdere il concetto di ecologia umana e, con esso, quello di ecologia ambientale. E’ una contraddizione chiedere alle nuove generazioni il rispetto dell’ambiente naturale, quando l’educazione e le leggi non le aiutano a rispettare se stesse. Il libro della natura è uno e indivisibile, sul versante dell’ambiente come sul versante della vita, della sessualità, del matrimonio, della famiglia, delle relazioni sociali, in una parola dello sviluppo umano integrale. I doveri che abbiamo verso l’ambiente si collegano con i doveri che abbiamo verso la persona considerata in se stessa e in relazione con gli altri. Non si possono esigere gli uni e conculcare gli altri. Questa è una grave antinomia della mentalità e della prassi odierna, che avvilisce la persona, sconvolge l’ambiente e danneggia la società».

Arrivati alla fine di questo viaggio documentativo, sicuramente semplificazione dei problemi in questione, cominciato con il documento di Clemente nel I secolo dopo Cristo si possono trarre delle conclusioni interessanti.

Innanzitutto si può vedere che il problema della dignità umana non è cosa moderna e soprattutto non è un problema post-illuminista poichè la gestione degli schiavi, successivamente superata diventando gestione del mondo operaio, è stato trattato per un tempo millenario con un concetto di fondo onnipresente, cioè la crescita spirituale dei lavoratori e dei padroni attraverso la famiglia ed il lavoro. Si può anche vedere come il problema nei millenni sia stato codificato soprattutto nel rapporto tra il singolo uomo e la società e il rapporto che quest’ultima ha con le varie relazioni interpersonali di ogni persona, a partire dalla famiglia, senza la quale non vi sarebbe una vera società con la chiara conclusione che le leggi degli Stati e l’educazione delle famiglie sono da considerarsi veicoli che portano alla salvezza dell’anima di chiunque e quindi non possono prescindere in nessun istante della loro esistenza da valori etici. Di conseguenza la non piena considerazione della dignità umana e del lavoro umano rende necessario trovare compromessi che portano a soluzioni a dir poco incerte e che necessitano di un bilanciamento o addirittura una subordinazione dell’uomo rispetto all’economia e alla politica, come nel caso della Costituzione americana in cui, pur essendo vero che si tratta di una società secolare che cominciò a porsi domande proprio su quanto un lavoratore manuale fino ad allora considerato proprietà fosse in realtà degno di almeno un minimo riconoscimento (3/5 di uomo), si decise di non danneggiare il mercato di qualche Stato in questione.

Il messaggio dei Pontefici è invece chiaro e viene esteso di volta in volta: la vita spirituale dell’uomo è al centro di qualsiasi società e senza di essa non può esservi progresso. Allo stesso modo i mezzi utilizzati dagli uomini non possono far altro che servire l’uomo nella salvezza dell’anima e proprio per questo è necessario, quando si fanno attività umane, considerare l’uomo nella sua natura.

Con queste premesse ci si potrebbe immaginare una civiltà avanzata, per quanto non perfetta, i cui valori etici sono trasmessi in ogni mezzo di comunicazione ed in ogni famiglia in quanto fondamentali per la perfetta armonia del genere umano. In poche parole, potremmo credere che la maggior consapevolezza su alcuni temi fondamentali sia stata corrisposta da una eguale crescita dell’esperienza sociale e spirituale dell’umanità.

Purtroppo bisogna ammettere che se un marziano decidesse di passare le sue vacanze sulla Terra scoprirebbe che le sue aspettative sono piuttosto sbagliate. Oltre alle ‘grandi questioni’ di difficile risoluzione, come per esempio le guerre, l’aborto o la rimozione indegna di crocifissi, l’attenzione di ognuno di noi dovrebbe essere forse riversata verso quel male strisciante che è lo stato-di-mente del mondo occidentale nelle piccole cose che in realtà, come osservato in tutti i testi precedenti, condizionano l’intero sistema umano, a partire dai valori della famiglia.

Per esempio non bisogna fallire nel vedere la tragicità di certe notizie che vengono diffuse quasi come se fossero cose positive o, ancor peggio, veri e propri modelli. Esempi se ne possono trovare un po’ ovunque ma uno di maligna semplicità è un articolo apparentemente innocuo scritto da Lindsay Wilcox per NBC. Quasi trionfale, il titolo è «More men seeking plastic surgery», ovvero «Più uomini desiderano la chirurgia plastica». Quello che affascina, se così si può dire, dell’articolo è che la ragione di tanto desiderio di modificarsi chirurgicamente non è tanto il solito narcisismo a cui ormai siamo abituati, ma bensì... la ricerca di un posto di lavoro.

