Il sionismo: trionfo apparente e fine reale di Israele
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Prologo

E’ uscito nel 2005, tradotto dall’originale in lingua inglese (2004), un interessante libro, anche se non condivisibile in toto, di Yakov M. Rabkin (1), professore al Dipartimento di Storia dell’Università di Montreal, visiting scholar alla Yale University ed anche a Tel Aviv.

Una delle sorprese che ci riserva il professore canadese di origine russo-israelita, e quindi non accusabile di anti-«scemitismo», è quella secondo cui «tra i sostenitori incondizionati di Israele ci sono più ‘cristiani’ che ebrei» (2). Secondo «il predicatore ‘evangelista’ Jerry Falwell (…), la fondazione dello Stato di Israele nel 1948 è ‘la prova che il ritorno di Gesù Cristo è vicino’ » (3).

Tale idea è portata avanti non solo dagli ebrei sionisti, ma soprattutto dai «cristiani evangelisti» (4) e - aggiungo io - dai «catto/modernisti» a partire dal Concilio «Economico» (5) Vaticano II e la Dichiarazione Nostra aetate del 1965 sino ai giorni nostri. Infatti, il «17» (6) gennaio 2010, abbiamo sentito il coro del Tempio Maggiore ebraico romano cantare davanti a Benedetto XVI «Aspettiamo il Messia».

Ma, per noi cattolici-romani Gesù è il Messia ed è venuto 2010 anni or sono, ha fondato una Chiesa su Pietro e i suoi successori, i Papi, che sono i suoi «Vicari» in terra. Ora, come mai davanti al Vicario del Messia venuto si canta «Aspettiamo il Messia» venturo? Forse, noi cattolici romani siamo troppo antiquati per poter capire che c’è stato un «aggiornamento» in chiave pastorale a-dogmatica? In realtà questo è l’inveramento di quanto dicevano Domenico Giuliotti: «roba da far impallidire l’inferno» e padre Pio: «certi uomini son peggiori del diavolo». Se fossero stupidi o pazzi, non avrebbero colpa, ma sono diabolicamente intelligenti e furbi, onde sono inescusabili. Per fortuna qualche vescovo cattolico si sta svegliando; è famoso il caso di monsignor Tadeusz Pironek, ex Segretario della Conferenza Episcopale Polacca, il quale ha dichiarato: «Gli Israeliani non rispettano i diritti umani dei palestinesi. La shoah non è solo ebraica, ma riguarda cattolici e polacchi. L’olocausto in quanto tale è una invenzione degli ebrei» (Pontifex, 25 gennaio 2010, pagina 2 e Corriere della Sera, 26 gennaio 2010, pagina 17).

Hanno fatto seguito monsignor Simone Statizzi, vescovo emerito di Pistoia, monsignor Ennio Appignanesi, arcivescovo emerito di Potenza, monsignor Vincenzo Franco, vescovo emerito di Otranto, monsignor Felice Leonardo, vescovo emerito di Telese, con dichiarazioni «teologicamente scorrette» a tutto campo (vedi Sì sì no no, 15 febbraio 2010, pagine 6-8). In campo laico, il professor Antonio Caracciolo, che era stato minacciato di espulsione dall’Università La Sapienza di Roma ove insegna, per aver espresso il desiderio di «ricercare» la verità storica sulla reale entità della shoah, essendo egli un «ricercatore» di professione e stipendiato per questo, non si è lasciato intimorire, ma è passato al contrattacco ed è stato prosciolto con formula piena nel procedimento disciplinare, che il suo rettore aveva voluto demandare al Collegio di Disciplina del Consiglio Universitario Nazionale, il quale ha svolto i suoi lavori e si è pronunciato il 13 gennaio 2010. In via eccezionale, era presente il rettore stesso, il quale letta la memoria difensiva del professor Caracciolo ed ascoltati i suoi tre legali, ha deciso di ritirare qualsiasi richiesta di sanzione (7). Valga da esempio soprattutto a noi «ecclesiastici».

