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Il Cristianesimo e le altre religioni
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Un lettore scrive:

«Cara redazione,

tempo fa, nonostante i miei mille ragionamenti teologici (che come base hanno la Summa Teologicae di San Tommaso) non sono mai riuscito a spiegare il rapporto fra il Cristianesimo e le altre religioni... Ovvero, molte persone mi hanno obbiettato il fatto che il cristianesimo è un Rinnovamento dell’Antica Alleanza, sublimato dalla promessa della Resurrezione, ma con religioni quali il Buddismo, l’Induismo, i precetti confuciani, il Taoismo e tutte le altre religioni al di fuori dell’ebraismo, non avendo radici comuni, è quindi naturale e logico che non possa essere considerata ‘attendibile’. Ciò nonostante, il Dio di tutti (che crea per amore e vuole la salvezza di tutti) non può, allo stesso tempo, prescindere dal garantire la stessa anche a chi vive, per l’appunto, immerso in una cultura filosofica e teologica estranea a quella di origine ebraica. Io, alle sopra citate affermazioni, oppongo il fatto che pure noi, figli di Roma, vivevamo nell’ignoranza di un ‘paganesimo panteista’ e quindi anche i nostri antenati hanno dovuto ‘riadattare’ la propria tradizione a quella giudaico cristiana e, naturalmente, ciò che è stato possibile a loro è possibile a tutti. Ma secondo voi, in che senso e misura, possiamo affermare che il Cristianesimo supera veramente tutte le religioni esistenti e può essere considerata La Religione (sempre se fosse possibile fare un’osservazione simile)??? Un affettuoso abbraccio da un giovane lettore padovano...

Carlo PD
»

Risponde Luigi Copertino:

Il rabbino Di Segni di recente, criticando la liberalizzata liturgia del Venerdì Santo in latino, ha dichiarato che si tratta di un rito officiato nella lingua dell’odiata Roma pagana che per due volte aveva distrutto Gerusalemme. In questo il Di Segni esprimeva piuttosto il suo post-biblico odio verso la Roma cristiana erede, ad un tempo, del vero ebraismo e di quanto di meglio la romanità ha saputo dare.

Ora, è vero che anche i primi cristiani sono stati perseguitati dagli imperatori romani (a dire il vero piuttosto orientalizzati ossia divinizzati, cosa che era estranea all’originario spirito romano). Tuttavia il Cristianesimo si è poi fatto «romano» senza perdere la sua radice ebraica. Anzi ha addirittura posto il suo centro in Roma, luogo del martirio di Pietro e Paolo ossia di due ebrei  dei quali il secondo, fariseo zelante, con orgoglio rivendicava di essere citadino romano.

Il Cristianesimo in quanto universalizzazione del vero ebraismo, che è cosa diversa dal giudaismo post-biblico, non ha mai distrutto le culture che ha trovato sul suo cammino. Le ha da un lato «purificate» e dall’altro ha da esse preso quanto vi era di preparatorio alla Rivelazione o, se si vuole, di residuale rispetto alla perduta Sapienza adamitica che con il Cristo, Secondo Adamo, è tornata a risplendere nel mondo.

I Padri della Chiesa parlando della cultura filosofica pagana affermavano che in essa vi erano i «semi del Verbo». Lo stesso San Paolo nelle sue lettere loda i valori naturali che riscontrava tra i pagani affermando che essi esprimevano, con quei valori, pur non conoscendo il Dio biblico, quella legge di natura che lo stesso Dio del Sinai aveva iscritto nel loro cuore, come anche sulle Tavole mosaiche.

Il giudaismo post-biblico, rimasto prigioniero del suo esclusivismo, rischia un approccio al resto del mondo o da «tabula rasa» o di netto rifiuto. Un approccio di tipo fondamentalista che il Cristianesimo apostolico non ha mai avuto con nessuna delle culture umane con le quali si è incontrato (il discorso è diverso per il protestantesimo, questo sì fondamentalista proprio perché molto giudaizzante, che infatti, mancando di base apostolica, non è né una religione né una forma di Cristianesimo vero).