L’articolo comincia con una semplicità atroce, quasi a dirci che è una soluzione ovvia per i disoccupati: «As the workforce has grown more and more competitive, plastic surgeons say they’re seeing an increase in the number of men coming to them» ovvero «Mentre il mondo del lavoro è diventato sempre più competitivo, i chirurghi plastici dicono di vedere un aumento nel numero di uomini che si affidano a loro».

La signora Wilcox ci narra inoltre la storia di un uomo di cinquantatre anni che ha fatto qualche iniezione di Botox e un certo numero di liposuzioni per poter tenere il lavoro o come si dice adesso «esser più competitivo». Insomma, invece di andare a studiare - come si fa solitamente in America quando si perde lavoro - certi uomini hanno avuto la bella idea di trovare la scorciatoia attraverso una strada letteralmente di plastica. C’è da chiedersi se tali persone - dalla giornalista, al chirurgo, al paziente - si rendono conto di quale messaggio stanno dando con vanto alla società, ai loro amici e alla loro famiglia. L’investimento - perchè le procedure estetiche non sono gratis soprattutto negli USA - non è più quindi studiare o imparare una professione facendo la gavetta ma la plastificazione della propria persona. Un auto-schiavismo di plastica che farebbe rabbrividire San Josemaria Escrivà e rende impossibile persino il dire «vanitas vanitatum et omnia vanitas».

Ancor più disgusto si può provare se si pensa a cosa avviene nella terra di Leonardo, di Dante, di Manzoni e di Vivaldi. Programmi televisivi come il Grande Fratello arrivano alla decima edizione e, da esperimenti di copulazione televisiva, presentano modelli quali un paio di transessuali e alcuni ignoranti che non fanno altro che starsene in una casa a fare quel che meglio sanno (niente?); ancor più incredibile è il fatto che i partecipanti una volta usciti dalla «casa-set» (ricordiamoci: è un set televisivo, non una casa) riscuotono un certo successo. E’ difficile immaginare quali siano le conseguenze di un concetto sociale distruttivo molto piccolo ma seguito settimanalmente da milioni di persone e ribadito di volta in volta da altri show, con anche personaggi famosi su varie isole, categorizzati con la parola «reality» malgrado la realtà sia veramente vissuta da tutti con la televisione spenta.

Come sappiamo, la civiltà occidentale è ricca in confronto al resto del mondo e quindi ci si potrebbe logicamente convincere che grazie al surplus materiale vi sia un’ effettiva inesistenza della subordinazione della persona rispetto all’oggetto. Ovviamente le aspettative sono ancora una volta deluse. Bisogna vedere con dolore la notizia di Michael Brewer, un ragazzino di quindici anni, a cui cinque suoi amichetti - tutti minorenni - hanno dato fuoco a causa di un gioco per una Playstation. Il povero Michael se l’è cavata con oltre il sessanta per cento del suo corpo ustionato e si è salvato solo grazie alla sua disperata corsa, in fiamme, in una piscina vicino casa. Con ancor più dolore si vedrebbe l’atteggiamento di quei ragazzi affaticati a spendere in amenità diventando poi grandi risparmiatori quando si tratta di essere uomini come nel momento in cui bisogna creare una famiglia («è costosa»). Di nuovo, l’oggetto sopra la persona sia in maniera attiva che passiva.

Insomma, se ci guardassimo bene intorno noteremmo come i problemi degli esseri umani - anche se esaminati da figure pubbliche, anche se studiati per anni, anche se sono finiti in compromessi - vengono in realtà fatti strisciare senza pietà all’interno del focolare domestico grazie alle cose più insospettabili e apparentemente innocue. Noteremmo anche che tante cose che vengono ritenute «ovvie» sono in realtà «male». Vedremmo che purtroppo imitiamo troppo spesso tante di queste cose «ovvie» e che ci automodelliamo seguendo certe persone e certe mode che in realtà sono dannosissime. Ancor peggio, molte persone si auto-infliggono queste cose rinunziando alla propria dignità rendendo impossibile persino compromessi come quello del «tre quinti» del modello americano.

Forse, dovremmo cominciare anche noi ad avvisare chi ci è più vicino - come hanno fatto i Papi per duemila anni - del fatto che stiamo diventando schiavi attraverso la pessima imitazione poichè il male, anche se preso in «piccole» dosi, è sempre da considerarsi come «troppo male».

«Carissime, noli imitari malum, sed quod bonum est. Qui benefacit, ex Deo est; qui malefacit, non vidit Deum».

Enrico ed Eloisa Accenti
(Texas)



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