Nel suo libro Rabkin spiega che l’opposizione al sionismo e allo Stato d’Israele è espressa dai rabbini ortodossi e dagli ebrei religiosi (8) e da quelli liberali in nome della Torah e in nome del pacifismo o difesa dei diritti umani, in specie dei palestinesi. Invece tra noi goyjm si equipara antisionismo ad antisemitismo. Forse questo zelo intempestivo dei Gentili nei confronti del sionismo è la prova del nove di una barzelletta di tradizione hassidica raccontata anche da Moni Ovadia: «Lo sai perché gli ebrei son tutti intelligenti? Perché gli stupidi li battezzano!». Essa è una prova del nove della validità teoretica dell’anti-«scemitismo» di cui abbiamo già scritto.

L’attualità del libro di Rabkin oltrepassa la querelle tra ebrei religiosi, liberal/pacifisti e nazional/sionisti, per mostrare «quanto grave sia la posta in gioco per linsieme del popolo ebraico, ancor più oggi che lo Stato sionista cerca di imporre la propria egemonia politica e militare sulla regione, configurando una minaccia per gli ebrei ancor più fondamentale dell’ostilità araba e palestinese» (9) e - oserei dire - di quella germanica del 1942-45.

Lettura «ebraica non-sionista» della shoah

La shoah è vista dagli ebrei religiosi come una sorta di ripetizione della distruzione di Gerusalemme e del suo Tempio da parte di Tito (10). Per gli ebrei religiosi e a-sionisti la causa di tale «catastrofe» (traduzione esatta di «shoah», che non significa «olocausto»), così come di altre è stata l’infedeltà a Dio da parte del popolo ebraico: nel 70 e 135 distruzione del Tempio, di Gerusalemme da parte di Tito e della Giudea da parte di Adriano; nel 1492 espulsione degli ebrei dalla Spagna; nel 1942-45 la «shoah» degli ebrei dell’Europa nord-orientale dopo la dichiarazione di guerra del giudaismo sionista al III Reich germanico nel 1933. Anche il gran rabbino sefardita di Gerusalemme, Ovàdia Yosèf, ha dichiarato: «Le vittime della shoah sono le anime dei peccatori askenaziti reincarnate e castigate dai Tedeschi» (La Stampa, 7 agosto 2000, pagina 11). Egli, infatti, è un noto cabalista e crede cabalisticamente alla reincarnazione delle anime. Sempre La Stampa di Torino nel medesimo articolo commenta: «Oltre a rendere i nazisti strumento divino, Yosèf avalla il concetto della responsabilità degli ebrei nella propria persecuzione».

Interviene anche il gran rabbino askenazita di Gerusalemme, Meir Lau, (intervistato sul medesimo quotidiano, lo stesso giorno, nell’articolo succitato) e, pur non entrando, in una disputa teologica anti-cabalistico/sefardita sulla reincarnazione, afferma: «Il concetto sefardita nelle sue conclusioni è simile a quello che usava la Chiesa quando sosteneva che gli ebrei erano destinati a espiare il Deicidio». Due giorni dopo, il 9 agosto del 2000, il rabbino capo di Torino Alberto Somèk, sefardita, rilascia una lunga ed autorevole intervista a La Stampa (pagina 21), in cui spiega che «Le dichiarazioni di Ovàdia Yosèf lungi dall’aver legami con la politica mediorientale, riflettono un dibattito tutto interno allebraismo come religione. Sul piano teologico la reincarnazione ha solide basi (Talmud di Babilonia, Kiddushin 72a) soprattutto dopo l’espulsione degli ebrei dalla Spagna. Le parole di Yosèf suscitano scandalo perché attaccano una teologia alternativa: ‘Il silenzio di Dio’, che porta alla negazione della sua onnipotenza o anche della sua esistenza, la quale riprende le teorie filosofiche moderne e laiciste della ‘Morte di Dio’.

Rav Yosèf vuol gettare le basi teologicamente ortodosse della shoah simile alla distruzione del Tempio e all’espulsione dalla Spagna». Il 15 agosto è la volta del rabbino sefardita Sholòmo Benzìri, il quale asserisce: «Durante l’olocausto i pionieri sionisti (askenaziti) si interessavano più alle proprie vacche che non al salvataggio delle comunità ebraiche ortodosse in Europa. I padri del sionismo le abbandonarono al proprio destino. Commisero un crimine imperdonabile» (La Stampa, pagina 1). Sarebbe interessante (ed anche logico e coerente) se gli ebrei sefarditi accusassero gli askenaziti di «crimini contro l’umanità» e li portassero ad una «Norimberga-bis».