Quel che conosciamo delle culture indie, ad esempio, lo dobbiamo ai missionari che, come i monaci amanuensi dell’alto medioevo, hanno conservato e tramandato i documenti pagani che trovavano presso le terre di missione.

Questa attitudine del Cristianesimo si spiega solo ripercorrendo la storia teologica della Rivelazione che è divisa in due grandi fasi, quella adamitica, che va dalla creazione al diluvio universale, e quella abramitica, che va dalla vocazione di Abramo fino a Gesù Cristo. Lo spartiacque è proprio il «diluvio universale».

La Sapienza originaria, che era un dono di Dio nell’Alleanza propria allo stato ontologico dell’uomo precedente il peccato, persa appunto con il peccato, ossia con il prevalere della tendenza autodeificatoria dell’uomo, fu in qualche modo pervertita nel cuore umano in una religiosità dell’eternità ed auto-sacralità del creato (biblicamente parlando si tratta di idolatria di sé o del creato inteso come avulso dal Creatore). Questa religiosità pervertita è definita da alcuni anche come «gnosi spuria». Il pervertimento della vera Sapienza originaria fu graduale fino a diventare globale (vedi la teologica «Babele», nell’episodio tipicamente prometeico della scalata umana al Cielo, la famosa «Torre», senza l’ausilio della Grazia: Babele sul piano biblico-teologico corrisponde alla storica Babilonia con le sue cosmogonie mitiche di tipo appunto «gnostico-idolatrico»). Solo pochi, come Noé, conservarono, secondo la prospettiva storico-teologica della Bibbia, il ricordo del Nome dell’Altissimo, ossia della Rivelazione originaria. Tramite questi pochi la Rivelazione trapassa da un’epoca all’altra della storia della salvezza, insieme naturalmente alla religiosità pervertita, causa quest’ultima dell’ira di Dio ed in fondo dello stesso diluvio.

Nella fase abramitica della storia della salvezza, questa religiosità pervertita è identificata, nella Bibbia, con il paganesimo connesso con i culti della fertilità, praticato (non senza anche sacrifici umani) dai popoli circumvicini a quello israelitico. Nella prospettiva veterotestamentaria è questa religiosità panteista che ha causato l’allontanamento dell’uomo adamitico da Dio trascendente.

Il «filo rosso» della Rivelazione, dopo il diluvio, viene depositato presso personaggi come Melchisedeq, Re di Salem (=Gerusalemme) e Sacerdote dell’Altissimo. Si tratta di pagani (Melchisedeq era cananeo) come del resto era pagano lo stesso Abramo prima di essere chiamato e di ricevere proprio da Melchisedeq il Deposito della Rivelazione. Che in tal modo si «incarna» nella storia di un popolo, l’unico in un mondo del tutto «pagano» ad essere portatore della originaria fede monoteista nel Dio trascendente, e poi, secondo le promesse messianiche, si incarna definitivamente e realmente nell’Uomo Universale Gesù Cristo.

La Chiesa per tale via è chiamata ad adempiere, subentrando ad Israele, la missione universale di salvezza. E questo significa che la Chiesa ha accolto, per modularlo sulla fede del Vero Israele, ossia sulla Rivelazione originaria di cui ora è Essa la depositaria, quanto di vero e di buono pur si conservava nelle culture extrabibliche, in quanto ciò altro non era che quel residuo di verità che in esse permaneva pur nella degradazione seguita al peccato originario. Del resto, quando iniziò la predicazione apostolica, tra quelle di area mediterranea delle culture extrabibliche si era da tempo abbandonato il paganesimo popolare ed era nata una altissima cultura filosofica, che tuttavia non poteva, senza la Rivelazione, superare l’intrinseco panteismo che le era proprio benchè avesse filosoficamente intuito la «Trascendenza immanente» del Dio biblico.

Una cultura filosofica nella quale i Padri, come detto, videro ispirati i semi del Verbo quasi in una sorta di «antico testamento» riservato ai pagani, per prepararli ad accogliere Cristo. Quando, secoli dopo, un Matteo Ricci va in missione in Cina seguirà lo stesso tipo di approcciò cercando nel confucianesimo, più che nel taoismo, i semi del Verbo.

Luigi Copertino


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