La Germania aggredita dal sionismo

L’autore confessa onestamente che è stata per prima «l’ala più combattiva del sionismo a tenere un discorso aggressivo nei confronti del nuovo (1933) governo tedesco. Jabotinsky agisce come se fosse il comandante supremo delle forze armate ebraiche. Egli attacca la Germania dalla radio ufficiale polacca» (11) e il «Daily Express» del 24 marzo 1933 in prima pagina intitola: «Judea declares war on Germany. Jews of all the world unite in action. Boycott of german goods». Hitler era appena andato al potere (gennaio 1933). Lo stesso Rabkin, che non è certamente un nazista o antisemita, scrive: «I sionisti avrebbero dichiarato guerra a Hitler e al suo Paese molto prima della Seconda Guerra Mondiale, avrebbero chiamato a un boicottaggio economico della Germania, scatenando la rabbia del dittatore (12) (…). Sono questi ‘uomini di Stato’ che nel 1933 hanno organizzato l’irresponsabile boicottaggio contro la Germania (…), che ha portato la disgrazia sugli ebrei d’Europa» (13). Rabkin continua: «Tutti i critici accusano i leader sionisti di essersi occupati più di un futuro Stato che della sorte degli ebrei (…), così molti tentativi di salvare degli ebrei in Ungheria e altrove avrebbero trovato una resistenza da parte dei dirigenti sionisti» (14). Addirittura ci spiega che non gli antisemiti, ma «gli haredim e coloro che provengono dall’ambiente ebraico liberale sono stati forse i primi a paragonare i sionisti ai nazisti (…) per il culto della forza e l’adorazione dello Stato. Questi paragoni, all’epoca abbastanza frequenti, (…) sono stati ripresi dopo dalla propaganda sovietica e, più tardi, da molti media arabi» (15). Le Leggi razziali di Norimberga sono del 1935, due anni dopo la dichiarazione di guerra del giudaismo sionista alla Germania.

Pericolosità apocalittica del sionismo

Secondo molti pensatori haredim «la shoah e lo Stato d’Israele non costituiscono affatto degli avvenimenti antitetici - distruzione e ricostruzione -, ma piuttosto un processo continuo: l’eruzione finale delle forze del male (…). La tradizione giudaica considera rischiosa ogni concentrazione di ebrei in uno stesso luogo. I critici odierni fanno osservare che le previsioni più gravi sembrano realizzarsi, perché lo Stato d’Israele è diventato «l’ebreo tra le Nazioni» e il Paese più pericoloso per un ebreo» (16). Nel capitolo VII del suo libro Rabkin approfondisce questo stesso tema: «Lo Stato d’Israele è in pericolo (…). Quello che veniva presentato come un rifugio, addirittura il rifugio per eccellenza, sarebbe diventato il luogo più pericoloso per gli ebrei. Sono sempre più numerosi gli israeliani che si sentono presi in una ‘trappola sanguinaria’ (…). E cresce il numero di quanti esprimono dubbi circa la sopravvivenza di uno Stato d’Israele creato in Medio Oriente, in quella ‘zona pericolosa’ (…). I teorici dell’antisionismo rabbinico sostengono (…). che la shoah sia solo linizio di un lungo processo di distruzione, che l’esistenza dello Stato d’Israele non fa che aggravare (…). Concentrare (5-6) milioni di ebrei in un luogo così pericoloso sfiora la follia suicida» (17). Analogamente a quanto successe a Masada nel 73. Ma la storia non sembra essere più «magistra vitae».

Conclusione

a) Mentre in «Occidente» i goyjm sono ossessionati dalla shoah, come da «un passato che non passa» (Sergio Romano), in Israele si comincia a capire che la shoah è linizio di un lungo processo di distruzione. Infatti Israele appare una trappola rischiosamente cruenta per i circa sei milioni di ebrei concentrati in un medesimo luogo.

b) Quello che poteva sembrare inizialmente un magnifico trionfo o un bellissimo sogno si sta rivelando sempre di più un terribile scacco e un tremendo processo di auto-distruzione. Giustamente Rabkin vede in Israele un pericolo per l’intera umanità, che potrebbe portare ad una «catastrofe» di proporzioni mondiali.

Per gentile autorizzazione di don Curzio Nitoglia a EFFEDIEFFE.com

www.doncurzionitoglia.com

 


 

1) Yakov M. Rabkin, «Una minaccia interna. Storia dell’opposizione ebraica al sionismo, Verona, Ombre corte, 2005. Sin dalla «Introduzione» l’autore rifiuta ogni tentativo di far passare per antisemita chi rigetta il sionismo in nome della Torah. Infatti lo Stato d’Israele non corrisponde ai canoni religiosi dei rabbini talmudisti, ma è piuttosto «un’entità nazionale nel senso europeo del termine» (pagina 216). Secondo gli ebrei religiosi, invece, «il Tempio può scendere dal cielo in qualsiasi momento (…), affinché nessuno creda che il Tempio sia stato ricostruito da uomini (…). L’intera città di Gerusalemme può solo scendere dal cielo e non può derivare da sforzo umano» (ivi). Confronta anche Avraham Burg, «Sconfiggere Hitler. Per un nuovo umanesimo ebraico», Vicenza, Neri Pozza, 2008. L’autore (nato in Israele nel 1955 da un ministro israeliano, già deputato tra i laburisti e presidente del Parlamento israeliano) spiega che la memoria della shoah ha reso Israele indifferente alle sofferenze altrui. Egli propone di rivalutare la Diaspora di fronte al sorgere di nuove «teorie razziali ebraiche», alla svolta iper-nazionalista ed etnica dello Stato d’Israele e alla definizione del sionismo quasi esclusivamente in rapporto alla shoah, poiché la società israeliana non può vivere all’ombra del passato olocaustico. Burg descrive il Paese in cui vive come uno Stato militaristico e militarizzato, xenofobo, ossessionato dalla shoah, in mano ad una minoranza estremistica, fortemente vulnerabile. Riesce così a demolire alcuni dei pilastri propagandistici su cui si regge lo Stato d’Israele. Il suo libro, apparso in Israele nel 2007, ha suscitato una grande discussione che non si è ancora chiusa.
2) Y. M. Rabkin, citato, retro copertina.
3) Confronta Idem, pagina 168.
4) Idem, ivi.
5) Si dice che Giovanni XXIII essendo un acuto «scrutatore dei segni dei tempi», si fosse accorto che il boom economico degli anni Cinquanta non sarebbe durato a lungo e si sarebbe arrestato verso la fine del Sessanta, così per «risparmiare» sulle certezze, troppo faticose e impegnative, del dogma, volle un concilio economico, «pastorale» o «bucolico», meno impegnativo, dispendioso e al passo coi tempi di crisi che sarebbero venuti, i quali ci avrebbero messo al «verde». E la storia gli ha dato ampiamente ragione. Infatti gli anni Settanta furono quelli della famosa austerity.
6) Anche qui, qualche superstizioso potrebbe dire che tale numero assieme al «13» (aprile 1986, visita di Giovanni Paolo II alla sinagoga di Roma) porta «sfortuna». Siccome un vecchio proverbio recita: «Né di venere né di marte, non si sposa né si parte e non si dà inizio all’arte», il nuovo suona: «né di tredici né di diciassette non si tratta con le sette».
7) Chi volesse può inviare all’indirizzo comitatoeuropeo@gmail.com la sua adesione per la costituzione di un «Comitato europeo per la difesa della libertà di pensiero». Le adesioni devono essere corredate da nome, cognome, qualifica e ogni altra indicazione utile. I dati sono riservati e verranno utilizzati solo per le finalità associative.
8) Fiamma Nirenstein racconta che un piccolo ebreo haredi o religioso «di stretta osservanza»,
istigato dai genitori e dai rabbini, urinò sul piede del generale Moshè Dayàn, che, entrato a Gerusalemme est nel 1967, non aveva voluto occuparla totalmente. Naturalmente il buon generale sabra restò sionisticamente impassibile e «chiuse un occhio» passando oltre.
9) Idem, ivi.
10) Confronta Idem, pagina 187.
11) Idem, pagina 195.
12) «Vim vi repellere licet», insegna il Diritto naturale e romano.
13) Idem, pagina 196.
14) Idem, pagina 198.
15) Idem, pagina 202.
16) Idem, pagine 210-211.
17) Idem, pagine 213-215.

Per quanto riguarda la questione suesposta Giorgio Israel su il Giornale (29 gennaio 2010, pagina 1) scrive: «E’ l’Iran il vero erede dei nazisti» asserisce che Alì Khamenèi, Alì Larjianì e Mamohud Ahmadinejead vogliono la distruzione di Israele e degli ebrei come Hitler. Invece il professore di «Studi iraniani» alla Sorbonne Nouvelle di Parigi, Yann Richard (espulso dall’Iran in quanto antikhomeinista), nel suo ultimo libro «L’Iran de 1800 à nos jours», Parigi, Flammarion, 2009, spiega, con dovizia di riferimenti, che lo Scià di Persia defenestrato nel 1978-79 da Khomeinì era un monarca manipolato da interessi stranieri e soprattutto anglo-americani, in funzione petrolifera e anti sovietica/pan-araba. Quindi quella di Khomeinì (+ 1989) fu una vera rivoluzione che instaurò una repubblica islamica al posto di una monarchia corrotta e asservita agli stranieri. Proprio per questo gli USA finanziarono Saddam Hussein nella guerra contro l’Iran (1980-1988). Certamente l’islam è il valore dominante della repubblica iraniana, ma si tratta di un islam moderno, progressista, aperto alle forme parlamentari, antimperialista e filo-palestinese. Uno dei nemici dell’Iran è l’Afghanistan dei Talebani islamici wahabiti e ferocemente anti-sciiti. In Afghanistan sono stati massacrati circa quindici diplomatici iraniani sciiti dai Talebani wahabiti a Mazar-i-Sharif, nel nord del Paese. Il professor Richard spiega che il vero radicalismo islamico non è quello sunnita dell’Iraq di Saddam, né quello sciita dell’Iran di Ahamdihejead, ma quello wahabita afgano. L’Iran si è schiarato per primo tra i Paesi musulmani con il presidente anti-talebano Hamid Karzài in Afghanistan. Ha lottato contro Saddam anche nel 2003, mentre ha sostenuto gli sciiti libanesi di Hezbollah e i Palestinesi di Hamas. Addirittura l’antigiudaismo non ha nessun peso in Iran dove gli ebrei continuano a vivere con diritto di cittadinanza. I discorsi contro lo Stato d’Israele di Ahmadinejead sono antisionisti e non antisemiti o antiebraici. Essi sono amplificati dai media occidentali mentre l’Iran non ha la forza bellica sufficiente a distruggere Israele. La minaccia nucleare iraniana è più un deterrente che il Paese potrebbe sviluppare in caso di un nuovo conflitto, stile quello del 1980-1988, che un’arma offensiva pronta ad essere utilizzata eventualmente contro Israele. Certamente sin dall’inizio della rivoluzione khomeinista il potere in Iran è oscillato tra «democrazia» (rispetto alla vecchia monarchia dello Scià) e legge islamica. Il problema è stato risolto con una specie di compromesso tra «repubblica» e «islamica», che è l’attuale denominazione dell’Iran: i religiosi hanno la guida del Paese, ma hanno accettato le regole parlamentari, essi si fanno paladini della lotta contro il comunismo, l’imperialismo supercapitalista occidentale (anglo-americano) e dell’appoggio al nazionalismo arabo. Contro Ahmadinejad è in atto una specie di «rivoluzione vellutata» condotta da Moussavì, Karroubì e Khatamì come quelle suscitate dagli USA in Georgia e Ucraina contro Putin.

«Anche alcuni intellettuali laici si chiedono se lo Stato dIsraele non stia andando diritto verso il suicidio collettivo» come successe a Masada il 15 aprile del 73 (Rabkin, citato, pagina 228). «Il tema del pericolo apocalittico che lo Stato d’Israele rappresenta per il mondo intero torna regolarmente nei discorsi antisionisti: la diffusione del terrorismo suicida del Medio Oriente ai quattro angoli della Terra (…). Alcuni rabbini haredim si sono preoccupati per il pericolo universale costituito dallo Stato dIsraele per lintera umanità (…), la creazione di Israele (…) porterebbe a una ‘catastrofe’ [in ebraico ‘shoah’] di proporzioni mondiali» (pagina 229).

 

 

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